Servizio di Presa Diretta, da vedere. La Milano descritta è quella della solitudine, resa strutturale – letteralmente – dalle nuove tendenze immobiliari. Che separano le funzioni: casa con case, negozi con negozi, una scuola ogni tanto. Si rischia di meno, dicono gli esperti: lo sviluppatore (chi costruisce, cioè) non rischia il negozio fastidioso sotto i portici, men che meno chiassosi assembramenti. Metti la macchina in garage e sali con l’ascensore dritto fino a casa senza incontrare nessuno: lì ti aspetta Alexa, il metaverso o qualunque scemenza digitale prodotta in questi anni. C’è, però, il punto di ritiro per i pacchi: il commercio elettronico, così impersonale, è il perno dei nuovi aggregati come Cascina Merlata. Ogni tanto, come accaduto a Santa Giulia, si scopre che non hanno fatto le bonifiche e si abita sotto le scorie: e, a occhio e croce, c’è da aspettarsi altri casi, nei prossimi anni.
Ma la vita, osserva uno degli intervistati, sono proprio quegli incontri a volte indesiderati, quella fastidiosa mescolanza: evitarli è una scorciatoria per ridurre il dolore; ma, al contempo, rinunci alla gioia. Un Prozac di mattoni e vetro. Che funziona, aggiunge la docente Elena Granata, fino a che stai bene. Ti crei una bolla domestica in cui vivere connesso, e uscire (se si è fortunati) per gli happy hour, i weekend all’estero, le cinquantadue something week che caratterizzano la Milano degli ultimi anni.
Come sottolinea Manfredi Catella, patron di Coima, uno dei più grandi sviluppatori immobiliari italiani, ognuno fa il suo mestiere. E’ alla politica che spetta il compito di stabilire le regole, dice: gli affari, sintetizzo, restano affari. Catella è uno degli uomini più potenti in città: per influenza e relazioni stacca di gran lunga il sindaco del capoluogo lombardo. Con il vantaggio di non essere legato a nessuna famiglia politica, e poter, quindi, lavorare con tutti, indipendentemente dal colore.
Un amico mi diceva di vivere a Maciachini. Pensavo fosse un po’ fuori. “Guarda che tutta Milano è centro: fra qualche anno non ci sarà differenza, vedrai”. Non comprendevo. Poi sono passato in viale Isonzo, circonvallazione esterna, le colonne d’Ercole tra due mondi: l’inizio della fine. Una volta, forse. Dietro al vicino scalo di Porta Romana, dove sorgerà il Villaggio per le Olimpiadi invernali senza montagna dell’anno prossimo e che diventerà uno studentato una volta archiviato l’evento, vedo un capannello di ragazzi: l’italiano è una lingua staniera, quella ufficiale è l’inglese. Sono gli ospiti del primo edificio del complesso, riuniti nella pizzeria costruita lì sotto. Stessi vestiti, stessi profumi, stessi discorsi dei coetanei di Londra, Varsavia, Madrid. Stesse ambizioni (Ral, e beato chi non capisce l’acronimo): stesso retroterra economico (privilegiato) e culturale (in massima parte, figli di professionisti), che possono pagare 1.500 euro al mese per una stanza con bagno e cucinino, oltre alla retta delle università private più à la page. Era periferia, ed è stata inghiottita dal centro: a pochi passi c’è la Fondazione Prada, che, quanta lungimiranza, quindici anni fa investì nell’area, diventandone il perno. Più dietro viale Ortles, dove c’è un dormitorio per senzatetto, chissà per quanto. A quel punto ho capito. “Fanno il deserto, e la chiamano pace”: mi vengono in mente le parole di Tacito, un risuonare sinistro e senza tempo per una città che sta perdendo l’anima.
Servizio pessimo, estremamente superficiale, forse fazioso. La realtà di Cascina Merlata punta ad essere e, per molti aspetti già lo è, l’opposto di quello che viene descritto.
Cascina Merlata è l’opposto di quello che viene descritto. Quanta superficialità!