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Ilaria Salis, se la rabbia non basta

Sul caso di Ilaria Salis resto ottimista. A patto di abbassare i toni. All’attivista monzese, che ieri è apparsa nuovamente in udienza in catene, sono stati negati i domiciliari in Ungheria. In che modo, dunque, se ne può dare una lettura positiva?

Ripercorrendo la vicenda e l’eco mediatica che l’ha – giustamente – circondata, anche se i detenuti italiani all’estero sono oltre duemila.

Quando, a gennaio, il caso è montato, a occuparsene sono state le opposizioni, a cominciare da Ilaria Cucchi. Altri hanno seguito, come Lia Quartapelle, Ivan Scalfarotto. Ma era veramente un caso solo della sinistra? No, e fu chi scrive ad andarlo a chiedere – per primo – ai parlamentari di maggioranza, tra cui la presidente leghista della commissione Diritti Umani del Senato Stefania Pucciarelli. Qualche giorno dopo, l’esecutivo incontrava la famiglia della detenuta. Poi ci fu la prima apparizione in aula, in ceppi.

Da quel momento, e per un paio di settimane, i fatti hanno preso una piega incontrollabile. Interviste, incontri, servizi di carta stampata, web e televisioni, la girandola degli inviati il cui numero cresceva di giorno in giorno. Il ministro degli Esteri Tajani incontrò l’omologo ungherese sul caso; persino la presidente del Consiglio Meloni ne parlò con il premier magiaro Orban.

In quei quindici, concitati giorni si è superata più di una linea rossa.

Dalla notte dei tempi, potenze piccole e medie usano i prigionieri come arma per ritagliarsi un ruolo da protagoniste sulla scena internazionale nei confronti di attori più quotati. Successe anche all’Italia, coi marò (che però avevano ammazzato due pescatori in India credendoli pirati) e con Cesare Battisti (in Brasile). Corre l’obbligo di ricordare che sul Cermis Roma chinò il capo senza fiatare consegnando gli accusati agli americani, ma questa è un’altra storia.

La diplomazia è stata inventata, per così dire, al fine di evitare che a parlarsi fossero le parti, troppo coinvolte e per questo accalorate. Non nascondiamoci dietro a un dito: le anticamere dei palazzi del potere sono il regno dell’ipocrisia, popolati come sono da uomini costretti a passare la vita ripetendo cose che spesso non pensano. Non sarà bello: però serve. Come sturare le fogne. L’alternativa, da Gaza all’Ucraina, è la guerra.

Arrivare praticamente a delegittimare la magistratura ungherese, come il governo tricolore tirato per la giacchetta dall’opinione pubblica ha dato l’impressione di fare a febbraio, non è stata una buona idea. Un conto sono le proteste di piazza; un altro è ciò che a rappresentanti dell’esecutivo è concesso di fare in casi del genere.

Non si fa un favore a Ilaria Salis politicizzando il suo caso per attaccare il governo, o strumentalizzandolo per rivendicare un presunto diritto all’antifascismo a ogni costo.

La si aiuta, piuttosto, tenendo viva la fiammella con i post sui social media, la raccolta di firme, le fiaccolate, le iniziative.

Spesso i processi di questo tipo si risolvono con una condanna, e una misura di grazia. Non  è detto che vada così, ma è una ipotesi, corroborata da svariati episodi noti nella galassia antagonista internazionale. Si vuole piegare il militante al cospetto dei compagni e del mondo.

E’ chiaro che, per chi si aspettava una risoluzione rapida, la giornata di ieri non può essere soddisfacente. Ma ricordiamoci che, all’inizio, l’ipotesi di chiedere i domiciliari in Ungheria (per poi averli in Italia) non era stata nemmeno presa in considerazione da difesa e famiglia; e quando, di fronte al secco no magiaro, si è addivenuti finalmente a questa risoluzione, è parsa la concessione che si fa al matto che pretende di avere ragione.

Le autocrazie (cioè le dittature moderate) vivono di immagine, rappresentanza, idoli: di brav’uomini soli al comando non ce n’è. Meno di tutto, bisogna attaccare il simulacro del leader, la sua capacità di guidare il Paese. Chiede un sacrificio in termini di libertà al popolo: la ricompensa è la sensazione di sicurezza che fornisce. “L’umanità ha sempre scambiato un po’ di libertà per un po’ di sicurezza” sintetizzava Freud. Tantopiù in un mondo confuso come quello di oggi, che passa di crisi in crisi.

Se si prende per il naso il governo, il giochino finisce. Questo lo sa bene Orban, lo sanno bene i diplomatici, ma se lo sono scordati in tanti. I cittadini non erano tenuti a conoscere queste prassi; chi regge un Paese, però, sì.

Il mondo, come sempre, non è bianco o nero. Lasciare intendere “con noi o contro” serve a fare proseliti, non a risolvere i problemi. Mi auguro che, da qui a maggio (quando è calendarizzata la prossima udienza) chi è interessato alla sorte di Ilaria Salis manifesti il proprio sostegno in maniera costante, ma composta. E che anche la famiglia riesca a trovare una lettura coerente nell’impegno a sostegno della figlia, ma fiduciosa. Anche perché quando Ilaria tornerà a casa, ed è sicuro che tornerà, avrà una vita davanti, e la partita più difficile resterà trasformare il male di questi anni in bene. Per se stessa. E per gli altri che non hanno la sua forza.

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esteri

La potenza di un’immagine

Anche nel gorgo di una civiltà visuale, innegabilmente sovraccarica e banale, la potenza di un’immagine resta in grado di smuovere le coscienze. Ci sono  stati scatti in grado di cambiare la storia. La foto di Tommi Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico, nel 1968,  col braccio alzato sul podio per rivendicare i diritti dei neri americani. Quella di George Floyd con il ginocchio del poliziotto sulla gola, pochi istanti prima di morire.  Quella di Nelson Mandela liberato dopo ventisette anni di prigionia, che segnò la fine dell’apartheid. Da lunedì c’è anche quella di Ilaria Salis, attivista italiana detenuta in Ungheria, accusata di un’aggressione ai danni di due militanti neonazisti. Da un anno la donna è rinchiusa in un carcere di massima sicurezza a Budapest. Otto giorni la prognosi per le ferite riportate dai simpatizzanti neri: l’attivista, invece, rischia ventiquattro anni, con evidente sproporzione,

Si era raccontato, lo aveva fatto lei stessa in una lunga lettera agli avvocati, delle durissime condizioni di detenzione. Ma quando lunedì si è presentata al processo con i ceppi alle mani  e alle caviglie, una sorta di guinzaglio a legarla a una poliziotta e due omaccioni delle forze speciali in mimetica e passamontagna schierati ai lati, la potenza del fotogramma ha smosso anche le coscienze di chi faceva fatica a interessarsi al caso. Il sorriso dolce, appena abbozzato, dell’italiana spezzava la durezza di un’atmosfera irreale, aggiungendo un tocco di grazia al quadro desolante del tribunale magiaro.

Consumati dal martellamento incessante di immagini in cui siamo abituati a muoverci, le immagini giunte dall’Ungheria hanno avuto il potere di fermare per qualche istante il flusso di influencer, Ferragni, Fedez, shampi, Cracchi, reality, Amici, ballerini che intasa gli schermi dei nostri telefonini e televisioni.

Salis, suo malgrado, è diventata il simbolo di come si possa affrontare con garbo una prova difficile. Oggi ha alle spalle un Paese intero, e fortunatamente, pare, anche il governo. Ma la sua vicenda deve farci riflettere sulle condizioni del sistema carcerario. Anche italiano. Una battaglia di cui in pochi si ricordano, e che, con merito, come in tanti altri casi, va ascritta ai radicali.

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clima, cop, esteri

Cop28: un accordo in cui il clima c’entra poco

Quello di Cop28 è un accordo che fotografa la situazione di un mondo che, oggi, ha altre priorità rispetto al clima, dalle guerre all’economia. L’abbraccio tra John Kerry e Xie Zehnua, anziani inviati speciali dei rispettivi governi, è una questione politica più che ambientale. Un esercizio di diplomazia in uno scenario alla ricerca di stabilità, che non favoriva scossono e che alla fine si è risolto nel “business as usual”. Vediamo perché.  

Lo scontro tra Usa e Cina e la diplomazia del clima

Il contesto è la fine del mondo unipolare seguito alla caduta del muro di Berlino. Tramontata l’era della globalizzazione con il sogno di un governo globale, il mondo di oggi ha diversi centri di gravità, sempre più lontani dal Nord America e più vicini all’Asia.

La contesa chiave è tra le due superpotenze: se gli Stati Uniti sono in declino, la Cina, dal canto suo, è in ascesa. Tra i due giganti c’è una partita aperta su tutti i fronti, da quello commerciale a quello geopolitico. Il clima è, forse, l’unica sponda rimasta ad alleggerire la tensione.  

Washington prova a stringere alleanze in Asia. Pechino risponde.

Una buona sintesi la dà Robert Ross, professore di Scienze politiche al Boston College. “La Cina vuole più sicurezza in Asia orientale – dice il politologo -,  ed è determinata a minare le alleanze americane nella zona vicino alle proprie coste” dice. “Gli Stati Uniti, invece, stanno resistendo, cercando di mantenere il proprio ruolo di grande potenza, anzi: di unica superpotenza globale. E per questo motivo hanno innescato una guerra commerciale e tecnologica e incrementato la cooperazione con l’Europa, Corea del Sud, Taiwan, Filippine: tutto per indebolire il sistema economico cinese, rallentarne la crescita di Pechino e restare numero uno”.

Ricordiamo alcuni episodi, per sottolineare come, per comprendere Dubai, occorre allargare lo sguardo oltre all’ambiente: il bando di Huawei da parte del governo statunitense, i palloni spia cinesi intercettati sul suolo americano, i dazi reciproci sulle importazioni, le leggi come l’Inflation Reduction Act che privilegiano le imprese locali, e a cui Pechino ha risposto. Non solo. Nei giorni scorsi il governo cinese ha ordinato ai dipendenti statali di non utilizzare iPhone e Samsung come dispositivi per il lavoro, escludendo i due marchi. Per Apple (la più grande azienda americana) un chiaro segnale e uno spauracchio di quanto potrebbe accadere in caso la tensione si alzasse, dal momento che lì produce anche la maggior parte dei propri cellulari e realizza un quinto del fatturato.  

La politica ondivaga degli Usa sul clima

La politica climatica statunitense non ha molto da insegnare: dal rifiuto di aderire al protocollo di Kyoto al ritiro dall’Accordo di Parigi, sono tante le contraddizioni tra parole e fatti. La dichiarazione di Sunylands, resa pubblica il 14 novembre (due settimane prima di Cop), segna l’accordo tra Usa e Cina per spingere le rinnovabili. Una dichiarazione di buone intenzioni: ma in realtà Washington non ha mai prodotto tanto petrolio quanto oggi (qui una statistica che parte dal 1920) e anzi: negli ultimi quindici anni ha praticamente triplicato il numero di barili pompati.

Contraddizioni che, dalla prospettiva del Sud globale, si vedono chiaramente.

Come scrive il Financial Times, non certo un giornale terzomondista:

[…]something profound is happening in the world — a kind of metaphysical detachment of the west from the rest. Where many people in the rest of the world once saw the west as the answer to their problems, they now realise that they will have to find their own way”.

Le agenzie di pubbliche relazioni aiutano l’Ovest con i media e il pubblico di casa a far passare per “storico” un accordo che è un compromesso al ribasso; ma tre quarti del mondo che prima vedeva nell’Occidente guidato dall’America il parente ricco che ce l’ha fatta, un esempio da imitare, ha acquisito autocoscienza e non gli riconosce più alcuna autorità morale. Dall’Africa al vicino Oriente, dal Medio Oriente al Sudamerica fino all’Asia, è molto più forte il ricordo del passato coloniale e dello sfruttamento.

La Cina e la corsa allo sviluppo

Dal canto proprio, nonostante la Cina sia il Paese con la maggior potenza rinnovabile installata, Pechino non ha alcuna intenzione di lasciare petrolio e carbone a breve. E non è neanche particolarmente interessata a chiarire il proprio status di Paese ormai sviluppato, col dovere – quindi – di essere in prima linea nella transizione e di contribuire in maniera importante dal punto di vista finanziario alle varie iniziative multilaterali. Soprattutto in un momento in cui l’economia nazionale sta rallentando, come quello presente.

L’Opec

Se i giganti non si muovono, non si sogna certo di farlo per prima l’Opec, l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio. Anzi. Capeggiata dall’Arabia Saudita, ha fatto di tutto per bloccare un accordo a Dubai. Il benessere dei Paesi che affacciano sul Golfo Persico riposa sugli idrocarburi, e per quanto la necessità della transizione energetica sia ormai un fatto acclarato, ogni anno guadagnato significa, per chi li vende, migliaia di miliardi di dollari in più per preparare il futuro. Ai prezzi attuali, poi. Comprensibile, quindi, il rifiuto di cedere. Immaginate i grattacieli di Dubai senza i denari necessari alla costosa manutenzione: una città fantasma. La missione è riuscita, e infatti il testo dell’articolo 28 sul Global Stocktake, il più atteso, è così vago da far sorridere gli sceicchi, che possono cantare vittoria. Sui media occidentali sono stati dipinti come cattivi, l’unico capro espiatorio. Ma è troppo facile.

L’Africa e le piccole isole

Alla fine, a perderci èl’Africa e, soprattutto, le piccole isole, che fra qualche anno rischiano di vedersi sommerse. Se la nascita nel 2022 del fondo per il loss and damage era sembrato l’alba di una nuova era in cui sarebbe stato il Sud globale a dettare l’agenda climatica, quest’anno le posizioni tra G77 (il gruppo negoziale che accoglie buona parte del global south) e Cina paiono essersi allontanate. Qualcosa non torna. Le piccole isole hanno protestato per un accordo che a molti è parso un golpe – approvato in fretta e furia con una procedura irrituale a meno di due minuti dall’apertura della plenaria finale – ma con un comunicato diffuso in quelle stesse ore l’hanno parzialmente appoggiato. Resta da chiedersi in cambio di quale contropartita. Al buio delle dark room, al riparo da microfoni e taccuini nelle ultime quarantotto ore di clausura assoluta, tante sono state le trame tessute. Ma meglio fermarsi qui.

Finanza

Infine, nell’accordo di Dubai manca la finanza. Ancora una volta, non ci sono i soldi per consentire agli stati poveri di fare la transizione. E i denari sono la chiave di volte di tutto: senza, parliamo di filosofia buona per fare titoli di giornale, ma priva di impatto sulla realtà. Ci sono voluti quindici anni per raggiungere la soglia di cento miliardi di dollari per l’adattamento climatico: in realtà, ne servirebbero tremila ogni dodici mesi, trenta volte tanto. Il fondo per il loss and damage reso operativo due settimane fa all’inizio della conferenza di Dubai ha raccolto circa ottocento milioni di euro: gli Usa, storicamente contrari,  ne hanno messi solo diciassette. Poniamo che servano a beneficiare 140 paesi:  il conto fa  5,7 milioni a testa, a cui togliere le commissioni per la Banca mondiale (mi dicono attorno al 15%, qualcuno sostiene di più). Secondo un amico, quattro chilometri di ferrovia per arrivare dall’aeroporto di Malpensa a  un paese vicino costano circa duecento milioni di euro. I commenti li lascio a chi legge.

In conclusione

Articolo troppo lungo, mi scuso. Quale sarebbe stato, allora,  un risultato ottimale per questa Cop che si è tenuta  in uno dei più grandi paesi esportatori di petrolio? Dal mio punto di vista: phase down con tabella di marcia meno vaga che consentisse di centrare la finestra del 2030; passi differenziati tra mondo occidentale e paesi in via di sviluppo; vera finanza climatica.

Cito di nuovo il Financial Times.

We have to talk to each other. But we must do so as equals. The condescension must end. The time has come for a dialogue based on mutual respect between the west and the rest”. Dopo la delusione iniziale, che – confesso – a Dubai mi ha preso, è il momento di tirare una linea e ricominciare a rimboccarsi le maniche, lavorare per il futuro. Per far sì che sia migliore del presente. Qualcuno lo chiama il dovere dell’ottimismo. E probabilmente ha ragione.

Foto di Travis Leery su Unsplash

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esteri, unione europea

Su Israele “l’UE rischia di perdere ogni credibilità”: lettera dei dipendenti a von der Leyen

Ottocentocinquanta dipendenti delle istituzioni europee (su circa trentaduemila) hanno firmato una lettera indirizzata a Ursula von der Leyen che ne critica il “sostegno incondizionato” a Israele. La notizia è stata riportata da Euractiv. Si tratta di un atto insolito, perché a Bruxelles il personale è abituato a girare tra dipartimenti e uffici nel corso di una carriera che resta ambita, ed è, pertanti, attento a costruirsi un percorso in grado di adattarsi agli inevitabili cambi di vento. Non questa volta.

“In particolare, siamo preoccupati dal supporto incoindizionato della Commissione europea che lei rappresenta per una delle due parti” si legge. “Noi, un gruppo di dipendenti della Commissione e altre istituzioni Ue, condanniamo solennemente su base personale l’attacco terroristico perpetrato da Hamas contro civili inermi […] Ma condanniamo ugualmente e con forza la reazione sproporzionata del governo israeliano contro i 2,3 milioni di civili  palestinesi intrappolati nella striscia di Gaza”. “Proprio per via di queste atrocità, siamo sorpresi dalla posizione presa dalla Commissione europea – e anche da altre istituzioni – che hanno promosso quella che sulla stampa è stata descritta come ‘cacofonia europea’ “. I firmatari si dichiarano preoccupati per “l’apparente indifferenza dimostrata nei giorni scorsi dall’istituzione nei confronti del massacro di civili a Gaza, in violazione dei diritti umani e delle leggi umanitarie internazionali”.

Nei giorni scorsi era arrivato il dietrofront della Commissione dopo che il commissario ungherese all’allargamento Oliver Varhely aveva annunciato che l’esecutivo di Bruxelles avrebbe tagliato “tutti gli aiuti” ai Palestinesi, generando la reazione delle altre entità politiche comuni – la posizione dell’Unione viene espressa dal Consiglio, cioè dagli Stati membri, e le sfumature sono parecchie. “Vi invitiamo con urgenza a invocare, assieme coi leader di tutti gli Stati [membri], un cessate il fuoco e la protezione della vita dei civili. Questo è il cuore dell’esistenza europea” hanno aggiunto i firmatari. “L’Europa rischia di perdere ogni credibilità”.

Sabato 22 ottobre un summit per la pace organizzato al Cairo si è concluso senza una dichiarazione finale: il blocco occidentale chiedeva di inserire nel testo solo un riferimento all’attacco di Hamas, senza menzionare i raid israeliani su Gaza. L’opposizione degli altri partecipanti ha portato il vertice a chiudersi con un nulla di fatto.

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esteri

Il Dio della vendetta

Sembrano ultras di una nazionale di calcio dopo la vittoria inaspettata di un mondiale. Sfilano per le strade su pickup Toyota con i corpi dei nemici a bordo, vivi o morti fa poca differenza. Esultano, fucile in braccio, tra la folla urlante, che li riprende col telefonino, uomini, donne, ragazzini in maglietta col cappellino Nike girato. Perché, come spesso capita, non hai l’acqua, ma il gadegt firmato sì, quello che ti illude di essere un po’ come loro, e in realtà scava goccia a goccia il fossato della consapevolezza: come loro, quelli dall’altra parte del muro, coi bei vestiti, le belle scuole, il lavoro alla moda, non lo sarai mai. Invece degli slogan legati al pallone, sbraitano Allahu Akbar; e dalla frequenza ossessiva, completamente avulsa dal contesto, dal tono rabbioso, dalla pronuncia sguaiata, capisci che in chi urla non è presente alcuna di elaborazione; è sfogo primordiale, è isteria collettiva, è nevrosi, forse transitoria psicosi. Distacco dalla realtà, quando è la personalità della massa a prendere il posto dell’individuo; un animale che si nutre degli istinti più bassi, istintivamente consapevole che la folla protegge, la folla esalta, la folla innalza e dà forza. La folla vendica il sangue col sangue.

La vendetta di Israele calerà come una scure biblica. Senza pietà. Senza distinguo. Il Dio – ma dov’è Dio, oggi? – rabbioso del Vecchio Testamento arma la mano dei figli di Davide, e vendicherà i morti.

Nessuno può giustificare la violenza brutale di Hamas, di cui sono piene le immagini dei notiziari di questi giorni. Ma chiediamoci se ha senso reagire allo stesso modo, fino a che punto ci si può spingere per vendicare i propri morti quando si è uno Stato civile e non un’organizzazione paramilitare. Qual è la differenza? Se una differenza c’è.

I falchi dicono che gli arabi, quegli arabi, non capiscono altro linguaggio che quello brutale della forza. Senz’altro i terroristi che hanno invaso Israele uccidendo e gettando granate persino in fondo ai bunker dove la gente si era rifugiata in cerca di riparo erano bestie senza legge: come quelli dell’11 settembre, come quelli del Bataclan, raccontati da Emmanuel Carrere nelll’ultimo libro mentre erano alla sbarra in un tribunale parigino.

Il punto è forse proprio questo. Uno Stato civile fa processi. Reagire con violenza pari o superiore all’affronto per ripristinare la deterrenza ha senso? Si può realmente sperare che una popolazione disperata, affamata, senza acqua, costretta a vivere schiacciata in pochi chilometri quadrati, possa cambiare idea?

Senza voler scomodare la filosofia morale, un mero e cinico calcolo politico dovrebbe suggerire il contrario.

Il terrore è mancanza di elaborazione, è paura, assenza di appigli, di speranza in un futuro; si stanno allevando due milioni di persone pronte a tutto, a ridere sul cadavere di un uomo martoriato, a farsi saltare in aria, ad attraversare il confine in deltaplano a motore per non perdersi l’assalto, scena tra le più comiche tra quelle viste nei conflitti di ogni tempo.

Io penso che la gente di Israele e Palestina abbia governanti peggiori di quelli che si merita. Governanti che non sono in grado di proteggerla se non facendo abbaiare le armi. Ma Israele è uno Stato compiuto, dove esiste un dibattito pubblico, è una democrazia in grado di tollerare anche le – e non mancano – voci dissenzienti. A Gaza tutto questo non c’è. Parliamo di una società regredita a connotazioni tribali. E spinta sempre un passo più indietro. Reagire in questo modo è un suicidio, un veleno distillato a gocce. Ogni giorno che passa è un anno in più di guerra futura, un anno in più di insicurezza. Il diritto ha superato la legge del taglione dei tempi di Hammurabi. I crimini di guerra sono tali anche se commessi per reazione. Che la comunità internazionale intervenga, una buona volta, se l’Onu, che di questo scempio è responsabile, serve a qualcosa.

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A tre ore da Mosca

Un dettaglio. Prighozin è arrivato a duecento chilometri da Mosca in meno di 24 ore. Può succedere perché non ci sono barriere fisiche a difendere la capitale, solo una sterminata pianura. Questo spiega l’ossessione, sempiterna, di Mosca per il confine occidentale. Inutile ribadire quanto l’invasione di Putin sia stata criminale. Ma , se c’è un portato su cui si può concordare nella girandola di supposizioni di queste ore, quasi nessuna corroborata da fatti, è che l’Ucraina nella Nato resta una pessima idea, così come pure l’ingresso di Svezia e Finlandia. Il Paese, se vorrà (e se ne avrà i requisiti), potrà entrare nell’Unione Europea, accedere al mercato unico, ai fondi per la ricostruzione e lo sviluppo; ma per la Nato, il discorso è molto differente. Kiev, per la posizione geografica che la colloca a fianco di una potenza nucleare, ha il destino, tragico, di restare neutrale. Deve essere tutelata dalla comunità internazionale, che fa bene ad aiutare la resistenza; ma senza cedere alla richiesta di un ingresso in una alleanza per propria natura militare, che significherebbe piazzare i carri armati occidentali a poche ore da Mosca. Non è giusto, da un punto di vista filosofico, ma è pragmatico, e le relazioni internazionali, piaccia o meno, funzionano così. Da sempre.

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Cartina che mostra il confine tra Finlandia e Russia
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Perché Finlandia e Svezia nella Nato non sono una buona idea

L’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato sarebbe un errore. Lo stesso tipo di sbaglio che ha portato a una guerra come questa. Brutale, vergognosa per la maniera in cui viene condotta dai Russi: ma, purtroppo, prevedibile dal punto di vista delle relazioni internazionali.

Putin non è pazzo: difende l’interesse nazionale russo, e lo fa ora, e a qualunque costo, soprattutto in un paese che dopo di lui potrebbe tornare in mano a una schiera anarchica di oligarchi corrotti. Un ulteriore allargamento della Nato, con un confine da 1350 km da cui possono passare agevolmente truppe di terra, alzerebbe la tensione e il rischio di incidenti. Pensare che l’autodeterminazione dei popoli prevalga sulla stabilità mondiale è illusione da adolescenti. O da furbetti. Cosa accadrebbe se Mosca dislocasse carri armati in Messico?

Mi rendo conto che può suonare impopolare, e certo non è un modo per mettere sullo stesso piano aggressore ed aggredito: ma la diplomazia ha codici e regole che non vanno infranti. Col suo cinismo serve a evitare le guerre più delle piazze e delle bandiere della pace alle finestre. Si rischia una crisi diplomatica per una sedia fuori posto a un consesso internazionale, per un invito mancato, riesce difficile immaginare come possano sfuggire le conseguenze di un atto che va a rompere gli equilibri, e verrebbe interpretato come irrimediabilmente aggressivo.

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Ancora su Russia, Usa e anni Novanta

Qualche giorno fa, Federico Fubini si poneva la domanda se aiutando economicamente la Russia dopo il ’91 si sarebbe evitata la caduta del paese nel revanscismo putiniano. All’epoca, il Cremlino accettava consigli dagli USA, e Jeffrey Sachs era tra i protagonisti di quella stagione. Sachs, qui sotto e sempre con Fubini, ripercorre quegli anni (con una certa indulgenza verso sé stesso, va detto) e offre qualche considerazione sull’oggi. Che condivido.

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Dove abbiamo sbagliato con Putin

Questa analisi di Federico Fubini, più di molte altre, rende ragione dell’ascesa dello zar Putin in Russia. Fubini sottolinea come l’altra metà delle responsabilità dell’Occidente nel conflitto ucraino (oltre all’ espansione della Nato verso est, che lui non condivide) fu il non aver aiutato la Russia con una sorta di piano Marshall nel 1991. Mosca fu mal consigliata durante la transizione dal comunismo alla democrazia da un pugno di economisti stranieri molto ascoltati da Eltsin (al punto da scrivere i decreti di quegli anni) ma troppo chiusi nel proprio iperuranio liberista per comprendere che il passaggio avrebbe dovuto necessariamente essere graduale. Invece si propose una terapia choc. All’inizio degli anni Novanta, la presenza americana a Mosca era forte. Una sorta di assalto alle spoglie dello sconfitto che a Fubini ricorda le onerose riparazioni di guerra imposte alla Germania dopo il 1918, e che ebbero come conseguenza l’ascesa di Hitler.

Il giornalista fa i nomi e dichiara di aver provato a contattare i protagonisti di quegli anni: senza esito.

Vale la pena di ricordare, per gli amanti delle semplificazioni, che cercare di ricostruire le cause dell’aggressione di Putin non significa appoggiarla o non sapere da che parte stare.

Ma, a mano a mano che la riflessione prende lucidità anche sui giornali più moderati, diventa chiaro che guerre future porranno essere evitate solo con un atteggiamento di vera cooperazione. Nella Mosca di inizio anni Novanta giravano leoni incravattati travestiti da agnelli con cattedra ad Harvard. Non ci fu aiuto. Dio solo sa cosa sarebbe stata l’Europa post 1945 senza il piano Marshall. Una lezione che dovremmo tenere a mente oggi, quando le ostilità, speriamo presto, saranno cessate.

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