ambiente, sostenibilità

Essere sostenibili è cool, ma non per tutti

Fino a pochi anni fa, l’ecologia era una cosa da ambientalisti, e da ingegneri. Fuori dal giro delle riviste di settore se ne parlava poco, e quando capitava era con superficialità.

Il settore in sé non si presta. Parafrasando Jung, a nessuno piace soffermarsi sui propri lati oscuri. E quello dei rifiuti è l’altra faccia del benessere.

Parlare di spazzatura, materia sporca per definizione, non era bello sui giornali, ma nemmeno nei consigli comunali: difficile spiegare agli elettori inferociti che inceneritori e depuratori da qualche parte bisogna pur costruirli, e che questo è il prezzo delle comodità cui non sappiamo rinunciare.

Oggi, il vento è cambiato. Essere sostenibili, chi l’avrebbe detto, è addirittura di moda, o cool, se amate gli anglicismi.

I quotidiani aprono supplementi dedicati (l’ultimo di chiama Green and Blue, di Stampa e Repubblica), le aziende ingaggiano società in grado di spiegar loro come inquinare meno e c’è persino un movimento (FlightShame) che addita chi vola.

Le premesse per un cambio di passo, insomma, ci sono. Solo nel 2012, a Greta Thurnberg non sarebbe stato dedicato molto più di un trafiletto, o un articolo nelle pagine interne; oggi l’adolescente nordica parla all’ONU.

Non solo. I grandi gruppi finanziari, da Blackrock in avanti, sostengono le rinnovabili non solo (figuriamoci) per ecologia: nella scelta strategiche entrano, piuttosto, una serie di ragionamenti e proiezioni che vanno oltre la filantropia, dalle perdite delle assicurazioni (costrette a risarcire miliardi di euro di danni per le alluvioni che si verificano ai quattro angoli del pianeta) al progressivo esurimento delle riserve di petrolio, gas e minerali; l’elenco è lungo un chilometro e non è il caso di farlo qui.

Il risultato, comunque, è positivo, dal momento che queste realtà posseggono (o sponsorizzano) i principali media: alla sostenibiltà è stato concesso (finalmente!) di fare notizia ed essere inquadrata in maniera accattivante. La ragazzina bionda che attraversa l’oceano in barca è il personaggio perfetto per incarnare questo nuovo corso.

I consumatori seguono, e anche quelli di fascia media – non solo i ricchi – stanno progressivamente diventando più sensibili, modificando le proprie abitudini di acquisto. Arrivano anche i governi, in un circolo virtuoso che pare innescato.

Ma non è sempre stato così. Ci indigniamo per quello che accade nell’est Europa o in Cina, dove le normative nazionali sono molto più permissive che da noi o le autorità chiudono un occhio; scordiamo, però, quanto avveniva in casa nostra fino a non molto tempo fa.

Ogni tanto compro su una bancarella il libro di un vecchio giornalista. Le raccolte di articoli di cronaca e costume molto datati fotografano in maniera vivida il passato, a volte meglio delle immagini. Rileggere quei pezzi mi porta ai tempi dell’infanzia.

Sfogliando un volume di Luca Goldoni, ottima penna, sono tornato agli anni Ottanta, quando a essere “in via di sviluppo” eravamo noi. Con larghe zone del paese appartenenti al secondo mondo più che al primo, il benessere di oggi era inimmaginabile. Qualche esempio della questione ambientale che, con urgenza, si poneva.

Il mar Adriatico era pieno di alghe e mucillagini. Il Po, il fiume più lungo d’Italia, di schiuma nel migliore dei casi biancastra. I parchi erano zeppi di rifiuti ( e di siringhe) abbandonati da chissà chi. La centralina di rilevazione degli scarichi peggiore di Milano era quella di via Senato, in pieno centro, dove oggi passano solo poche auto grazie a un divieto di transito chiamato area C.

Gli anni Settanta erano peggio. Mio padre mi racconta di quando, arrivato in Lombardia dal Sud, si meravigliava di soffiarsi il naso e trovare il fazzoletto annerito: la causa erano ciminiere e tubi di scappamento. Sesto San Giovanni era la Stalingrado d’Italia per le sue fabbriche, Genova e Torino gli altri vertici di quello che, col capoluogo lombardo, era detto il Triangolo Industriale. Non solo: per chi faceva le elementari in quegli anni c’era una sigla diventata familiare, CFC, clorofluorocarburi, contenuti nelle bombolette spray e – vado a memoria – nei frigoriferi.

Insomma, un altro mondo. Oggi, in questa porzione del globo, i problemi sono incomparabilmente minori. Ma al benessere sta arrivando una parte di mondo che prima certi lussi poteva solo sognarli (o vederli grazie alle parabole satellitari). Ed è la più consistente. Cina, India, America Latina, Africa erano escluse dai consumi di massa. E vogliono recuperare il terreno perduto.

Il barista sotto casa, persona intelligente e gran lavoratore, è cinese. E’ preoccupato, mi confessa: teme che, per recuperare dalla crisi dovuta alla pandemia, possa scatenarsi un’altra guerra. E, inutile dirlo, ha paura che ad essere aggredito sia proprio il suo paese. Pechino gioca un ruolo di primo piano sullo scenario economico e politico mondiale. “Adesso tocca a noi”, mi dice. “Perché non volete che il nostro popolo goda del benessere che avete avuto per tanti anni?”.

Un fisico dell’ENEA mi raccontava come vedono la questione a Dehli, in India. A un congresso di scienziati e ministri (tema, l’energia) si riteneva disonorevole che il consumo pro capite di elettricità dei paesi vicini potesse superare quello locale. Bisognava, cioè, trovare il modo di aumentare – avete letto bene: non diminuirlo – anche quello indiano. Questione di reputazione.

In America Latina la vedono più o meno allo stesso modo. Difficile spiegare il climate change a persone che vivono in città cadenti, per cui il benessere è rappresentato dalle lattine colorate di Coca Cola, grandi televisori a cristalli liquidi e magliette di squadre di calcio europee. Proprio ciò che noi, sazi, cominciamo a ritenere superfluo.

Fermare (o, almeno, gestire) il cambiamento climatico è molto complicato perché non è solo una questione tecnologica, ma culturale. Non bastano batterie migliori, plastiche bio ed energia solare: si torna sempre lì, essere sostenibili, in certi contesti, non è una priorità. Come direbbe Celentano, non è rock, è lento. Anzi, fa un po’ sfigato, proprio come da noi fino a qualche anno fa, quando dicevi ambientalista e ti venivano in mente la zia hippy e il marito fricchettone.

Sono incuriosito da quanto tempo ci vorrà al resto del mondo per completare la transizione. Finanza, opinione pubblica, politica. Se il percorso sarà simile al nostro o se, come alle volte accade, chi arriva dopo potrà saltare qualche passaggio. In molti stati africani le soluzioni di pagamento fintech sono più avanzate rispetto a gran parte dell’Europa: con il denaro contante difficile da procurarsi, maneggiare e custodire, i cellulari, invece, sono universali: la scelta è stata immediata.

Non siamo senza colpe. Le stesse compagnie che si ripuliscono l’immagine finanziando progetti green non hanno ancora smesso di commettere le peggiori nefandezze, naturalmente al riparo da occhi indiscreti. Il codice di autoregolamentazione del settore internazionale del gioiello racchiude un lungo elenco di comportamente discutibili e vietati: dalla corruzione all’inquinamento, dallo sfuttamento del lavoro minorile al finanziamento dei signori della guerra, non c’è condotta turpe che manchi all’appello. Evidentemente il problema era grosso come un diamante da un milione di carati.

Basterà l’autodisciplina? Chissà. Sicuramente in questa fase contano, e molto, le scelte dei consumatori occidentali. Il loro potere di informarsi e condizionare le politiche di aziende e governi è un’arma potentissima. Insomma: se davvero lo vogliamo, dobbiamo prenderci la responsabilità di guidare il cambiamento. Magari rinunciando a qualche comodità, o lusso, in cambio di un pianeta migliore.

Pubblicità
Standard
internet, sostenibilità

Nuvole sporche, o di quanto inquina il cloud

Questo articolo è stato pubblicato su Wired

L’Olanda vuol essere la porta d’accesso digitale d’Europa. La rete mondiale si basa su una quindicina di grandi hub. Uno tra i principali è Amsterdam, dove ha sede il 30% dei data center europei. Ma, dopo l’overtourism, la capitale ha un altro problema: quello dei dati. Le grandi aziende stanno comprando edifici residenziali trasformandoli in alloggi per le ingombranti macchine, in una città che ha sempre tenuto alla propria identità estetica. L’amministrazione, come già successo per il turismo, ha capito di aver spinto troppo sull’acceleratore, e nel mese di luglio ha imposto uno stop alla costruzione di nuove server farm. Ma non è solo una questione urbanistica: ognuna consuma elettricità come 15mila abitazioni, o diversi ospedali, per non parlare dell’acqua necessaria agli impianti di raffreddamento.

Benvenuti nella nuova frontiera della lotta al cambiamento climatico. Se pensate che inquinamento sia uguale a centrali a carbone, veicoli a gasolio, fabbriche che emanano odori pestilenziali, siete troppo ottimisti. Anche i dati presentano un conto ambientale, che può essere molto salato. Una guerra difficile da combattere, perché difficile da visualizzare. Non solo per la gente comune.

Ogni gigabyte trasferito sul web genera un consumo energetico paragonabile a quello di quando, finita la doccia, accendiamo il phon per ventiquattro secondi. Ogni ricerca su Google, ogni video guardato su YouTube, ogni foto condivisa su Instagram ha un costo in termini elettrici. Per non parlare dei bitcoin: per garantire la sicurezza della criptovaluta è necessaria tanta energia quanta ne consuma in un anno un paese come l’Irlanda. La stima è di Alex de Vries, bitcoin specialist per la società di consulenza Price Waterhouse Coopers.

Data center che inquinano quanto città

Si tratta di cifre sconcertanti anche per gli addetti ai lavori” confidava nel 2012 al New York Times Peter Gross, ingegnere con 30 anni di carriera nella progettazione di data center. Il quotidiano aveva realizzato un’inchiesta su quello che, già allora, appariva come una bomba a orologeria. “Un singolo complesso può arrivare a consumare più di una città di medie dimensioni”, proseguiva il tecnico. Il perché va cercato nelle abitudini degli utenti e nell’architettura di internet per come la conosciamo oggi, volta non tanto a garantire l’efficienza del sistema, quanto a ricalcare i comportamenti di chi ne fa uso.

Il modello tipico per l’archiviazione dei dati è costituito da gigantesche server farm. Mastodonti dislocati su tutto il pianeta, che assorbono energia come idrovore. E inquinano. Nuvole sporche, potremmo definirle, traducendo la parola “cloud”. Finito il tempo delle chiavette, oggi si può archiviare tutto in remoto grazie alle multinazionali del web. Il modello di business è semplice: l’azienda costruisce un gigantesco agglomerato di computer e affitta porzioni di spazio agli utenti. Che sia lo schema prevalente, e sia destinato a restarlo ancora per un pezzo, lo conferma l’intenzione di Google, annunciata di recente, di investire 3 miliardi di euro nella costruzione di nuovi data center in Europa.

Ma, come una tubatura rotta, buona parte delle risorse necessarie a farli funzionare viene dispersa. Il New York Times rivelò nella propria inchiesta come i big del web facessero funzionare le macchine sempre al massimo della potenza, anche quando il traffico non era al picco. Il risultato era che il 90% dell’energia assorbita dalla rete elettrica veniva sprecata. Uno studio di McKinsey mostrava come solo tra il 6 e il 12 per cento del consumo di elettricità veniva utilizzato per operazioni di calcolo: il resto serviva per mantenere i sistemi pronti e reattivi, un po’ come lasciare il motore della macchina al minimo quando si entra al supermercato, o la si parcheggia in garage. Il business online, del resto, si gioca su velocità e prestazioni. Siamo abituati ad avere i servizi che amiamo sempre pronti appena ci colleghiamo alla rete: non trovarli ci porta, semplicemente, a cambiare fornitore. Un rischio che i big del web, da Amazon a Facebook, non possono correre.

Non è finita. Ci sono, poi, le precauzioni contro imprevisti e blackout. Per compensare cali di tensione nell’ordine di pochi secondi (sufficienti, però, a mandare in tilt il sistema), nelle server farm sono allineate enormi batterie simili a quelle delle auto. Per prevenire interruzioni della fornitura più durature, invece, si impiegano enormi generatori a diesel, a volte installati in violazione delle disposizioni antinquinamento.

Le prime soluzioni: il caso di Cubbit

Individuato il problema, è partita la corsa a cercare le prime, pionieristiche, soluzioni.  E magari farci una startup. E’ il caso di Cubbit, realtà italiana nata nel 2016 dall’idea di quattro studenti a Bologna. “Per così dire, ricicliamo lo spazio web che non viene utilizzato” spiega a Wired Stefano Onofri, fondatore e amministratore delegato. “Il nostro software si installa su tutti i device dotati di storage e, invece di un solo, enorme data center, li usa come nodi di una rete distribuita per archiviare le informazioni degli utenti”.

Una scommessa sul futuro. “Non parliamo solo di hard disk, ma di Internet of Things, ovvero di tutti i dispositivi domotici che nei prossimi tre-cinque anni diventeranno onnipresenti, e resteranno sempre connessi”, continua Onofri. E aggiunge: “Pochi lo sanno, ma una smart tv di solito include un terabyte di spazio di archiviazione, che viene utilizzato solo al momento in cui vediamo un film. Tutto spazio sprecato, così come la banda domestica, inattiva  per gran parte del giorno, ad esempio quando siamo al lavoro”.

Cubbit la recupera: l’informazione viene spacchettata in 36 parti, e il software si assicura che almeno 12 siano sempre online. In caso contrario procede immediatamente al backup. Nessuno ha accesso all’informazione completa. “Nemmeno noi” precisa Onofri. Non solo. L’informazione viene archiviata il più possibile vicino all’utente, per essere richiamata con tempi di latenza bassissimi. “L’ideale, per esempio, per veicoli a guida autonoma”, chiosa l’ad. E per ridurre i consumi: perché ogni chilometro percorso da un bit fa lievitare il conto ambientale.

L’idea ha suscitato interesse. Cubbit è entrata, prima startup italiana, nel programma di TechStars a Tel Aviv, uno dei più grandi acceleratori al mondo. Ma anche l’Unione Europea ha deciso di concedere fiducia all’esperimento, erogando un finanziamento da due milioni di euro perché il progetto è in linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile. E i giganti del web? “Per il momento, continuano per la propria strada – chiosa Onofri -. Immagino che abbiamo bisogno di vedere che il nostro è un modello che  funziona. Quando capiranno che è così, cambieranno politica. Del resto, stiamo parlando di alcune delle società più innovative del mondo”. Per il momento, l’approccio dei grandi della Rete è solo compensativo. Big G sta finanziando la costruzione di parchi eolici in Svezia e Belgio e la nascita di cinque progetti a energia solare in Belgio.

Standard