Alla fine ce l’ha fatta. A poco più di tre anni dal referendum del 2016, Boris Johnson è stato nominato alla guida del partito Conservatore, il che, in questo contesto politico e a meno di colpi di scena, significa che prenderà il posto della dimissionaria Theresa May al numero 10 di Downing Street.
Il personaggio possiede un che di diabolico. A partire dallo “schema” con cui è giunto a fare il premier. Brexiteer della prima ora, si è guardato dallo sporcarsi le mani il giorno dopo la vittoria: troppo confusi gli umori, e la trattativa per portare a casa il testo di un accordo mal si addiceva a un carattere esplosivo come il suo. Con lui premier, il tavolo sarebbe saltato all’istante, assieme forse alla sua carriera. Di questo l’uomo era ben consapevole. Meglio ritagliarsi il ruolo del correttore di bozze, e lasciare ad altri la fatica di due anni di estenuanti braccio di ferro.
Meglio mandare avanti l’ambiziosa Theresa, che da bambina voleva essere la Thatcher, e ha provato, con piglio da studentessa determinata, a portare a casa la missione e l’accordo con Bruxelles, prima facendo la voce grossa (immortale il mantra “Brexit means Brexit” , ma non ci credeva neanche lei , il cui cuore batteva, tiepidamente, per restare), e poi vieppiù ammorbidendo la linea di fronte alla compattezza, inusitata, di Bruxelles.
L’ex sindaco di Londra preferì – lui! – restare in seconda fila, a recitare la parte del duro. Entrò nel governo May, ma ne uscì in fretta come chi molla tutto di fronte, si passi il gioco di parole, alla mollezza della leader.
Oggi Johnson si avvia a diventare premier. Porta in dote, oltre alla capigliatura biondo platino, le stesse uscite intemerate e vita privata traballante di sempre. Pochi giorni fa le urla provenienti dalla casa in cui stava trascorrendo la notte con la nuova fiamma hanno spinto i vicini a chiamare la polizia. Ma è solo un esempio, tra i tanti.
A fine maggio il Brexit Party del redivivo Farage ha sbaragliato la concorrenza alle elezioni europee, consultazione che non avrebbe mai dovuto tenersi. Preoccupati che l’uscita saltasse, i Leavers hanno deciso di votare in massa un partito costruito in poche settimane, e, soprattutto, privo di programma politico per gestire il “dopo”.
Johnson è la risposta dei conservatori, e ha cento giorni per portare a casa la Brexit. Con un vantaggio rispetto alla May. Dal suo punto di vista, il no-deal non è un problema, il che gli consente di giocare le proprie carte con tranquillità. Accada quel che accada, anche il disastro economico: l’uomo non si sentirà responsabile. Perché il problema è proprio che i politici, alla fine, sono esseri umani, soggetti alle stesse passioni e narcisismo di chiunque altro.
Francamente assisto interessato e in parte incredulo a quello che sta accadendo al Regno Unito, un tempo esempio di understatement, equilibrio e moderazione e oggi sempre più simile a un’Italietta qualsiasi.
Può essere che Johnson decida di convocare nuove elezioni per rimediare un mandato popolare che al momento non ha – si trova nella situazione di Renzi nel 2014, per capirci. Sarà interessante vedere il risultato, in tal caso, perchè in corsa ci sarà anche Farage.
Sta di fatto che molto del successo di questa strana accoppiata popul-sovranista si deve all’inconcludenza di Jeremy Corbyn, leader del Labour troppo a sinistra per cedere alla UE, ritenuta un covo di capitalisti. Un mucchio di banchieri che, però, predica l’economia sociale di mercato, e si sa che le politiche redistributive costano buona parte del bilancio di Bruxelles. Corbyn pensa davvero a un Regno Unito socialista lontano dall’Unione? (L’alternativa è che si tratti di un altro caso di narcisismo politico. Il terzo, assieme ai due citati sopra. Che vinca il migliore).