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WeTransfer punta sulla sostenibilità e sfida Microsoft. L’intervista al Ceo Willoughby

È uno dei servizi più popolari al mondo, “uno di quelli – racconta il ceo – a cui gli utenti sono più fedeli”. Sono in pochi a non aver mai inviato un file con WeTransfer, magari ingannando l’attesa con uno dei quadri presenti in home page. Nata in Olanda nel 2009 dall’idea di due ragazzi stanchi di spedire chiavette USB in giro per la città con i corrieri, di acqua sotto i ponti, in un decennio, ne è passata parecchia. La rivoluzione tecnologica, e non solo. Nuovi stili di vita, abitudini consolidate messe in soffitta, Greta Thunberg in prima pagina su tutti i giornali e una pandemia che sta cambiando il mondo.

Contestualizziamo. Dieci anni fa, il climate change era un’argomento buono a riempire i buchi quando le redazioni non avevano di meglio da scrivere. I freelance erano figure mitologiche, i grandi gruppi del coworking erano di là da venire. Ai tempi, attaccata al portachiavi di molti faceva bella mostra una pen drive. Nei negozi – sembra preistoria – si vendevano ancora i cd. Il cloud c’era già, ma se ne parlava poco. Per trasferire contenuti di grosse dimensioni esistevano le “gigamail”, certo, ma bastavano a malapena per qualche foto; chi voleva di più doveva ricorrere a servizi professionali, quindi a pagamento. Un costo quasi mai giustificato.

La realtà di oggi è profondamente mutata. La “nuvola” ha mandato in soffitta i vecchi device, mentre gli smartphones sempre più potenti, le connessioni veloci e una serie di nuovi software consentono di lavorare in mobilità. La storia di WeTransfer è quella di un’azienda nata intercettando un bisogno del mercato ma capace di  adeguarsi al cambiamento incessante, e che per sopravvivere alla giungla digitale ha scelto di puntare su un asset estremamente potente: la community.

Quella dei grafici, dei liberi professionisti, dei freelance. In una parola, il popolo dei creativi. Quello che era un semplice servizio di trasferimento file ha cambiato pelle di anno in anno, e oggi, oltre e oltre al core business, propone un ecosistema di prodotti, tra cui un digital magazine focalizzato sui nuovi artisti internazionali che vanta collaborazioni con Bjork e la Nelson Mandela Foundation e un tool, Paste, che prova  a sfidare il monopolio di PowerPoint.

Abbiamo incontrato il ceo Gordon Willoughby, ex di Amazon, che ci ha spiegato come, nonostante la recente certificazione B-Corp, quello di WeTransfer resti “proper business”. “Non siamo una charity o una ONG” ha sottolineato. Ma la scelta di spostare l’attenzione dal mero conto economico alle persone, a sentir lui, paga. Anche nel tech.

Gordon Willoughby (ceo WeTransfer): “La nostra community? Meglio di Apple”

 

StartupItalia: Cominciamo dalla fine, cioè dalla notizia più recente. WeTransfer ha recentemente ottenuto la certificazione B-Corp. Perché avete scelto di intraprendere questo percorso?

Gordon Willoughby: A dieci anni dalla fondazione ci siamo chiesti: che tipo di business vogliamo essere nei prossimi dieci? Da qui, la scelta di puntare a diventare B-Corp è stata logica, anche se si tratta di sottoporsi a un processo molto rigoroso che prende in esame 5 o 6 aree, senza limitarsi a quella finanziaria.

StartupItalia: Pensa che essere sostenibili sia cool? Suggerirebbe lo stesso percorso ad altre compagnie tech?

Gordon Willoughby: Non definirei il nostro percorso come “cool”: direi, piuttosto, che è necessario. C’è una crisi climatica in corso: diventare B-Corp non significa essere una charity né una ONG ma diventare sostenibili. Il problema è come continuare a fare business in senso stretto, ma farlo pensando al bene comune.

StartupItalia: Ci sono altre società tech che hanno fatto la stessa scelta?

Gordon Willoughby: Pensiamo di essere una delle più grandi tech company a diventare B-Corp. Siamo l’esempio del fatto che anche nel nostro settore è possibile.

StartupItalia: In che modo l’adesione a questi standard si rifletterà sulla vostra attività? Non è un mistero che il traffico di dati sia molto inquinante per una serie di fattori che vanno dai consumi elettrici al raffreddamento dei data center. Insomma: al di là dello storytelling, come farete ad essere davvero sostenibili?

Gordon Willoughby: La squadra di B-Corp che certifica le aziende ha valutato l’impronta ecologica di WeTransfer guardando al complesso delle nostre attività, non solo, quindi, alle emissioni di anidride carbonica. Ad esempio, il consumo di acqua all’interno dell’azienda: adesso abbiamo un water management system che prima neanche immaginavamo. Ma c’è anche un altro tema importante: quello della filiera. Preferire fornitori sostenibili abbatte le emissioni, e la nostra supply chain è improntata a questo. Per questo usiamo data center di un’azienda che ha intrapreso un percorso in questo senso.

StartupItalia: C’è altro?

Gordon Willoughby: Facciamo ricorso moderato a viaggi di lavoro e pendolarismo. Il telelavoro ha funzionato meglio e molto più facilmente di quanto immaginassimo. E, diciamocelo, è anche più popolare tra i dipendenti. Insomma, stiamo diventando una remote company: dopo la crisi Covid, ci aspettiamo che i dipendenti vadano in ufficio non più di due giorni a settimana.

StartupItalia: Per sempre?

Gordon Willoughby: È una sperimentazione che durerà sei mesi, ma speriamo di mantenere questa policy per sempre dopo averne verificato i risultati. Inoltre, abbiamo cominciato a comprare prodotti locali e valutiamo nell’ottica della sostenibilità anche l’hardware che acquistiamo, dai laptop agli smartphone aziendali.

StartupItalia: Credete che rispettare questo tipo di vincoli avrà un impatto dal punto di vista finanziario?

Gordon Willoughby: Lo scorso settembre, quando sono andato dal board a proporre di diventare B-Corp, ho affermato tre cose. Innanzitutto, che è la scelta giusta da fare: molti dei nostri users fanno parte della comunità dei creativi, sono estremamente consapevoli della crisi climatica e vogliono davvero comportarsi in maniera responsabile: quindi questo percorso rende il nostro brand più forte.

StartupItalia: Quali sono le altre due?

Gordon Willoughby: La seconda è che una società responsabile dal punto di vista ambientale è più attrattiva per potenziali dipendenti: ci aiuta a trovare nuove persone di talento e a trattenere quelle che già abbiamo. E questo, in città molto competitive come Londra, New York, Los Angeles, è un punto decisivo per molti dei candidati a cui facciamo colloqui. Infine, credo che questo atteggiamento crei una investment proposition più attraente.

StartupItalia: Lasciamo per un momento da parte la sostenibilità. Qual è, se dovesse individuarlo, il main asset di WeTransfer?

Gordon Willoughby: Penso sia il brand e quello che rappresenta per i nostri utenti. Cerchiamo di produrre dei tool che rendano più semplice il lavoro di chi li usa e credo che questo sia il nostro valore principale: il fatto che la gente pensi a WeTransfer come a un mezzo per facilitare la propria creatività.

StartupItalia: Quindi il vostro asset principale è la community?

Gordon Willoughby: In un certo senso, sì. Abbiamo un legame molto stretto con la user base. Una delle cose che mi ha attratto verso WeTransfer da Amazon, dove lavoravo prima, è stata proprio la community, come la chiama lei.  Abbiamo uno tra i net promoter score (l’indice che valuta la fedeltà in una relazione impresa-cliente, ndr) più alti tra tutte le tech company, tra 70 e 80 punti, il che ci posiziona sopra a società come quella di Bezos ma anche a Netflix o Apple. Questo comporta enormi vantaggi, tra cui il fatto che la community è molto aperta nei riguardi di tutte le iniziative che decidiamo di intraprendere.

StartupItalia: Quanto vale WeTransfer?

Gordon Willoughby: È una private company, quindi non è quotata…

StartupItalia: Chi sono i vostri competitors al momento?

Gordon Willoughby: In generale, nessun’altra società fa quello che facciamo noi, perché abbiamo in portafoglio cinque prodotti che coprono tutto il flusso di lavoro creativo. Quindi, se le lo consente, risponderei separatamente. Dal punto di vista del trasferimento dati, potrei dire DropBox, anche se il servizio che forniamo non è esattamente lo stesso. Se guardiamo al nostro digital magazine, che si focalizza su idee in grado di ispirare, penso ad aziende come Monocle. Se guardiamo a Paste, lo strumento per presentazioni, non c’è un competitor diretto: è pensato in maniera nativa per essere collaborativo, mentre gli altri sono stati progettati in un’ottica di lavoro individuale. Ma è la combinazione ciò che ci rende unici.

(In realtà il competitor di Paste è Power Point: Willoughby non lo dice,  forse per non peccare di presunzione, ma lo aggiungiamo noi, ndr).

StartupItalia: A proposito del magazine: vi definireste un editore?

Gordon Willoughby: Ovviamente con il nostro magazine produciamo contenuti. Ma vendiamo anche pubblicità, se intende questo. Il core business di WeTransfer resta free, e il servizio gratuito è completamente pagato dall’advertising business: il che è un grande vantaggio. Abbiamo anche tre milioni di utenti premium: abbastanza unico, come business model.

StartupItalia: Il servizio base di WeTransfer resterà gratuito per sempre?

Gordon Willoughby: Sì, abbiamo intenzione di mantenerlo tale.

StartupItalia: Mi descriva l’utente medio di WeTransfer.

Gordon Willoughby: Sin dall’inizio ci siamo focalizzati sulla comunità creativa in senso lato. All’interno di questa, direi che sono i freelance e le piccole aziende. Ci sono anche alcune grandi compagnie che utilizzano il nostro servizio, ma il nostro pubblico è in massima parte quello cui accennavo poco fa. Abbiamo circa 60 milioni di utenti al mese: fotografi, videomaker, architetti, ma anche ingegneri civili, creativi in una maniera differente. Ma ci sono anche gli sviluppatori, che trasferiscono grandi pacchetti di codice.

StartupItalia: E riguardo all’età?

Gordon Willoughby: Direi che si assesta tra i 30 e i 35 anni.

StartupItalia: Nel giro di un decennio abbiamo completamente abbandonato i CD e le chiavette USB. Quali sono le tendenze nel settore del data transfer?

Gordon Willoughby: Al momento vediamo 2 trends. Il primo è un’enorme espansione dei contenuti digitali creati, cui si accompagna un aumento della complessità: con il passaggio da 4K a 8K i file diventano sempre più grandi. Il secondo, come suggerisce uno studio di Mc Kinsey, è che, solo in America, nei prossimi dieci anni ci saranno dieci milioni di freelance in più.

StartupItalia: Quindi?

Gordon Willoughby: Anche se non siamo una enterprise company, quello che vediamo è che molte grandi aziende stanno cominciando a operare in maniera simile ai freelance, con numerosi piccoli gruppi di progetto, multifunzione e multipaese. Il che significa che il workflow sta cambiando per tutti, e sta diventando simile a quello dei liberi professionisti. Dicevo, anche se non siamo enterprise company, stiamo entrando in quel settore perché il loro modo di lavorare sta cambiando, e lo sta facendo proprio nella nostra direzione.

StartupItalia: Lo smart working è il tema del momento. Pensa che il modello di compagnia basata su un headquarter appartenga al passato?

Gordon Willoughby: Gli head office sopravviveranno. Quello che è cambiato è che diventeranno sempre più posti in cui incontrarsi, e sempre meno posti dove la gente si siede davanti a uno schermo per lavorare.

StartupItalia: Ultima domanda: pensa che qualcuno nel futuro possa essere interessato a rilevare WeTransfer, ad esempio Microsoft, o a una exit?

Gordon Willoughby: Uno dei più grandi punti di forza di WeTransfer è di essere finanziariamente sostenibile. Direi che al momento non è all’orizzonte.

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Medellín, l’ex capitale dei narcos è diventata la casa delle startup

Questo articolo è stato pubblicato su Wired

Sei piani, porte a vetri, arredamento moderno. Dista un paio di chilometri dal centro, si chiama Ruta N e da dieci anni è l’acceleratore di startup di Medellín. Tra gli ampi corridoi si aggirano giovani che per sogni, speranze e preparazione sono simili a quelli delle città europee e nordamericane. Spesso hanno studiato all’estero, in molti casi sono tornati. Per restare. Sono loro l’avanguardia della rivoluzione digitale che sta portando la Colombia verso una modernità, per larghi versi, ancora lontana.

Medellín-Milano e ritorno

Era il regno dei narcos, con un tasso di omicidi da zona di guerra. La vita valeva poco a Medellín, quando Pablo Escobar dettava legge e, per sfidare le istituzioni, si faceva persino eleggere in Parlamento. Freddato dalla polizia nel 1991 nel corso di un rocambolesco inseguimento, quella che oggi è la capitale industriale della Colombia si è ritrovata a gestirne il lascito: un’eredità terrificante fatta di cocaina e violenza, un brand globale della paura che non temeva rivali.

Da allora sono trascorsi trent’anni, e le tracce di quel passato servono a spillare quattrini ai turisti sulle bancarelle che vendono souvenir. Medellìn oggi vive tutte le contraddizioni delle metropoli dell’America Latina. La droga non è sparita: si vedono spesso tossicodipendenti malridotti per le strade, ragazzi che sniffano colla.  Ma non è più solo questo. Gemellata con Milano e Bilbao, in tre decenni ha cambiato volto, grazie a un attento lavoro di ricostruzione.

L’ingresso di Ruta N a Medellin (foto dell’autore)

Felipe Vanegas ha una laurea in architettura, un passato a Milano e un presente ben saldo nella città colombiana. Dopo gli studi nell’ateneo locale, ha trascorso un anno alla Domus Academy per frequentare un corso di Business design prima di staccare il biglietto di ritorno. L’incontro avviene mentre discute con alcuni colleghi in uno dei tanti angoli dedicati al networking di Ruta N. Si offre di fare da guida all’interno del complesso. Insiste per parlare italiano. “Dopo l’esperienza da voi – racconta – sono tornato qui per aprire la mia azienda. Ci occupiamo di consulenza nel settore gastronomico e realizziamo anche workshop”. Perché a Medellín? “È il vero centro dell’innovazione del paese, ancora più della capitale Bogotà: in tanti vengono qui a cercare fortuna da tutto il Sudamerica”.

La “città dell’eterna primavera” strappata ai narcos con un’opera di riqualificazione ambiziosa, nel 2013 ha vinto il premo di Most Innovative City in the World, davanti a competitor molto più blasonati come New York e a Tel Aviv. E non ci sta a restare dietro alla capitale. “E perché dovremmo? Siamo probabilmente più avanti rispetto al resto del paese” rilancia Sergio Naranjo, responsabile della comunicazione di Ruta N. “La Colombia investe lo 0,69% del bilancio in innovazione: a Medellín ci attestiamo all’1,24%. Quasi il doppioBogotà è la capitale, il posto dove si prendono le decisioni politiche ed economiche: ma qui c’è integrazione tra l’ecosistema delle startup e il territorio, che si tratti di pubblica amministrazione o del tessuto universitario. Il futuro? Ci candidiamo a essere il prossimo hub dell’innovazione in Sudamerica”. D’altronde il Cile, per anni Mecca locale della tecnologia, è oggi attraversato da tensioni politiche. E il Brasile, con i suoi contrasti tra lusso e povertà estrema, resta un posto troppo pericoloso per gli affari.

La voce ha cominciato a spargersi. Diverse multinazionali hanno deciso di investire in Ruta N, attirate dal cambio estremamente favorevole e dagli stipendi bassi (il salario minimo in Colombia si aggira attorno all’equivalente di poco più di 200 euro). Le imprese occidentali “fanno la spesa” e cominciano a cercare qui le professionalità di cui hanno sempre più bisogno. Quelle che, oggi, in Europa, costano troppo: esperti di intelligenza artificiale, data analysts, ingegneri. La delocalizzazione ha trovato un’altra meta.

I numeri raccontano una storia che ha già diversi capitoli. Da quando è nato, l’acceleratore ha attratto oltre 400 milioni di dollari in private equity, e le oltre 200 aziende presenti nell’edificio provengono da 31 paesi differenti, Stati Uniti e UE in testa. Tra i big, nomi come UPS, Black&Decker, Accenture. Una scrivania o un ufficio nel palazzo, ha verificato Wired, costano poco meno che a Milano. Cifre che, da queste parti, possono permettersi in pochi. Ma le relazioni, si sa, contano: e, per fare affari con la modernità in Colombia, è questo il posto dove essere. A tutti i costi.

Viaggio nel passato

Lasciamo Ruta N, il suo acciaio e i suoi vetri.  Camminando verso il centro della città, la Colombia torna a essere un paese in cerca di futuro. Officine meccaniche, negozi di frutta, vestiti usati, elettronica di consumo si affastellano uno sopra l’altro. Bancarelle di mercato, giornalai coloratissimi. Vecchi col cappello che giocano a carte. Qualcuno che con una chitarra canta canzoni popolari, e subito si forma un capannello di gente. Bambini giocano per strada, venditori ambulanti offrono minutos, chiamate telefoniche acquistate in blocco e rivendute al dettaglio ai passanti. Scordatevi gli abbonamenti flat.

La presenza di un europeo si nota ancora, eccome, e conviene ricordarsi di non dare troppo nell’occhio. Nonostante questo, nella città simbolo del dramma colombiano ci si sente decisamente più sicuri che a Bogotà: nella capitale, ogni bar, albergo, persino ogni università si presenta agli occhi di chi arriva con un corredo nero di guardie torve armate fino ai denti.

Parcheggiati di fronte ai muri fanno bella mostra di sé i monopattini elettrici usati dai giovani per scorrazzare sui marciapiedi come accade Milano, Parigi, Varsavia. Ma non solo: Medellìn è l’unica città in Colombia ad avere una rete di metropolitana. E una delle due linee è completamente automatizzata e senza conducente.

Chitarre e canti popolari nel centro del Medellin (foto dell’autore)

Rappi, dal food delivery alla salute

Poblado è il quartiere alla moda, dove si concentra la vita notturna cittadina. Qua si trova ogni tipo di cucina, e quando si avvicina ora di cena anche qui sfrecciano veloci i ragazzi del food delivery.

Macchine occidentali al Poblado, quartiere della movida di Medellìn (foto dell’autore)

Il principale player colombiano (e di tutto il Sudamerica) si chiama Rappi: un unicorno da oltre 3 miliardi di dollari di valore. L’ultimo round (series E) chiuso dall’azienda di Felipe Villamarin, Sebastian Mejia e Simon Borrero risale al 30 aprile scorso, e ha portato circa un miliardo di dollari di liquidità nelle casse della compagnia fondata a Bogotà nel 2015, e oggi attiva in 35 città. Questa volta i soldi li ha messi (tra gli altri) il gigante SoftBank, che ha recentemente aperto un proprio Innovation Fund ed è decisa a investire in America Latina. I rumours raccontano di parecchi licenziamenti nelle ultime settimane, ma stiamo parlando di un player, Rappi, capace di diversificare, e che guarda già avanti.

Un rider di Rappi a Bogotà (ph: Antonio Piemontese)

Attualmente, infatti,  l’azienda fondata a Bogotà si occupa solo di food: ma l’idea è quella di aprire presto, prestissimo ad altri settori. Come l’healthcare.

Sarà per questo che anche la francese Sanofi ha messo nel mirino la scale-up colombiana: lo scorso marzo le due realtà hanno siglato un accordo per portare le medicine direttamente a casa dei pazienti. Per Juan Sebastian Ruales, direttore commerciale di Rappi, “non conta quello che le persone dicono di fare ma quello che mettono nel carrello. Se dici di essere in forma ma poi acquisti un mucchio di hamburger su Rappi, sappiamo che non lo sei poi tanto”. Non fa una piega. Il business è, ovviamente, quello dei dati. Per il momento, Sanofi avrebbe intenzione di utilizzare Rappi solo come veicolo pubblicitario. Ma nei piani della scale-up per il prossimo futuro ci sarebbero la consegna di farmaci da banco, prescrizioni, e persino la prenotazione di visite mediche domiciliari. Le sinergie sono tutte da creare.

Sudamerica 4.0

Il Sudamerica è un mercato da centinaia di milioni di persone in cerca di benessere. La gig economy è arrivata anche qui. Molti dei ragazzi che effettuano le consegne per Rappi fanno parte di quel milione e mezzo di venezuelani scappati dalla crisi del paese centro-americano. Il salario minimo in Colombia ammonta a poco più di 200 euro: loro lavorano per la metà. Facile immaginare che non siano ben visti dalla gente del posto.

Anche Uber ha piantato la propria bandiera. Nelle grandi città, a fianco dei taxi ufficiali – tantissimi e a buon mercato, almeno per il turista – c’è sempre l’opzione di prenotare una corsa con il gigante californiano della mobilità. “Non è del tutto legale” – confida Armando, nome di fantasia di un autista che preferisce non rivelare la propria identità – “Quando la vettura che hai prenotato arriva, ad esempio, non puoi fermarla e chiedere se si tratta di un Uber. Facile che chi è alla guida non ti risponda, perché, altrimenti, per la legge farebbe concorrenza ai taxi. Direi che, più che illegale, è a-legale. Una zona grigia in cui, comunque, si riesce a lavorare bene”.

Comuna 13: una scala verso il cielo

La mattina dopo con Armando si arriva alla Comuna 13, il barrio di Pablo Escobar. Qui il super boss regnava incontrastato, da qui governava il paese. Oggi all’interno di case dai muri poveri e tetti in lamiera ci sono computer e parabole. Tanti ragazzi hanno studiato l’inglese e si offrono come guide per i turisti alla ricerca di uno scorcio diverso di Medellín.

Medellin, vista dall’alto del barrio Comuna 13 (ph.: Antonio Piemontese)

Su tutto, domina un’enorme scala mobile che dalla base – il barrio si trova in collina – conduce fino in cima. Non è raro trovare persone che hanno visto morire parenti colpiti da sventagliate di mitra. Ma l’ascensore sociale rappresentato dalla scala è il simbolo della volontà di molti degli abitanti (e dell’amministrazione) di scrollarsi di dosso l’infamia del passato.

Nel quartiere le brutte compagnie sono ancora facili da trovare: tredicenni che hanno marinato la scuola sniffano a cielo aperto senza curarsi di noi. La salvezza è rappresentata da un computer. Anni fa, racconta Josè, venticinquenne che si è inventato un lavoro da guida, il laboratorio di informatica inaugurato nell’istituto locale ha permesso agli studenti di connettersi con il mondo e immaginarsi un futuro all’occidentale. Così, di video in video, si ritrova un inglese perfetto, con cui guadagna in pregiati dollari americani.

Adesso vuole aprire un ostello internazionale per ospitare coetanei nel quartiere dove è cresciuto, non prima di aver girato il mondo nelle case dei turisti che accompagna. Il networking, segno dei tempi. In realtà, Josè sa che senza lavoro la tentazione dei narcos è più allettante: e forse il turismo, come il digitale e le startup, possono davvero aiutare la Colombia a svoltare. Non sarà facile. L’anno scorso è stato un anno record per le esportazioni di cocaina, larghe zone del paese sono insicure e la violenza delle bande è reale. Ma qualcosa è cambiato dai tempi di Pablo. C’è voglia di riscrivere un futuro che pareva già segnato. E, anche questo, si respira nell’aria.

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Da Harvard a Palermo, storia degli occhiali che aiutano chi soffre di ictus e dislessia

Questo articolo è stato pubblicato su StartupItalia.

Fare ricerca, fare impresa, farlo al Sud. La storia di Massimilano Oliveri, neuroscienziato specializzato ad Harvard, comincia nella città natale, Palermo. Oliveri ha sviluppato un protocollo riabilitativo in grado di potenziare la plasticità cerebrale del paziente con metodi non invasivi e innovativi. “L’idea nasce dalla ricerca scientifica nell’ambito delle neuroscienze – racconta a StartupItalia – Se indossiamo degli occhiali con lenti prismatiche, cioè lenti che deviano il campo visivo verso destra o verso sinistra, gli oggetti non vengono percepiti nella reale posizione, ma spostati. Noi abbiamo scoperto che questo errore viene rilevato dal cervello, che poi mette in atto dei meccanismi di compensazione: dopo poche prove il soggetto si adatta e non commette più l’errore”.

“Questo processo – continua il medico, che è professore ordinario all’Università di Palermo – porta ad attivare delle specifiche aree cerebrali e a potenziarne la plasticità. Abbiamo, quindi, provato a verificare se ciò  si traduceva in un beneficio per i pazienti con patologie neurologiche, o condizioni meno gravi come le dislessie: se si aveva, cioè, un beneficio cognitivo. E abbiamo riscontrato, ad esempio, miglioramenti dei disturbi spaziali e del linguaggio nei pazienti con ictus, mentre i bambini con dislessia e difficoltà di lettura potevano diventare più veloci a leggere. Ma migliorava anche chi soffre di deficit di attenzione”.

Il risultato si ottiene ruotando le lenti in modo tale da andare a potenziare l’attivazione delle aree del cervello coinvolte nel disturbo. “Gli occhiali restano gli stessi, modifichiamo solo l’inclinazione delle lenti; con il nostro programmatore abbiamo, inoltre, costruito un software di esercizi – quelli che chiamiamo serious games –  da svolgere mentre si indossa il device per ottenere il beneficio clinico”.

 

 

Rivolto a un pubblico professionale

Il prodotto si chiama MindLenses ed è rivolto a un pubblico professionale di psicologi, psichiatri, logopedisti, neurologi ma anche a strutture come ospedali e cliniche. Il trattamento prevede 10 sessioni da 30-40 minuti ciascuna da svolgersi in due settimane sotto la guida di un operatore. Sia la scelta degli esercizi che quella delle lenti avvengono sulla base della tipologia di danno che il cervello ha subito: sarà il medico o lo psicologo a prescrivere.

Restorative Neurotechnologies è nata a dicembre 2018 dopo una lunga fase di ricerca scientifica. E’ una costola di Neuroteam, società spin off dell’Università di Palermo, che ha ricevuto 110 mila euro da SocialFare Seed ed è stata selezionata per un percorso di accelerazione. Cominciato a settembre, il percorso è terminato il 24 gennaio con la presentazione della società agli investitori. I prossimi passi prevedono l’ottenimento la certificazione ministeriale di dispositivo medico di classe 1 e l’ingresso sul mercato. A giugno partirà un nuovo studio clinico su pazienti colpiti da ictus; saranno coinvolti diversi ospedali italiani, e l’obiettivo è ottenere dati spendibili per accedere al mercato estero e cominciare un iter che potrebbe portare alla mutuabilità del trattamento.

La società, si diceva, ha sede a Palermo, con un ufficio operativo a Torino, città di adozione. Che effetto fa fare impresa al Sud, Oliveri? “Le startup hanno rivoluzionato il concetto di impresa, che ormai non è legato al classico capannone, ma sempre più spesso alla conoscenza. Non è solo possibile, ma ormai anche frequente creare un’azienda innovativa qui. Ma se il terreno per la ricerca, la costruzione e l’implementazione si trova anche al Sud, per gli investimenti bisogna essere disposti a cercare in giro per l’Europa”.

 

Sicilia: un’isola in fermento

La Sicilia, prosegue Oliveri, è terra vivace anche dal punto di vista dell’innovazione. “C’è fermento in diversi settori. Chiaramente molte aziende gravitano attorno all’agroalimentare, ma negli ultimi tempi si sta diffondendo anche il biomedicale. Ha cominciato la zona orientale, dove più forte è la tradizione imprenditoriale, ma negli ultimi anni anche la Sicilia occidentale ha ottenuto un track record di tutto rispetto grazie all’incubatore dell’Università di Palermo”.

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Ha contato specializzarsi all’estero per avviarsi sulla strada del trasferimento tecnologico? “L’esperienza statunitense ha influito, certo.  Il trasferimento tecnologico comincia ad essere diffuso anche in Italia, ma siamo lontani da certi livelli. I ricercatori che cercano di entrare sul mercato sono visti – non dico con diffidenza – ma come soggetti un po’strani, quasi facciano un altro lavoro. In realtà si resta studiosi anche quando si fa impresa, perché per sviluppare certi prodotti bisogna continuare a rimanere sul campo. Oltre, naturalmente, a trovare collaboratori in grado di fare business”.

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Se le startup dei giovani ci salveranno

Com’eravamo dieci anni fa? C’erano il posto fisso, il mutuo facile e mancava il web. Mettete tutto nello shaker, agitate bene con la crisi peggiore degli ultimi 80 anni, e guarnite con i voli low cost che hanno permesso ai giovani di girare il mondo:  avrete una generazione di ragazzi svegli in grado di trainare anche gli adulti. Se avranno voglia di rimettersi in gioco.

Ho partecipato al meeting di StartupItalia il 18 dicembre a Milano e trovato una situazione diversa rispetto a qualche tempo fa. Più consapevolezza delle potenzialità che derivano dal mettersi in proprio, maggiore conoscenza delle dinamiche di business, e una cognizione dei limiti – esistono anche quelli – di questa scelta.

Certo, ormai non si può prescindere da formazione costante, cambiamenti contrattuali (il jobs act, seppur migliorabile, va già in questa direzione) e da una rivoluzione nella mentalità: via foto e data di nascita dal curriculum, basiamoci sulle competenze, che sono quello che serve.  Un mondo al contrario, dove i giovani salvano gli adulti, è possibile. Chissà, magari a pensarlo forte accade davvero.

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TiSOStengo: la salute a portata di click

L’annuncio ufficiale non è  ancora stato dato,ma  TiSOStengo è online. In effetti, il portale è in rete da marzo, ma ha dovuto essere sottoposto a una fase di test necessaria per metterlo a punto. L’idea è innovativa: le funzioni di ricerca consentiranno di rintracciare le strutture sanitarie e assistenziali più vicine grazie alla geo-localizzazione. I professionisti potranno registrarsi sul sito e attrarre nuovi pazienti anche pubblicando interventi su tematiche mediche che ne dimostrino la competenza, mentre gli utenti potranno porre domande pubbliche ai medici (gratis) o inviare un messaggio privato (funzionalità su abbonamento).

tisostengo screenshot

Il motore che muove il sito è realizzato con le più recenti tecnologie ed è estremamente potente, mentre il layout è semplice. TiSOStengo nasce da un’idea di Vittorio Fontanesi, brianzolo di 34 anni con un passato in finanza come gestore di fondi per una delle più importanti realtà italiane. La sua esperienza familiare lo ha portato a essere il vero sostegno della sua famiglia nelle vicissitudini di salute che ha dovuto affrontare nel corso degli anni. Ora ha deciso di provare a metabolizzare il tempo passato tra le corsie degli ospedali e rilanciare, facendone un progetto che può essere di aiuto a molti. A me sembra un’idea, come direbbero gli inglesi, disruptive. E non perché ci lavoro. Nei prossimi giorni aprirà un blog che racconterà meglio tutti i passaggi. Intanto, se volete, potete dare un’occhiata al sito e alla testata di TiSOStengo. Buona lettura!

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Ciao Runner: la corsa diventa social con l’app italiana

Ne è passato di tempo dai primi anni 2000, quando un allora giovanissimo Mark Zuckerberg cominciò a immaginare Facebook,quello che sarebbe diventato il simbolo dei nostri giorni. Nello stesso periodo, in Italia, un altro Marco, che di cognome fa Frattini, si era laureato da poco in Odontoiatria. Nel tempo libero aveva imparato a fare il fonico. Suonava, anche: insomma, uno che si dava da fare.

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