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Qualche link per comprendere la questione Chat Gpt

Di seguito provo a riepilogare qualche pezzo interessante su Chat Gpt, assieme ad alcune considerazioni personali.

Nota: questo post nasce il 7 aprile come una tantum, ma nei giorni seguenti ho pensato di tenerlo aggiornato e farne una specie di utile repository, a beneficio mio e di chi legge. Anche perché potrebbe essere interessante, domani, ricostruire la questione e il dibattito sull’intelligenza artificiale, che per la prima volta sta diventando mainstream.

Premesse

Qui trovate un articolo molto bello del New York Times, gran pezzo di giornalismo, sul fondatore di ChatGpt, Sam Altman. Da leggere, anche perché l’autore ha il raro dono di saper bilanciare dubbi e certezze.

Qui la lettera di mille appartenenti alla comunità tech sui pericoli della AI: chiedono una moratoria di sei mesi. Siamo a marzo 2023.

30 marzo 2023

Il Garante italiano per la privacy formula alcune richieste a Open AI, la società che ha sviluppato ChatGpt. Quest’ultima reagisce “spegnendo” l’applicazione nel nostro paese.

Qui il testo della delibera dell’Authority (ecco una sintesi) mentre qui la risposta di Open AI, la società che ha sviluppato Chat Gpt.

Qui un bel podcast di DataKnightmare che riassume l’intervento del Garante italiano, primo al mondo, sulle questioni legate alla privacy. Altri stanno seguendo, segno che la strada è giusta. In questo articolo Guido Scorza, membro dell’Authority, spiega molto bene il senso dell’intervento, e perché non dobbiamo scegliere tra futuro e diritti, come molti tecnottimisti ripetono. Teniamo presente che tanti si sono già gettati a pesce sulla nuova tecnologia, investendo, e sono toccati direttamente dallo stop. Insomma, sono interessati nel loro parlare.

Questo è un pezzo del Guardian, che annuncia di stare sviluppando una squadra dedicata allo studio di Chat Gpt, delle sue potenzialità giornalistiche e, speriamo, dei limiti. Magari con qualche proposta su come gestire questa tecnologia.

19 aprile 2023

Il sociologo bielorusso Evgeny Morozov, uno tra i più attenti osservatori di Internet, spiega le sue preoccupazioni sull’AI, il “soluzionismo tecnologico” e il ruolo fondamentale dei media nel tenere vivo il dibattito senza accontentarsi delle narrazioni degli uffici stampa di Big Tech. ().

Qui un articolo della MIT Tech Review, non proprio un circolo di luddisti. Da leggere perché ampio e non schierato aprioristicamente. Si parla degli impatti sul lavoro, ma anche di chi deve fare le regole e del ruolo di Big Tech. Si propone il modello del Cern per il ruolo nel world wide web. Faccio notare che il pezzo è del 25 marzo, cioè prima del provvedimento del Garante della Privacy italiano. In quest’altro pezzo, sempre la MIT Tech Review spiega che le società di Intelligenza artificiale potrebbero incontrare più difficoltà del previsto ad adeguarsi alle normative sulla privacy. E che forse si poteva allenare le AI in maniera diversa

25 aprile 2023

Questo è il primo video politico realizzato interamente dall’intelligenza artificiale. A commissionarlo, il partito repubblicano Usa, dopo l’annncio di Biden che si sarebbe ricandidato alle presidenziali del 2024.

28 aprile 2023Chat GPT riapre in Italia.

Qui la dichiarazione del Garante della Privacy relativa alla riapertura di ChatGpt in Italia

In questo pezzo per l’Economist, lo storico Yuval Harari (autore, tra l’altro, di Sapiens) spiega le sue preocupazioni riguardo all’AI, a come potrebbe essere la fine della storia guidata dall’uomo. “We can still regulate the new AI tools, but we must act quickly” scrive, chiamando in causa i governi, come si fece per l’energia atomica, che riscrisse l’ordine internazionale. “The first crucial step is to demand rigorous safety checks before powerful ai tools are released into the public domain. Just as a pharmaceutical company cannot release new drugs before testing both their short-term and long-term side-effects, so tech companies shouldn’t release new ai tools before they are made safe. We need an equivalent of the Food and Drug Administration for new technology, and we need it yesterday“. Harari sottolinea anche come l’AI generativa sia in grado di influenzare il dibattito democratico.

2 maggio 2023

Geoffrey Hinton, accademico, uno dei padri dell’intelligenza artificiale, rassegna le dimissioni da Google, dove lavorava da oltre un decennio e si unisce al coro di critiche. “L’unica scusa che mi dò è la solita: se non l’avessi fatto io l’avrebbe fatto qualcun altro”, dice.

7 maggio 2023

Un bel riassunto semplice che fa il punto sull’intelligenza artificiale lo potete leggere qui. E’ del Washington Post, ed è veramente per tutti. Citazione cinematografica nel sommario: “Everything you wanted to know about the AI boom but were too afraid to ask”. Va notato che il Washington Post è di Jeff Bezoes, proprietario di Amazon. E che Amazon non è citata tra le società in corsa per l’AI. Non ancora?

Sempre di oggi, un’intervista del Mit Tech Review a Geoffrey Hinton, uno dei pionieri del deep learning che ha appena lasciato Google, dove ha lavorato per dieci. La sua posizione riguardo all’intelligenza artificiale è cambiata negli anni: ora Hinton la teme, definendola una “minaccia esistenziale”, e mette il mondo in guardia sui rischi. E questo ha fatto scalpore nella comunità degli esperti.

9 maggio 2023

La Harvard Business Review scrive un lungo contributo su come evitare i rischi etici per l’Ai e le nuove tecnologie. Potete leggerlo qui.

13 maggio 2023

Intanto il 14 giugno (data provvisoria) il Parlamento europeo discuterà la norma nota come Ai Act, di portata non inferiore al quella del Gdpr (che ha da poco compiuto cinque anni) per la privacy. Qui c’è un pezzo recente dell’Mit Technology Review che spiega cosa ci aspetta. Qui il pezzo di Luca Tremolada sul Sole 24 ore, che risale a febbraio ma è in italiano. Una volta delineata la posizione di Strasburgo, comincerà il dialogo con Commissione e Consiglio Europeo, il cosiddetto trilogo, procedura standard che porterà al testo finale. Potrebbe volerci più di un anno, qualcuno dice anche due prima che diventi legge, ma l’Unione avrà il vantaggio di fare la prima mossa e anche gli Stati extraeuropei che vorranno fare affari con il grande mercato continentale dovranno adeguarsi; questa legislazione rischia di essere, de facto, lo standard internazionale sulla Ai, e comprenderà anche aspetti controversi come il riconoscimento facciale. E’ previsto (e prevedibile) un intenso lavoro delle lobby per depotenziare la portata del testo finale.

16 maggio 2023

Anche l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, prende posizione e mette in guardia sui rischi di un uso “precipitoso” delle nuove tecnologie. I dati di cui sono nutriti i language models, scrive, possono essere imprecisi e generare conseguenze negative per i pazienti. C’è anche un elenco di casistiche. L’organizzazione si dichiara, comunque, “entusiasta” di un uso “appropriato” della tecnologia. La proposta sono 6 linee guida “per l’etica e la governance dell’intelligenza artificiale per la salute”. Da qui potete scaricare il documento.

22 maggio 2023

Sempre l’MIT Technology review in questo pezzo fa una sintesi di quanto stanno facendo i policymakers globali, dando i voti. C’è il Consiglio d’Europa (un’organizzazione umanitaria, diverso dal Consiglio europeo), che sta chiudendo una bozza interessante che comincia con le definizioni – e le cosiddette tassonomie sono la base di qualunque ragionamento politico; ma ci sono anche l’OCSE, che già nel 2019 aveva emesso alcune linee guida che sono la base delle policy occidentali, e le Nazioni Unite. Lettura interessante.

25 maggio 2023

I media riportano di un nuovo super antibiotico in grado di prevalere su batteri farmacoresistenti scovato tramite l’intelligenza artificiale. Qui un pezzo della BBC. Non è detto che arrivi mai all’impiego umano, ma la farmacoresistenza è uno dei problemi principali della sanità globale, ed è un buon segnale, anche perché mostra il volto positivo si questa tecnologia.

Vengo alle mie considerazioni.

  1. La prima riguarda il giornalismo. Speriamo che non si perda la voglia di insegnare ai giovani il lavoro paziente e spesso (in apparenza) infruttuoso che conduce a scrivere un pezzo. Per capire la realtà non basta una ricerca su internet, e non basta ChatGpt per scrivere un buon pezzo. Servono tempo, pazienza e studio: ma il lavoro dei giornalisti è essenziale alla società, proprio perché prova a dare la bussola, lo fa più in fretta degli storici, spesso basandosi su intuito ed esperienza, e lo fa partendo da presupposti umani. Cioè dalla velocità a cui dovremmo andare noi, e sulla quale dovremmo tarare il mondo.
  2. Il problema della responsabilità è forte: provate a multare un algoritmo per aver scritto scemenze…
  3. Il problema di chi prende le decisioni: come sottolineato da Scorza, non è detto che – anche se il pubblico non se ne rende conto – i pericoli non siano reali. Le elite servono a questo , e non lascerei alle masse, che non sono informate, la decisione su cosa è giusto e sbagliato su temi che plasmeranno il futuro.
  4. Da qui un altro tema, quello del populismo digitale. Nei giorni scorsi Ryanair ha mandato una mail ai clienti invitandoli a fare pressione sulla Commissione europea per limitare gli scioperi dei controllori di volo francesi. Mail empatica, si paventano disagi in vacanza. A mio avviso si è superata un’altra soglia, l’ennesima. Immaginate se le compagnie petrolifere cercassero di convincere i clienti del fatto che la transizione ecologica è negativa perché aumenterà il prezzo della benzina. Le persone leggono, votano, poi uno vale uno e la frittata è fatta. Se ci si rivolgesse alla gente con strumenti potenti di marketing e budget milionari per spingerla a fare lobby anche su transizione ecologica e AI, saremmo nei guai. Su un certo tipo di questioni devono decidere gli informati. Il dibattito, anche duro, è necessario, e nessuno può tirarsi indietro. Ma le posizioni si pesano, non si contano. Piantiamola con questa retorica i cui costi ci troveremo a pagare tra dieci anni, quando non sarà più possibile tornare indietro.

Giusto sottolineare che Chat Gpt non è uno strumento non intelligente (semplificazione giornalistica, utile ma imprecisa). Significa che non va oltre la statistica per fare le proprie affermazioni, non è in grado di scovare il dettaglio che dà il senso a tutto. Ma non sottovalutiamone la potenza.

E, soprattutti, non ripetiamo l’errore fatto a inizio Duemila con big tech, quando si lasciò fare, per comodità, interesse e ignoranza. Il risultato dell’influenza dei social e dei motori di ricerca sulle nostre vite è sotto gli occhi di tutti. Brexit, elezione di Trump e fake news comprese.

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Chat Gpt, gli Nft e i giornalisti

Dico la verità: questo Chat Gpt mi fa paura. La risposta ai dubbi su come cambierà il giornalismo e il content writing (no, non sono la stessa cosa, anche se il dubbio non è peregrino) potrebbe venire dagli Nft. Il primo tweet, il primo sms, le azioni più belle del calcio e del basket sono già  stati venduti per centinaia di migliaia di dollari. Ci sono persone che portano al polso, sullo smartwatch, mere immagini di diamanti pagate come fossero veri. Per non parlare delle opere d’arte: possono vederle tutti, ma la proprietà resta di uno solo. Insomma, l’Nft ha molto a che fare con l’attrazione psicologica per l’esclusività, la stessa degli status symbol.

Lo stesso, immagino, potrebbe accadere per i contenuti: la maggior parte di quelli che si producono oggi sarà agevolmente sostituita dal chatbot, e credetemi sta già accadendo; il negozio all’angolo non si affiderà più ai freelance, e chi di questo vive farebbe bene a preoccuparsi. Ma assumere un autore significherà tutelare dei panda in via di estinzione; e poterlo affermare, magari linkando il contenuto in questione a una biografia che dimostri che l’autore esiste in carne e ossa, potrebbe aggiungere un certo valore, un po’ come accade oggi per le certificazioni green. Immagino, naturalmente.

Non solo. Difficilmente una grande azienda rischierà un danno reputazionale affidandosi a un algoritmo. Ricordiamo la disastrosa campagna di Dolce e Gabbana in Cina di qualche anno fa: ve la  immaginate una maison che fattura miliardi scusarsi dicendo che è tutta colpa di un bot? Per non parlare delle fintech, insurtech, che agli algoritmi già oggi si affidano massicciamente per maneggiare enormi somme di denaro: se ti affidi al bot per risparmiare le fatture da qualche migliaio di euro di un content writer, come posso essere certo che i miei risparmi siano al sicuro?

L’umano, a conti fatti, potrebbe essere insostituibile. Se non altro come capro espiatorio.

Veniamo al giornalismo. Qui il problema è più complesso. Come suggeriva qualche giorno fa Federico Rampini, un professionista ha le sue fonti, anche segrete, fa inferenze, insomma ha un ancora qualcosa in più. E poi c’è l’allure, la pipa, il sigaro, il cappotto e le clarks.  ChatGpt, sosteneva Rampini dopo averlo testato, fa lavori discreti, che funzionano bene per l’80% dei contenuti, ma non per tutto.

Per i professionisti dell’informazione, il tema della validazione assume ancora più valore: chi garantisce? Il giornalista in carne e ossa è responsabile di quel che scrive, il bot no, e anche se lo fosse, sarebbe poca cosa multarlo, dato che i problemi di vil denaro non lo toccano. Al massimo, si può pensare di staccargli l’alimentazione.

Ribadisco, questo Chat Gpt mi fa paura. Ed è un dovere guardare alla nostra professione da qui a dieci anni, per chiunque viva di parole. Ma credo che, almeno la mia generazione, proverà a difendersi. A scovare i limiti di queste applicazioni, a creare riserve protette. Magari il successo non arriderà ai nostalgici, ma pazienza, in fondo conta darsi uno scopo. Per le generazioni che ancora devono nascere, il discorso è più complesso. Nel ’96 la pecora Dolly fece pensare che saremmo scivolati nella manipolazione genetica di massa. Non è stato così. Ci siamo dati dei limiti. Forse il punto, uno dei punti, è questo: non rassegnarsi a raccogliere per buono tutto quanto ci viene propinato come tanti boccaloni con la bocca spalancata. Meglio esercitare il nostro diritto di scelta, e tenere alta l’attenzione, sapendo anche rinunciare a qualcosa quando è chiaro che non può farci bene. Quel momento non è ancora arrivato, ma meglio non illudersi.  (foto: Getty Images)

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Due o tre riflessioni sul giornalismo digitale al tempo del Covid

La crisi pandemica ha avuto qualche effetto positivo, oltre alla tragedia globale delle vittime del Covid. Non sembri blasfemo, a volte è necessario cercare di guardare il bicchiere mezzo pieno per affrontare tempi difficili, pur evitando di gli eccessi dell’ottimismo a priori (che, osservava qualcuno, è un’arma di difesa essenzialmente tragica: vi si ricorre quando ogni tentativo razionale di spiegare un fenomeno è andato a farsi benedire).

Parlo di giornalismo, perché è il settore che conosco meglio.
Qualche premessa. Internet, non è una scoperta, ha cambiato completamente l’approccio all’informazione. Innanzitutto, non si parla quasi più di articoli ma, genericamente, di “contenuti”. Un calderone dove si può infilare tutto, dal tweet griffato alla foto d’autore allo screenshot rubato dal cellulare di un passante che lo ha pubblicato sui social media senza curarsi di impostare la privacy. Ciò è dovuto in buona parte al fatto che la metrica fondamentale con cui si valutano le performance di un sito web è quella delle pagine visitate: e dato che ogni “contenuto”, con un adeguato lavoro di “cucina” redazionale, può equivalere a una pagina, si assiste a una frammentazione che, peraltro, ben si sposa con i ritmi e le esigenze di una vita sempre più frenetica.

Il concetto di informazione si è lentamente imbastardito inglobando quello – uso un termine inglese tipico dell’ambito business non a caso – di entertainment, intrattenimento. Cellulare alla mano, dieci applicazioni aperte contemporaneamente, più un paio di giochini, si salta da una finestra all’altra con l’unica guida di ciò che colpisce di più l’attenzione; che, a questo punto, diventa essenzialmente visuale. A quel punto, ci si ferma per dieci secondi, esattamente il tempo per leggere un titolo, o un tweet, notare un brand di pubblicità, e il gioco ricomincia.

In questo modo, si è progressivamente persa la visione di insieme. Direi a livello sociale. Il cervello è una macchina che si atrofizza se non usata, e chi scrive appartiene alla generazione a cui veniva vietata la calcolatrice. Insomma, ricordo come si fa una divisione a mano.

Sostanzialmente, il pubblico si è abituato da anni a assumere la realtà in microdosi: poco efficaci per curare una malattia, chiamiamola così, quale l’ignoranza. Ogni argomento viene spezzettato. È come assumere un frammento di pastiglia al giorno: quale cura funzionerebbe?

In un’epoca non troppo lontana, non era raro incontrare ferrovieri con la quinta elementare e una cultura sindacale e di diritto del lavoro da far presumere ben più blasonati studi. I cretini laureati, dal canto loro, ci sono sempre stati; ma, francamente, ne giravano meno.

Torniamo a noi. Il modello di business per le aziende editoriali – che, va detto, non sono opere di carità – si è dovuto adeguare. Anche perché, e qui ritorniamo all’attenzione, per catturare l’interesse del lettore ha assunto sempre più importanza il ruolo della “firma”. Leggere un articolo di Gramellini, di Mattia Feltri, o degli altri bravi colleghi che scrivono in prima pagina vale il prezzo del biglietto, come si suol dire. Queste grandi star del giornalismo portano lettori e si fanno pagare di conseguenza, incidendo non poco sui bilanci.

Chiaramente, l’esempio più illustre è quello di Vittorio Feltri, capace di creare un personaggio e persino un giornale a propria immagine e somiglianza. Alzi la mano chi ha letto un articolo di Libero oltre agli editoriali: pochi. E, in certi casi, non sono neanche scritti male. Il punto, però, è un altro: quel quotidiano si compra più che altro per la figura del direttore. Il resto conta poco, e lo si cerca, di solito, altrove. Non parliamo degli epigoni, da Sallusti a Belpietro: una progenie che si limita più che altro a riprenderne le pose.

Nelle redazioni si è creata così una divisione estremamente netta tra grandi firme strapagate (ci sono anche dei giovani, anche se pochi) e redattori ordinari, con stipendi quasi proletari. Mi riferisco ai nuovi assunti: perché gli anziani godono ancora dei contratti sottoscritti quando le vacche erano grasse per tutti (e la ricchezza meglio distribuita). Ah, i diritti acquisiti. Questi contratti pesano ancora parecchio sui bilanci, anche se gli intestatari, bontà loro, non scrivono quasi più. Il resto dei lavoro lo fanno i freelance, i quali, in molti casi, sono pagati in visibilità e buonanotte al secchio. O poco più.

In queste condizioni, chi ha potuto è corso a cercare gloria altrove. Non in altri giornali, perché la situazione dell’editoria è la stessa ovunque. Mi riferisco a uffici stampa, pr, ma anche posizioni da segretaria in aziende. Ho visto personalmente colleghi dotati cambiare mestiere esasperati per la mortificazione e la frustrazione di non arrivare alla fine del mese dopo 30 anni di onorata carriera, trascorsi anche in testate nazionali.

In un mercato lasciato a se stesso, si è creata la solita polarizzazione. Capita anche nelle aziende. Negli anni Sessanta, un amministratore delegato guadagnava trenta volte un operaio. Oggi diverse centinaia. Chi resta, a queste condizioni, spesso lavora di fretta (“breaking news” è un’espressione inflazionata) e senza maestri, sapendo, peraltro, che l’errore è concesso, perché sul web basta poco per correggerlo. Così, capita che sul primo quotidiano nazionale un omicidio venga definito “killing”, senza che alcun caporedattore lo segni in rosso. Linguaggio da Instagram. Peraltro, il termine inglese sarebbe murder, o manslaughter.

Benvenuti nell’informazione digitale anno domini 2020.
Concludo. In questa accozzaglia, farsi un’idea è diventato sempre più difficile. Se prima bastava leggere un articolo lungo, scritto da un giornalista che teneva alla propria firma e che si era preparato a dovere per cominciare a capire qualcosa, oggi il lettore medio compone il quadro giustapponendo pezzi presi da ogni dove. Un po’ come il personaggio della Nausea di Sartre, che voleva farsi una cultura leggendo il volumi della biblioteca dalla a alla z: quello che conta non è la quantità. E’ la gerarchia.

E veniamo al Covid. La cosa positiva è che la pandemia, dopo uno sbandamento iniziale, ha rimesso in primo piano la competenza, marcando la differenza tra prodotti editoriali di serie a e altri di serie b.

Cominciano ad apparire (e a guadagnare spazio) firme meno blasonate ma più preparate dei tuttologi da prima pagina. Mi viene in mente Sandro Modeo del Corriere. Questo articolo nasce dopo aver letto l’ennesimo suo bel pezzo.

Modeo (ma non è l’unico) scrive articoli lunghi, documentati, precisi ma caratterizzati dallo sforzo di rendere comprensibili concetti ostici. Anche sul web, nel regno dell’effimero.

Si sta (finalmente) superando il concetto che l’articolo lungo non renda. Al contrario. Il longform è quello che ci vuole per spiegare al lettore che l’informazione di qualità va pagata, così come, peraltro, è sempre stato fino a 20 anni fa. E non con i dati. Oggi come oggi, superata la fase in cui abbonarsi al digitale costava parecchio, con pochi euro alla settimana è possibile accedere ai contenuti premium. Credetemi: dopo aver provato, non tornerete più indietro.

I nomi storici hanno cominciato a perdere i lettori più attenti (che spesso fa rima con fedeli) a vantaggio di realtà più piccole ma in grado di guadagnarsi credibilità senza rincorrere l’ultima idiozia, ogni giorno, a tutte le ore, si tratti di Salvini o dei testi sierologici. Niente di nuovo, in fondo: una mensilizzazione, potremmo dire, di una parte del web.

Sono anche nate (o meglio, si sono evolute) forme più raffinate di introiti. Dai branded content (che hanno una propria dignità, quando fatti bene: guardate l’esempio della serie Cocainomics del Wall Street Journal, sponsorizzata da Netflix prima del lancio di Narcos) alle testate che stanno in piedi grazie ai bandi. A volte li emettono soggetti privati, a volte sono aziende, come Google, che ha lanciato numerosi progetti e sta cercando di rifarsi una reputazione dopo essere finita nel mirino dei regolatori e di una parte sempre più consistente di pubbloco. Come sempre, per il lettore, la cosa più importante è sapere con esattezza chi ci mette i soldi: e tenere presente che è difficile parlare male di chi ti finanzia.

Insomma: alla pandemia dobbiamo la prima, e più importante, crepa in quella che era la vera barriera alla transizione digitale: la reticenza del lettore a pagare per i contenuti, a fare il gesto di inserire i dati della propria carta di credito per avere notizie che, credeva, avrebbe potuto avere gratis. Il problema non è solo questo: più spesso di quanto sembri, è una questione di pigrizia (nessuno ama alzarsi a cercare i codici nel portafoglio quando vuole solo leggere un articolo in santa pace), senza contare la paura di frodi informatiche. La nuova abitudine al commercio elettronico sta travolgendo molte resistenze ataviche.

Inoltre, la pandemia – che riguarda proprio tutti, mettendo a rischio il bene più prezioso, la salute – ha reso più chiara la differenza tra informazione di qualità (fatta da persone competenti, dove , come dicono gli anglosassoni, less is more e conta la gerarchia) – e l’accozzaglia di notizie confuse e prive di un reale significato proposta da molti media mainstream.

Al momento si sta ancora seminando, ma penso che manchi poco: i frutti arriveranno. C’è ancora posto per qualcuno sul treno: ma chi ha scommesso due o tre anni fa, riuscendo a restare in piedi nel frattempo, si appresta a raccogliere i risultati.

Anche le redazioni cominciano a cambiare assetto. Qualcuno va in pensione, qualcun altro, si diceva cambia mestiere.

Ogni tanto sui forum della nostra categoria un giovane chiede se fare o meno del giornalismo la propria strada. Personalmente, sconsiglierei. Ma è sempre stato così: solo chi è motivato comincia qualcosa dopo avere sentito tutto il male possibile. Aggiungerei, però, una cosa: se vuoi fare questo mestiere, ragazzo, devi studiare. Tanto. Il tempo del “sempre meglio che lavorare”, se mai è esistito, è finito. Il livello si è alzato: chi non lo ha capisce, verrà travolto. Ci sono, tra i restii al cambiamento, anche tanti padri e madri di famiglia.

La rivoluzione digitale ha impattato sull’editoria scardinando tutto quanto era vero fino a 20 anni fa. Certo, a far da guida, restano i capisaldi dell’etica professionale. Ma il problema, anche per noi che ci lavoriamo, è un altro. È che siamo solo agli inizi.

(Foto di Shutterbug75 da Pixabay)

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Come “prestare” il tuo computer alla ricerca contro i tumori

Questo articolo è stato pubblicato su Wired Italia

Marissa Mayer era una matricola al primo anno di Medicina a Stanford. Dopo qualche mese passato sui libri senza troppa voglia, si accorse che l’anatomia non la appassionava abbastanza. “Fino a quel momento studiavo cose che avrei potuto approfondire anche nel Wisconsin, dove sono nata”, avrebbe ricordato poi in un’intervista. Ma lei si trovava in California, e non c’era motivo di pagare la retta di una delle università più prestigiose d’America senza imparare qualcosa di veramente nuovo.

La scelta si rivelò vincente. Mayer si iscrisse al corso  di laurea in Sistemi simbolici, percorso trasversale che comprende informatica, linguistica, psicologia, comunicazione e statistica e interseca materie eterogenee, alla ricerca di quel quid che agli specialisti, semplicemente, sfugge. Pochi anni dopo nacque Google, e Mayer fu tra i primi 20 dipendenti. Nel 2012, divenne ad di Yahoo.

Una storia americana

La città di Palo Alto fu fondata da Leland Stanford, arrivato nel territorio con l’intenzione di creare un’università in memoria del figlio, morto di tifo a soli 15 anni. Pare che il magnate avesse posto una condizione per dare inizio ai lavori: quella di mettere al bando l’alcol nel nuovo abitato. I 13 saloon erano ben noti agli ubriaconi della zona e causavano non pochi problemi di salute e ordine pubblico.

Stanford ottenne le garanzie che voleva e aprì i cordoni della borsa. La città nacque vicino a un albero millenario (“el Palo Alto“) e l’ateneo in poco tempo divenne uno dei migliori d’America, attirando professori e studenti di talento. Molti anni dopo, con il boom dei microprocessori, la Silicon Valley divenne il centro del mondo dell’elettronica.  E quando il centro di gravità si spostò dall’hardware al software, è facile comprendere come nell’area si siano insediate alcune delle società più innovative del pianeta. Ma non c’è solo l’informatica: tra gli edifici trovarono casa anche realtà come l’American Institute of Mathematics e il Mental Research Institute, che diede i natali a una famosa scuola di psicoterapia.

Un legame profondo con la medicina

Il legame tra l’ateneo e la medicina cominciò presto e si fece via via più solido. E dall’humus che ha dato vita a uno dei più straordinari agglomerati tecnologici della storia, non poteva non nascere innovazione anche in questo campo.

Stanford si colloca al terzo posto negli Stati Uniti per la ricerca. È stato in questo contesto straordinario che nel 2000, sotto la guida del professor Vijay Pande, ha visto la luce il progetto Folding@Home. L’idea? Chiunque può dare un contributo alla scienza semplicemente mettendo a disposizione la potenza inutilizzata del proprio personal computer. I potenti elaboratori dei centri di ricerca non erano sufficienti per le nuove sfide della biologia computazionale, così Pande ha pensato di far ricorso agli utenti della rete e sfruttare il loro contributo volontario.

Non si tratta, per la verità, di un assunto nuovo. Il calcolo distribuito nacque più di 50 anni orsono in ambiente accademico e ha trovato applicazione in diversi ambiti. Ripartendo i compiti sulla base delle singole esigenze di ricerca, si ottiene un risparmio che consente di riservare le potenze maggiori per le operazioni di particolare complessità, riducendo gli sprechi.

A cosa serve la potenza di calcolo 

Ma cerchiamo di capire a cosa serve questa potenza di calcolo. Per farlo è necessario partire dalla biologia. Le proteine sono alla base della vita. Per svolgere il proprio compito, la lunga catena di amminoacidi da cui sono composte deve ripiegarsi su se stessa infinite volte in strutture tridimensionali, interagendo con l’ambiente circostante fino ad assumere una conformazione che coniughi funzionalità ed economia di spazio. Questo processo prende il nome di folding e avviene milioni di volte al giorno in tempi ridottissimi: analizzarlo, si ritiene, può essere la base per trattare patologie fino a oggi incurabili.

Se i meccanismi di correzione non funzionano e il processo non va a buon fine (come accade raramente, per la verità) la proteina deforme che si viene a creare può innescare processi patologici, tra cui molti tipi di cancro, ma anche l’Alzheimer e il Parkinson.

Strutture 3D

Ma lo studio delle strutture tridimensionali è complesso. In assenza di un modello teorico capace di spiegare il ripiegamento in maniera esaurientegli scienziati di Stanford hanno scelto di provare a simulare la realtà con l’utilizzo di un calcolatore: vengono tentate tutte le ipotesi possibili, scartando le meno verosimili. Questo, in sintesi, quello che fa Folding@home. Il compito di ogni pc connesso alla rete diventa così quello di risolvere una parte dei calcoli (work units) in cui è stato diviso il problema oggetto di studio. C’è un tempo massimo per completare le work units: i risultati confluiscono poi nella centrale operativa, posta sotto il controllo diretto dei ricercatori, che dirige il traffico e aggrega i dati.

Per modellare un millisecondo di folding, anche di una proteina di medie dimensioni su un MacBook Pro top di gamma, ci vorrebbe qualcosa come 500 anni”, ha spiegato Greg Bowman, che oggi dirige il team di Folding@home: “Ma con il calcolo distribuito possiamo dividere i problemi in tanti piccoli spezzoni indipendenti, da inviare a mille persone alla volta. Così, svolgendo i calcoli in parallelo, possiamo risolvere in sei mesi problemi che avrebbero richiesto 500 anni”. Per dare un’idea, si calcola che la rete messa in piedi da Pande possa contare su una potenza di 15,0 PetaFlops con una base hardware che include Playstation 3 e schede video.

Rosetta@home, disegnare proteine in 3D

Rosetta ha un approccio diverso. “Il calcolo distribuito ci consente di disegnare decine di migliaia di nuove proteine, che poi vengono inserite in geni sintetici – illustra David Baker, a capo del progetto -. Questi, a propria volta, saranno inoculati nei batteri per “programmarli” a produrre le nuove proteine in autonomia. Poi estraiamo le proteine, e stabiliamo se funzionano come ci aspettavamo quando le abbiamo disegnate. E se sono sicure”. Rosetta ha una potenza circa 55 volte minore di Folding@home: in media di 270 TeraFlops, e si affida unicamente alle Cpu.

Prestare il computer alla scienza: come fare

Partecipare al progetto richiede soprattutto la pazienza di ascoltare  la ventola del pc girare più spesso del solito: un problema risolvibile con l’aiuto di un leggero sottofondo musicale. Il software si può scaricare facilmente da internet ed è pronto per essere installato.

Nel giro di cinque minuti il computer diventa operativo, con una maschera che indica i progressi ottenuti. I programmi sono impostati di default per lavorare con priorità bassa, e sfruttando solo la potenza inutilizzata dal processore. In pieno spirito americano, un sistema di punteggio tiene il conto del contributo fornito da ciascun utente, stilando una classifica di quelli più attivi. Chi vuole può stampare un certificato.

Il ruolo dell’informatica nella cura della salute sta diventando fondamentale. “La conoscenza aumentata del protein folding, il costo sempre minore dei geni sintetici e la legge di Moore sulla potenza dei microprocessori”, sostiene Baker, permetteranno passo da gigante nei prossimi anni, compreso lo sfruttamento della mappatura del genoma umano. E le applicazioni della computer science in campo sono solo agli albori.

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Nuvole sporche, o di quanto inquina il cloud

Questo articolo è stato pubblicato su Wired

L’Olanda vuol essere la porta d’accesso digitale d’Europa. La rete mondiale si basa su una quindicina di grandi hub. Uno tra i principali è Amsterdam, dove ha sede il 30% dei data center europei. Ma, dopo l’overtourism, la capitale ha un altro problema: quello dei dati. Le grandi aziende stanno comprando edifici residenziali trasformandoli in alloggi per le ingombranti macchine, in una città che ha sempre tenuto alla propria identità estetica. L’amministrazione, come già successo per il turismo, ha capito di aver spinto troppo sull’acceleratore, e nel mese di luglio ha imposto uno stop alla costruzione di nuove server farm. Ma non è solo una questione urbanistica: ognuna consuma elettricità come 15mila abitazioni, o diversi ospedali, per non parlare dell’acqua necessaria agli impianti di raffreddamento.

Benvenuti nella nuova frontiera della lotta al cambiamento climatico. Se pensate che inquinamento sia uguale a centrali a carbone, veicoli a gasolio, fabbriche che emanano odori pestilenziali, siete troppo ottimisti. Anche i dati presentano un conto ambientale, che può essere molto salato. Una guerra difficile da combattere, perché difficile da visualizzare. Non solo per la gente comune.

Ogni gigabyte trasferito sul web genera un consumo energetico paragonabile a quello di quando, finita la doccia, accendiamo il phon per ventiquattro secondi. Ogni ricerca su Google, ogni video guardato su YouTube, ogni foto condivisa su Instagram ha un costo in termini elettrici. Per non parlare dei bitcoin: per garantire la sicurezza della criptovaluta è necessaria tanta energia quanta ne consuma in un anno un paese come l’Irlanda. La stima è di Alex de Vries, bitcoin specialist per la società di consulenza Price Waterhouse Coopers.

Data center che inquinano quanto città

Si tratta di cifre sconcertanti anche per gli addetti ai lavori” confidava nel 2012 al New York Times Peter Gross, ingegnere con 30 anni di carriera nella progettazione di data center. Il quotidiano aveva realizzato un’inchiesta su quello che, già allora, appariva come una bomba a orologeria. “Un singolo complesso può arrivare a consumare più di una città di medie dimensioni”, proseguiva il tecnico. Il perché va cercato nelle abitudini degli utenti e nell’architettura di internet per come la conosciamo oggi, volta non tanto a garantire l’efficienza del sistema, quanto a ricalcare i comportamenti di chi ne fa uso.

Il modello tipico per l’archiviazione dei dati è costituito da gigantesche server farm. Mastodonti dislocati su tutto il pianeta, che assorbono energia come idrovore. E inquinano. Nuvole sporche, potremmo definirle, traducendo la parola “cloud”. Finito il tempo delle chiavette, oggi si può archiviare tutto in remoto grazie alle multinazionali del web. Il modello di business è semplice: l’azienda costruisce un gigantesco agglomerato di computer e affitta porzioni di spazio agli utenti. Che sia lo schema prevalente, e sia destinato a restarlo ancora per un pezzo, lo conferma l’intenzione di Google, annunciata di recente, di investire 3 miliardi di euro nella costruzione di nuovi data center in Europa.

Ma, come una tubatura rotta, buona parte delle risorse necessarie a farli funzionare viene dispersa. Il New York Times rivelò nella propria inchiesta come i big del web facessero funzionare le macchine sempre al massimo della potenza, anche quando il traffico non era al picco. Il risultato era che il 90% dell’energia assorbita dalla rete elettrica veniva sprecata. Uno studio di McKinsey mostrava come solo tra il 6 e il 12 per cento del consumo di elettricità veniva utilizzato per operazioni di calcolo: il resto serviva per mantenere i sistemi pronti e reattivi, un po’ come lasciare il motore della macchina al minimo quando si entra al supermercato, o la si parcheggia in garage. Il business online, del resto, si gioca su velocità e prestazioni. Siamo abituati ad avere i servizi che amiamo sempre pronti appena ci colleghiamo alla rete: non trovarli ci porta, semplicemente, a cambiare fornitore. Un rischio che i big del web, da Amazon a Facebook, non possono correre.

Non è finita. Ci sono, poi, le precauzioni contro imprevisti e blackout. Per compensare cali di tensione nell’ordine di pochi secondi (sufficienti, però, a mandare in tilt il sistema), nelle server farm sono allineate enormi batterie simili a quelle delle auto. Per prevenire interruzioni della fornitura più durature, invece, si impiegano enormi generatori a diesel, a volte installati in violazione delle disposizioni antinquinamento.

Le prime soluzioni: il caso di Cubbit

Individuato il problema, è partita la corsa a cercare le prime, pionieristiche, soluzioni.  E magari farci una startup. E’ il caso di Cubbit, realtà italiana nata nel 2016 dall’idea di quattro studenti a Bologna. “Per così dire, ricicliamo lo spazio web che non viene utilizzato” spiega a Wired Stefano Onofri, fondatore e amministratore delegato. “Il nostro software si installa su tutti i device dotati di storage e, invece di un solo, enorme data center, li usa come nodi di una rete distribuita per archiviare le informazioni degli utenti”.

Una scommessa sul futuro. “Non parliamo solo di hard disk, ma di Internet of Things, ovvero di tutti i dispositivi domotici che nei prossimi tre-cinque anni diventeranno onnipresenti, e resteranno sempre connessi”, continua Onofri. E aggiunge: “Pochi lo sanno, ma una smart tv di solito include un terabyte di spazio di archiviazione, che viene utilizzato solo al momento in cui vediamo un film. Tutto spazio sprecato, così come la banda domestica, inattiva  per gran parte del giorno, ad esempio quando siamo al lavoro”.

Cubbit la recupera: l’informazione viene spacchettata in 36 parti, e il software si assicura che almeno 12 siano sempre online. In caso contrario procede immediatamente al backup. Nessuno ha accesso all’informazione completa. “Nemmeno noi” precisa Onofri. Non solo. L’informazione viene archiviata il più possibile vicino all’utente, per essere richiamata con tempi di latenza bassissimi. “L’ideale, per esempio, per veicoli a guida autonoma”, chiosa l’ad. E per ridurre i consumi: perché ogni chilometro percorso da un bit fa lievitare il conto ambientale.

L’idea ha suscitato interesse. Cubbit è entrata, prima startup italiana, nel programma di TechStars a Tel Aviv, uno dei più grandi acceleratori al mondo. Ma anche l’Unione Europea ha deciso di concedere fiducia all’esperimento, erogando un finanziamento da due milioni di euro perché il progetto è in linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile. E i giganti del web? “Per il momento, continuano per la propria strada – chiosa Onofri -. Immagino che abbiamo bisogno di vedere che il nostro è un modello che  funziona. Quando capiranno che è così, cambieranno politica. Del resto, stiamo parlando di alcune delle società più innovative del mondo”. Per il momento, l’approccio dei grandi della Rete è solo compensativo. Big G sta finanziando la costruzione di parchi eolici in Svezia e Belgio e la nascita di cinque progetti a energia solare in Belgio.

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Direttiva Copyright: le ragioni per sostenerla

La direttiva sul diritto d’autore su cui oggi vota il Parlamento Europeo è stata osteggiata dalle principali piattaforme che ospitano contenuti (da Google a Facebook ). Persino Wikipedia ha deciso di “chiudere” per un giorno nel nostro paese dopo aver calato il sipario in Germania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Danimarca.

Mi sembra una protesta perniciosa. Siamo appena usciti dalla preistoria della Rete, un luogo magico dove, all’inizio tutto era possibile, un po’ come nel Far West. Compreso guadagnare cifre favolose, con idee tutto sommato semplici. Agli albori si lasciava fare, un po’ perché non c’erano gli strumenti per controllare, un po’ perché ingabbiare le energie avrebbe bloccato la transizione digitale, che era in grado di cambiare il mondo e renderlo un posto migliore e più semplice dove vivere.

Chi scrive rimpiange spesso i vecchi tempi, quelli in cui si poteva uscire senza cellulare e le notizie non ci inseguivano martellandoci con notifiche e vibrazioni: ma non certo quelli in cui per conoscere la data di un appello all’università bisognava sobbarcarsi una mattinata di viaggio, per scoprire poi che il professore si era dimenticato di appendere il foglio con la data; o quelli in cui per fare un bonifico bisognava fare la fila in banca e sprecare mezza giornata.

Come sostenevano già i Greci, conosciamo il bene perché abbiamo sperimentato il male. Negli anni Novanta non eravamo in grado di apprezzare una serata di chiacchiere al tavolino di un bar proprio come oggi, esasperati dall’onnipresenza dei gingilli a transistor che ci appesantiscono tasche e borse, facciamo fatica a ricordare quanto era più complicato vivere prima.

Era ora di darsi delle regole, e l’Unione Europea – che non è l’America e per questo non vive nel mito della frontiera, ci sta provando. Come scrive Martina Pennisi sul Corriere la  direttiva sul copyright sarà una riforma perfettibile, ma è un passo in avanti nella direzione giusta: quella per cui il controllo del web (risorsa strategica) torna sempre più sotto l’ombrello della politica, e quindi della gente, e non resta nelle mani dei signori – sempre loro, e sempre cinici- dell’economia.

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Jeff Bezos, il divorzio costa caro: perchè lasciarsi può cambiare il volto di Amazon

Questo articolo è uscito in origine su StartupItalia.

Coppia di opposti. Amante dei party lui, riservata e profonda lei. Tanto duro con i dipendenti lui, al punto da  far – si dice – pagare persino il parcheggio aziendale, tanto materna lei, che accompagna a scuola i figli e fino al 2013 portava al lavoro pure il marito.

Era una storia da film. Lui vice presidente in un fondo di investimenti, lei in cerca di un lavoro da impiegata per mantenere la passione per la scrittura. E’ lui a farle il colloquio e ad assumerla, ma è lei a invitarlo a pranzo la prima volta. In tre mesi sono fidanzati, sei mesi dopo si sposano. E’ il 1993, la città è New York e loro sono il CEO di Amazon Jeff Bezos e la moglie, MacKenzie Tull.

Il divorzio, annunciato nei giorni scorsi, potrebbe costare caro all’imprenditore, la cui fortuna è stimata da Bloomberg in 137 miliardi di dollari. In gran parte sono dovuti a una quota azionaria pari al 16% della società di e-commerce, la seconda nella storia a superare la valutazione di 1000 miliardi di dollari dopo Apple, nel settembre scorso.

 

Jeff Bezos divorzia: la storia della coppia dagli inizi

Torniamo indietro di qualche anno. Amazon vede la luce nel 1994, quando Jeff e MacKenzie si trasferiscono da New York a Seattle, dall’altra parte dell’America. Lei guidava, lui scriveva col portatile sulle gambe il business plan di un negozio online che, nel giro di pochi anni, sarebbe diventato il più grande emporio virtuale del mondo. Da notare che si trattava di una visione: Internet come la conosciamo oggi era nata pochi anni prima, i siti web erano testuali e l’accesso alla Rete era costoso e privilegio di pochi.

La coppia lavora assieme al progetto, che parte dalla vendita di libri. Del resto, MacKenzie è una scrittrice con laurea in letteratura inglese e partecipa attivamente alla vita dell’azienda. “Era una di quelle che contavano quando si faceva una riunione” ricorda un dipendente della prima ora. Su Amazon si trovano i testi più disparati, e anche in Italia si comincia a comprare dall’azienda per procurarsi rarità.

Ma il business non è la passione della signora Bezos: mentre il marito si concentra sugli affari, la giovane narratrice si dedica sempre più alla scrittura. Ai tempi la coppia viveva in un monolocale.

Nel 1999 i soldi cominciano ad essere veri, e i due  si trasferiscono in una casa da 5 milioni di dollari.

Il resto è abbastanza noto, ed è una progressione verticale. Amazon, da bookseller che era, comincia a vendere di tutto, fino a diventare la potenza globale dei giorni nostri. Bezos si compra un giornale (il glorioso Washington Post, odiato da Trump), una società di missili alla Elon Musk (la Blue Origin)  e si diverte a praticare hobby costosi, come la ricerca di razzi NASA caduti nell’Oceano Atlantico. MacKenzie, in pubblico e in privato, sostiene il marito, che ha il dono di dividere il mondo in due: chi lo ama e chi, invece, lo odia, per i metodi non ortodossi che – si dice – l’azienda impiegherebbe con dipendenti e fornitori.

La crisi arriva… con un film

Il business si allarga, come si diceva. Amazon comincia persino a produrre film, ed è proprio sul set di uno di questi – Manchester by the sea  del 2016- che il CEO incontra Patrick Whitesell, potente agente di molte star di Hollywood, e comincia a lavorarci assieme. Le famiglie col tempo cominciano a frequentarsi, anche perché vicine di casa a Mercer Island.

Bezos e Lauren Sanchez, moglie di Whitesell, si conoscono allora. Secondo quanto riferito dai giornali di gossip statunitensi, avrebbero cominciato a flirtare parlando della comune passione per il volo. Lui, su suggerimento di Whitesell, la coinvolge in Blue Origin col compito di fare riprese aeree per  video promozionali (la Sanchez è pilota di elicottero). La relazione comincia, e sarebbe andata avanti per nove mesi, prima di essere svelata ai rispettivi coniugi. I media scandalistici parlano di un cinquantenne tornato ragazzino, con tanto di uscite sbarazzine in ristoranti esclusivi a Los Angeles e sms sdolcinati in cui lui, al settimo cielo, le confessa di amarla alla follia. Lei, dal canto suo, non nasconderebbbe di gradire il fatto di avere per sé le attenzioni dell’uomo più ricco del pianeta.

Conseguenze: l’agente divorzia dalla moglie, seguito a pochi mesi di distanza dal patron dell’e-commerce. “Continueremo la nostra vita comune da amici ” hanno dichiarato i Bezos in un post a firma congiunta pubblicato su Twitter. Di mezzo ci sono quattro figli.

Il divorzio di Jeff Bezos: una vicenda non solo personale

Ma non si tratta solo di una vicenda personale. La coppia ha sempre vissuto nello stato di Washington, e non pare aver sottoscritto alcun accordo prematrimoniale. Le leggi locali prevedono che tutti i beni acquisiti nel corso dell’unione vengano divisi in caso di divorzio, e pare non ci sia dubbio – commentano diversi legali sentiti dalla stampa USA – che Amazon ricada nella fattispecie.

Bezos, che secondo Forbes è l’uomo più ricco del mondo, detiene il 16% delle azioni di Amazon, poca cosa rispetto a Zuckerberg, che, ad esempio, possiede il 51% di Facebook. La quota gli garantisce una considerevole influenza, ma non certo il controllo.

Se i due si separassero in maniera amichevole, Bezos potrebbe liquidare alla moglie il controvalore delle azioni che le spetterebbero. In fondo, lei non ama gli affari. In questo caso nulla cambierebbe nella governance del colosso di Seattle.

Nel peggiore dei casi, la vicenda, invece, si complicherebbe.  Se l’ex moglie avesse interesse a mantenere le azioni, Bezos potrebbe scendere fino all’8%, e questo cambierebbe decisamente i rapporti di forza nella società. Ad esempio, nei confronti di un investitore istituzionale come Vanguard, che ha in portafogli il 6% del pacchetto.  Ma non solo. Se MacKenzie reclamasse un posto nel board, nota l’Economist, potrebbe anche opporsi alle strategie del marito. Ad esempio, proponendo di alzare i salari. Amazon è già da tempo sotto l’attacco dei media per le proprie politiche.

Il divorzio di Bezos pone, quindi, qualche domanda agli azionisti. Il fondatore dovrà rassicurare il board sul fatto che sarò in grado di restare concentrato sugli affari. Anche perché esistono studi che dimostrano come un divorzio renda spesso i Ceo più inclini al rischio, per compensare rapidamente la perdita di ricchezza con maggiori guadagni.

Il nostro, dal canto suo, è tutto fuorchè un manager tipico. Poco incline a farsi controllare dal consiglio di amministrazione, dorme otto ore a notte, non fa riunioni dopo le 5 del pomeriggio e fino a poco tempo fa trovava sempre il tempo per leggere i romanzi della moglie. Almeno da questo punto di vista, la sua routine è destinata a cambiare.

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Digital tax: Amazon, Google e i giganti del web nel mirino del fisco UK

Questo articolo è stato pubblicato sul magazine StartupItalia!.

Una digital services tax sui proventi realizzati dai giganti del web, a partire da Amazon e Google. “Austerity is coming to an end”, l’austerità sta per finire, ha detto il Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond (l’equivalente del nostro Ministro delle Finanze)  di fronte al Parlamento a Westminster. L’occasione è stata la presentazione del budget 2018, che potremmo definire un bilancio di previsione, il documento programmatico con cui Downing Street pianifica come spendere il denaro pubblico.

E tra tante concessioni (20 miliardi di sterline all’NHS, il sistema sanitario pubblico che soffre una cronica mancanza di fondi, stanziamenti per un nuovo piano case, revisione delle soglie di tassazione e aumento del minimum wage, il salario minimo che riguarda moltissimi lavoratori, tra cui tanti italiani) spunta la batosta per i tech giant.

Un freno alla crescita? I timori dell’ecosistema

Nei piani del governo c’è una tassazione al 2% dei proventi, che porterà nelle casse pubbliche circa 400 milioni di sterline l’anno, più o meno l’equivalente dei fondi che verranno stanziati per le scuole. Il titolo potrebbe essere “Amazon e Google pagano le scuole britanniche”, e non sarebbe male; ma la notizia ha scosso l’ambiente. Non tanto per la consistenza della tassazione (una goccia nel mare dei profitti), quanto perché si crea un precedente pericoloso in un settore fino ad oggi poco normato.

Dom Hallas, della Coalition for a Digital Economy, ha messo sull’attenti il Governo qualche giorno fa, appena saputo delle intenzioni: “A perderci davvero non saranno i giganti della tecnologia, ma le aziende inglesi in fase di  crescita che hanno il loro business nel tech e gli stessi imprenditori” aveva dichiarato al Telegraph. “Le grandi companies che Hammond ha messo nel mirino sono ben attrezzate per fronteggiare un aumento del carico fiscale. Il vero costo colpirà le imprese innovative inglesi, quelle che cominciano l’attività nei confini nazionali per espandersi, poi, nel mondo”.

Insomma, il governo di destra di Theresa May fa una cosa di sinistra e si mette contro lo strapotere delle società che si spartiscono il grosso dei profitti web. Tra l’altro, mentre l’Europa nicchia, e si sa che i tempi di Bruxelles possono essere biblici. Se del caso,  “la Gran Bretagna andrà avanti da sola” ha dichiarato Hammond, ammettendo, però, che un approccio multinazionale sarebbe la soluzione migliore e che, qualora arrivasse una decisione del G20, il suo paese potrebbe considerare di adeguarvisi.

Chi riguarda davvero la Digital tax in UK

Il Cancelliere risponde ai timori dell’ecosistema spiegando che la misura è stata studiata per colpire i giganti della Rete e non i consumatori o le piccole aziende. “Verificheremo i dettagli per assicurarci di colpire nel segno, e che il Regno Unito continui ad essere il posto migliore per start up e scale up” ha rassicurato. La tassa dovrebbe entrare in vigore ad aprile 2020 e, stando a quanto si apprende, riguarderà le società con ricavi annui globali per almeno 500 milioni di sterline. Chi entrerà nel mirino del fisco? Praticamente tutti: motori di ricerca, piattaforme social e marketplace online. L’imposta, precisa il ministero, non vuole colpire i beni venduti online, ma solo i profitti generati dai servizi  di intermediazione. I primi 25 milioni di sterline fatturati in UK non rientreranno nell’imponibile, escludendo così le società giovani. E, soprattutto, il principio è: tassare chi guadagna lavorando con utenti che risiedono nel Regno Unito, non l’attività digitale in sé.

La mossa segue l’onda di indignazione che monta un po’ ovunque contro i giganti del web. Secondo quanto riportato dal quotidiano economico Bloomberg, Amazon UK Services (il ramo che fornisce servizi business alle imprese) ha ascritto a bilancio ricavi per 1,98 miliardi di sterline nel 2017; la corporate tax versata, però, è passata dai 7.4 milioni di pound dell’anno precedente a 4,46 mln. “Paghiamo tutte le tasse che il Regno Unito e i paesi in cui operiamo richiedono” ha affermato un portavoce della società. Basse o alte che siano; come dire, non è colpa nostra.  Sempre secondo Bloomberg, Amazon.com Inc UK – la “casa madre” in UK della società di Jeff Bezos –  ha visto il conto della corporate tax ridotto del 40% nel 2017, a fronte di ricavi triplicati. Chiaro come questo possa non piacere.

La digital tax che potrebbe chiudere un’epoca

La presa di coscienza dei mega profitti dei tech giants comincia a diffondersi a macchia d’olio. Passata la sbornia digitale, in molti paesi gli utenti cominciano a chiedere un atteggiamento diverso, a partire da quello dei regolatori. Persino a San Francisco, la Mecca della tecnologia, si parla di un balzello che vada ad aiutare gli homeless in quella che, con la febbre di inizio secolo, è diventata la città più cara d’America. La Frisco hippy di Kerouac e Ferlinghetti ha cambiato volto con i dollari dell’economia digitale.

Per ora né Facebook, né Twitter né Alphabet hanno rilasciato dichiarazioni. Sicuramente nei corridoi si sta alla finestra, cercando, come spesso è accaduto in casi del genere, di non fomentare la rabbia con commenti avventati. E con la consapevolezza che, se un paese come il Regno Unito muoverà davvero il primo passo in questa direzione, e, soprattutto, se la misura incontrerà il consenso popolare senza rovinare l’ecosistema dell’innovazione, la direzione imboccata dai britannici potrebbe essere seguita su entrambe le sponde dell’Oceano. E per l’economia digitale si chiuderebbe un’era.

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Quando la Sardegna cavalcava l’onda di Internet (e perché può ancora farlo)

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su StartupItalia

 

Una finestra affacciata sul mare, l’odore di sale che entra dai battenti aperti.  La brezza che spira a rinfrescare l’aria, le navi attraccate pronte a partire per chissà dove.

Benvenuti in Sardegna, dove la rivoluzione digitale italiana prese avvio 30 anni fa.  A innescarla, un mix (ripetibile?) di politica lungimirante, imprenditori capaci di rischiare, menti geniali attratte da una cornice da urlo che, probabilmente, ha giocato un ruolo nelle scelta di spostare la propria vita qui. Una storia ben nota nell’ambito dell’innovazione, ma poco conosciuta all’esterno; a volte, persino agli stessi sardi.

Oggi il clima è diverso da quello di un tempo. Sull’isola, le startup innovative sono solo 165 (1,85% del totale nazionale, dati Infocamere, aprile 2018): come in Liguria, meno che in Calabria (190) e poco sopra l’Umbria (153). Regioni, però, che non possono vantare la stessa tradizione.  Quelle che esistono sono di tutto rispetto, come Moneyfarm. Ma è indubbio che, negli anni, qualcosa sia andato perso.

Un tempo il web era una prateria sconfinata e tutta da scoprire; oggi i competitors sono numerosi, agguerriti e dotati di capitali astronomici.  Ma sognare  è lecito. Le competenze sono rimaste sul territorio, i voli low-cost rendono più facile muoversi da e per il continente, e la potenza delle connessioni veloci consente di lavorare e tenere riunioni in remoto senza difficoltà. Abbiamo ricostruito la storia del digitale in Sardegna per ricordare che c’è stato un tempo in cui l’immaginazione era l’unica risorsa. Pane, amore e fantasia. Vediamo come è andata.

 

 

ARRIVANO RUBBIA E GLI SCIENZIATI DEL CERN – Il nostro mentore in questo viaggio che sembra un gioco di incastri, tanto è ricco di rimandi, citazioni e risonanze è di quelli che c’erano. Mario Mariani oggi fa il venture capitalist e ha creato un acceleratore che funziona a pieno regime, The Net Value; ma negli anni Novanta, quando il web era un affare da università, respirava l’aria densa dell’innovazione assieme ai protagonisti dell’epoca.

Lo raggiungiamo al termine di un consiglio di amministrazione. “C’è stato un momento, in quel periodo, in cui alcune delle migliori menti del web mondiale erano di stanza a Cagliari – ricorda, ripercorrendo a ritroso la parabola –  Tutto nacque con la creazione del CRS4, e con la Regione che sigla un accordo con IBM per portare sull’isola un super computer. Di quelli che, allora, si vedevano solo nei film”.

A dirigere il CRS4 viene chiamato il fisico e premio Nobel Carlo Rubbia, che porta con sé un parterre di ricercatori ambiziosi e di talento. “Alcuni di loro stavano lavorando con il padre del web,  Tim Berners Lee – racconta Mariani – Lo dico per dare l’idea del livello delle competenze che si stavano radunando in città”. Stava nascendo Internet come la conosciamo adesso. E la Rete, da lì a pochi anni, avrebbe plasmato il mondo.

IL POTERE DELL’ECOSISTEMA –  La parola chiave è ecosistema. Ciò che è accaduto a Cagliari negli anni ’90, ciò che ha reso il capoluogo di una delle regioni più povere d’Italia l’epicentro del web nel nostro paese ha il volto di due persone estremamente note sull’isola.

Il primo è quello di un politico lungimirante, Antonello Cabras. Fu lui ad avere  l’intuizione di stringere il famoso accordo con IBM.

“Trent’anni fa qui nessuno sapeva cosa fosse l’informatica – prosegue Mariani – E lui, invece, cosa fa? Una joint venture con il colosso americano”. Il super-elaboratore fornito dalla società statunitense viene allacciato a Internet, che ai tempi collegava solo università e centri di ricerca, e utilizzava comandi vicini al linguaggio macchina. Mancava qualunque interfaccia utente, il “lato umano”, insomma, quello con cui abbiamo imparato a familiarizzare e che ha consentito una diffusione capillare della tecnologia.

Tutto nasce dall’intuizione di portare una forte discontinuità a Cagliari: un centro di ricerca di altissimo livello in una terra allora poverissima”. Rubbia fa da catalizzatore, dal Cern e da tutto il mondo in tanti rispondono al richiamo del luminare: e la cavalcata può cominciare.

IL FIUTO PER GLI AFFARI –  Mentre da una parte attorno al CRS4 si raccoglie una comunità di scienziati di talento, a pochi chilometri di distanza qualcosa si muove. Strade differenti che, improvvisamente, si intersecano.

Il secondo protagonista di questa storia è molto conosciuto anche fuori dalla Sardegna. Ha sempre fatto l’editore, e ai tempi è proprietario di Radiolina e Videolina,  rispettivamente la prima radio e televisione locali sarde. Si chiama Nicola, ma ai più è noto come Nichi. Di cognome fa Grauso.

 

Nicola Grauso

All’epoca con l’editoria si poteva guadagnare. Dotato di fiuto, senso del rischio, disposto a mettere sul piatto molto di quello che aveva per seguire l’intuizione del web, Grauso decide di informatizzare la redazione dell’Unione Sarda, il quotidiano di sua proprietà, introducendo la videoscrittura. I giornali, in quegli anni, erano ancora composti “alla vecchia maniera”: Grauso, invece, dota tutti i redattori di pc da tavolo e word processor, e fornisce i grafici di un software per impaginare. Ma, soprattutto, crea una rete locale aziendale – oggi la chiameremmo intranet – per condividere i contenuti all’interno dell’ufficio.

A gestire la transizione tecnologica è chiamato un olandese, arrivato in città per amore di una donna: è Reinier van Kelij, un dottorato in tasca e la voglia di vivere vicino alla sua compagna.

L’UNIONE SARDA: NASCE IL PRIMO GIORNALE ONLINE EUROPEO –  “La città è il luogo in cui si può trovare una cosa mentre se ne cerca un’altra” scriveva il sociologo urbano Ulf Hannerz. Da un accumulo di energie concentrate nello stesso spazio-tempo può nascere un’esplosione. Basta una scintilla, e lo stato di grazia in cui tutto appare possibile si sostanzia in mille progetti.  Concreti. “Stato nascente” lo definisce un altro sociologo, Francesco Alberoni. Il lavoro diventa febbrile, i limiti sembrano inesistenti; arriva un momento in cui l’entusiamo lascia il posto alla realtà, e anche in questo caso sarà così. Ma è in questo modo che nascono le rivoluzioni.

“Van Kleji conosce Pietro Zanarini, uno dei ricercatori che dal Cern di Ginevra era venuto a lavorare in città – e vive ancora qui tra l’altro” prosegue Mariani. “Un po’ per scherzo,  i due si chiedono:  perché non proviamo a realizzare un programma che pubblichi sul web in automatico gli articoli dei giornalisti dell’Unione Sarda?”.  La rete aziendale c’era: il magazine era già online, in un certo senso. Il problema era portarlo fuori dalle mura della redazione.

L’unico giornale che all’epoca aveva un’edizione online era a San Francisco. Siamo tra il ’90 e il ’92. Senza dir nulla all’editore, viene acquistato il dominio http://www.unionesarda.it. I due si mettono al lavoro, e nel giro di qualche tempo mettono a punto il software  – un antenato di quelli che oggi chiameremmo CMS – per condividere il quotidiano non ancora stampato.

Fanno tutto di nascosto, si diceva. “Ma dopo tre mesi la voce si sparge: i nostri connazionali nelle università di tutto il mondo leggevano l’Unione Sarda e si informavano sul web sui fatti italiani. E’ paradossale – ammette  – Vivevano negli Usa, ed erano in grado di conoscere le notizie del Belpaese prima di chi stava qui, perché la prima edizione, fresca di stampa arrivava in edicola solo alle cinque, mentre con il collegamento internet la condivisione era immediata”. Tutto scontato, con gli occhi di oggi; ma, per capire la portata della novità, bisogna tornare a un mondo in cui i cellulari erano nati da poco e fare un’interurbana era un salasso.

GRAUSO, LA FEBBRE COMINCIA A SALIRE – “Grauso, letteralmente, impazzisce per questa novità, e fonda quella che a mio parere è la prima vera startup in Europa” prosegue Mariani. Nasce Video On line (VOL), provider che fornisce accesso alla rete e ha base in Sardegna.

Grauso pensa a un sistema aperto, differente anche da quello di America On Line (AOL), e comincia a vendere l’abbonamento ai propri servizi distribuendo gratis il floppy disk per connettersi assieme ai propri giornali. “La sua genialità? Fu capire che un giorno tutti avrebbero fatto lo stesso”.

“Essendo molto intelligente ” – e anche molto ricco – “Grauso prende a corteggiare le migliori menti del web mondiale, a partire da Nicholas Negroponte. Li aggancia e li porta in Sardegna con il suo jet privato, dove trovano un humus decisamente fertile per portare avanti il proprio lavoro”. E si sa, il talento attira il talento.

Dalla Silicon Valley a Boston, l’imprenditore è instancabile nel suo inseguimento. Sceglie i nomi, li punta, e li convince a collaborare con VOL. Tutte le migliori menti del settore arrivano a Cagliari. “Ad esempio i canadesi, i migliori nell’ambito dei motori di ricerca. Ben prima di Altavista e Google c’era Fulcrum”.

Mariani stesso si innamora del web, e lascia il posto fisso in Regione per lavorare nell’azienda, settore marketing. “Vendevamo i domini  alle piccole e grandi imprese” ricorda. Qualche nome? Agip o  Corriere della Sera, entrambi agli inizi della propria avventura digitale.

Tra le idee geniali che nascono in quel periodo, quella di Luca Manunza: un’interfaccia che consente di leggere l’email senza essere esperti di codice. Era nata la webmail. Peccato che Manunza, in pieno spirito hacker, metta il codice sorgente in Rete a disposizione di tutti. Sei mesi dopo, dall’altra parte del mondo, nasce Hotmail. Ma questa è un’altra storia.

 

UN DISTRETTO WEB IN SARDEGNA –  In poco tempo VOL cresce verticalmente e raggiunge 70mila abbonati: Tin, la divisione creata da Telecom per cavalcare l’onda del web, ne ha solo 2mila, per intenderci, in gran parte dipendenti. “Insomma, Telecom non sapeva fare web” chiosa Mariani con una battuta, ma non troppo: tanto è vero che l’operatore telefonico se ne accorgerà, e comprerà l’azienda da Grauso.

A Cagliari ci sono ormai centinaia di persone che lavorano su internet. A questo punto entra in gioco un terzo personaggio, destinato a incidere profondamente sul destino dell’isola. Ma facciamo  un passo indietro.

Renato Soru viveva in Repubblica Ceca e si occupava di investimenti immobiliari.  Aveva lavorato in finanza, e in quell’ambiente aveva utilizzato i terminali di Bloomberg, imparando a conoscerne le potenzialità.

Di passaggio in città, una sera incontra Grauso, che gli mostra la sua  VOL. Il progetto  gli piace, e, forte delle licenze software di cui l’imprenditore era in possesso e di uno staff già formato, decide di  “esportare” il provider in Repubblica Ceca. Czech on line è un successo clamoroso, che ripaga abbondantemente l’investimento. Due anni dopo Soru realizza la propria exit e coi soldi ricavati fonda Tiscali.

L’Europa mette fine al monopolio di Telecom, Grauso ha appena venduto VOL, le strade si incrociano ancora: molte competenze sono “libere” sul mercato, pronte a raccogliere la nuova sfida lanciata da Soru. Anche quella volta, Mariani c’è. “La  nuova compagnia si chiamava Telefonica della Sardegna e nasceva, letteralmente, con tre persone in una stanza sedute attorno a un tavolo: Renato Soru, me e Paolo Susnik“.  I primi anni sono sfolgoranti: la società apre la porta all’internet gratuito – niente più abbonamento ai provider – e il titolo vola in Borsa, complice anche l’esaltazione che condurrà alla bolla delle dot com. Nel periodo di massimo splendore Tiscali assomma un migliaio di dipendenti, tra cui 250 ingegneri, ed è presente in 15 paesi.

Internet cresce, e Cagliari e il suo circondario assumono sempre più la connotazione di un distretto web. Una concentrazione di competenze eccezionale per un territorio che, di tecnologico, fino a quel momento aveva avuto poco. Ma la ruota era destinata a girare: la parabola, arrivata allo zenit, stava per invertirsi.

IL DECLINO ARRIVA CON L’ADSL –  Il resto è storia abbastanza recente. Nei primi anni duemila qualcosa si inceppa. “Il mercato cambia con il passaggio dalle connessioni dial up all’Adsl, e il web diventa un gioco per grandi” riprende Mariani. “Tiscali fu molto brava a interpretare internet prima dell’Adsl – riflette il venture capitalist  –  non altrettanto dopo. Il modello di business era diventato completamente diverso, molto capital intensive”. Un gioco da giganti, che richiede investimenti da centinaia di milioni di euro. Soldi che in Italia non ci sono.

Tiscali, pur ridimensionata, resta un’azienda dal forte impatto sul territorio. Ma i numeri scendono, la realtà riprende il sopravvento e il baricentro dell’innovazione torna sul continente.

L’impatto di quella stagione epica in cui il centro del web in Italia era nel capoluogo sardo continua, però, a sentirsi. Manca il grande nome, quello che fa titolare i giornali; ma in città, e in Regione, è tutto un fiorire di piccole – e in qualche caso medie – imprese ad alto tasso di tecnologia. Come Moneyfarm, che di recente ha vinto un round da 46 milioni di euro ed, all’inizio, è stata incubata in Net Value, l’acceleratore di Mariani.

“La verità – commenta lui – è che quella stagione è passata, ma le competenze sono rimaste qui. Molti manager e dipendenti che hanno vissuto quegli anni in prima persona hanno gemmato, e messo in piedi le proprie aziende”. Che non sono forse grandi, ma sono molte, e diffuse sul territorio; anche nelle altre province.

La Sardegna, terra tradizionalmente di emigrazione, sta tornando ad essere attrattiva? Presto per dirlo. Ma qualcuno, nonostante il boom sia alle spalle,  comincia a pensarci.

Come Antonella Arca, che, laurea in ingegneria informatica, dopo dieci anni all’estero tra Spagna e Inghilterra ha staccato di nuovo il biglietto per Cagliari per fondarci la propria startup, Make tag. La tecnologia software sviluppata attira l’attenzione di Paola Marinone, founder della più grande Buzzmyvideos: Arca vende, e realizza – a 34 anni – la sua prima exit. Ma, ed è la cosa più importante, comincia a pensare al business in maniera diversa; in maniera, cioè, che possa avere un impatto sul territorio.

 

 

“Volevo contribuire allo sviluppo della mia regione – spiega  –   mettendo in gioco la rete di contatti costruita negli anni, e qualche vecchia conoscenza”. Nasce così il Digital Creativity Summer Camp, organizzato dall’Università di Cagliari della prorettrice Maria Chiara Di Guardo in collaborazione con Arca, Marinone e The Net Value.  L’evento ha portato in città a fine giugno più di 50 professionisti del digital provenienti da tutta Europa. Per quattro giorni i partecipanti hanno seguito corsi di altissimo livello tenuti da docenti come Neil Maiden, della City University di Londra,  e Joshua Kerievsky, fondatore di Industrial Logic. Tutto gratuito. “Con queste iniziative e il Contamination lab vogliamo creare un ponte tra innovazione e imprese – precisa Di Guardo – e attivare un network che alimenti l’ecosistema di Cagliari”. Lo schema per puntare a un Rinascimento? Quello collaudato: portare in città persone di talento, cercando, possibilmente, di trattenerle. Molte cose sono cambiate in questi anni, e non tutte in negativo. La disponibilità di voli a basso costo per tutte le principali capitali europee, ad esempio, e le connessioni ad alta velocità, che consentono di lavorare in remoto.

”E’ il mio modo di restituire qualcosa alla città” riflette  Arca. “La parte commerciale di un’impresa ha bisogno di una sede in città più grandi; ma il software può essere sviluppato ovunque. Molti vanno all’estero, magari in Oriente; e allora perché non in Sardegna, dove l’ecosistema e le competenze ci sono da anni?“.

Mariani conferma. “Qui non è raro ricevere un finanziamento regionale per la propria impresa innovativa. Le startup hanno un palcoscenico globale: in un’epoca come la nostra, l’insularità non è un limite insuperabile. Venire a Cagliari o a Milano, per un cliente di  Londra, è praticamente la stessa cosa. Insomma, avere sede qui può essere un limite per chi lavora con l’Italia; ma per le startup, che per definizione propongono un modello replicabile e scalabile, direi di no”. Col vantaggio che in Sardegna c’è il mare, e la qualità della vita è alta.

La conclusione di questa storia fatta di andate e ritorni di fiamma l’abbiamo chiesta proprio a Grauso. La voce al telefono è calma, cortese. Poche parole, stile laconico. Formidabili quegli anni, Grauso. Cosa conta per ripetere quell’esperienza? “Una cosa sola –  risponde – La visione.”

@apiemontese

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Zuck, 33 anni e sentirsene il doppio

Il volto magro, consunto. Le spalle più larghe di un tempo. Lo sguardo triste, spento, anche quando cerca di sorridere. Mark Zuckerberg, il ceo di Facebook, ha solo 33 anni. Ma è già un uomo vecchio. Pare che la voglia di vivere l’abbia persa per strada. Non che sia mai stato un campione di vitalità; ma il ragazzo statunitense dalla felpa con cappuccio aveva, se non altro, la freschezza dei 20 anni e dell’aver raggiunto il successo quando i coetanei finiscono l’università.

Dieci anni dopo, molta acqua è passata sotto i ponti. Il giovane un po’ naif è diventato un adulto, e ha scoperto che essere il terzo uomo più ricco del mondo  – ha di recente superato Warren Buffet – ha un prezzo salato: una vita sotto pressione, il fucile puntato addosso. E il non potersi fidare di nessuno, forse nemmeno della propria moglie, sposata non senza un corposo accordo prematrimoniale che prevede tutto, anche il “quality time” che la coppia deve passare assieme.

Viene da chiedersi, a guardarlo, se ne valga la pena. E se l’ex studente di Harvard non sia avviato sulla strada che fu di Bill Gates. Prima squalo, poi munifico benefattore, forse per restituire un po’ di quanto ricevuto in sorte. E cercare, dopo tanta fatica, un po’ di serenità.

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