Cartina che mostra il confine tra Finlandia e Russia
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Perché Finlandia e Svezia nella Nato non sono una buona idea

L’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato sarebbe un errore. Lo stesso tipo di sbaglio che ha portato a una guerra come questa. Brutale, vergognosa per la maniera in cui viene condotta dai Russi: ma, purtroppo, prevedibile dal punto di vista delle relazioni internazionali.

Putin non è pazzo: difende l’interesse nazionale russo, e lo fa ora, e a qualunque costo, soprattutto in un paese che dopo di lui potrebbe tornare in mano a una schiera anarchica di oligarchi corrotti. Un ulteriore allargamento della Nato, con un confine da 1350 km da cui possono passare agevolmente truppe di terra, alzerebbe la tensione e il rischio di incidenti. Pensare che l’autodeterminazione dei popoli prevalga sulla stabilità mondiale è illusione da adolescenti. O da furbetti. Cosa accadrebbe se Mosca dislocasse carri armati in Messico?

Mi rendo conto che può suonare impopolare, e certo non è un modo per mettere sullo stesso piano aggressore ed aggredito: ma la diplomazia ha codici e regole che non vanno infranti. Col suo cinismo serve a evitare le guerre più delle piazze e delle bandiere della pace alle finestre. Si rischia una crisi diplomatica per una sedia fuori posto a un consesso internazionale, per un invito mancato, riesce difficile immaginare come possano sfuggire le conseguenze di un atto che va a rompere gli equilibri, e verrebbe interpretato come irrimediabilmente aggressivo.

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Ancora su Russia, Usa e anni Novanta

Qualche giorno fa, Federico Fubini si poneva la domanda se aiutando economicamente la Russia dopo il ’91 si sarebbe evitata la caduta del paese nel revanscismo putiniano. All’epoca, il Cremlino accettava consigli dagli USA, e Jeffrey Sachs era tra i protagonisti di quella stagione. Sachs, qui sotto e sempre con Fubini, ripercorre quegli anni (con una certa indulgenza verso sé stesso, va detto) e offre qualche considerazione sull’oggi. Che condivido.

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Dove abbiamo sbagliato con Putin

Questa analisi di Federico Fubini, più di molte altre, rende ragione dell’ascesa dello zar Putin in Russia. Fubini sottolinea come l’altra metà delle responsabilità dell’Occidente nel conflitto ucraino (oltre all’ espansione della Nato verso est, che lui non condivide) fu il non aver aiutato la Russia con una sorta di piano Marshall nel 1991. Mosca fu mal consigliata durante la transizione dal comunismo alla democrazia da un pugno di economisti stranieri molto ascoltati da Eltsin (al punto da scrivere i decreti di quegli anni) ma troppo chiusi nel proprio iperuranio liberista per comprendere che il passaggio avrebbe dovuto necessariamente essere graduale. Invece si propose una terapia choc. All’inizio degli anni Novanta, la presenza americana a Mosca era forte. Una sorta di assalto alle spoglie dello sconfitto che a Fubini ricorda le onerose riparazioni di guerra imposte alla Germania dopo il 1918, e che ebbero come conseguenza l’ascesa di Hitler.

Il giornalista fa i nomi e dichiara di aver provato a contattare i protagonisti di quegli anni: senza esito.

Vale la pena di ricordare, per gli amanti delle semplificazioni, che cercare di ricostruire le cause dell’aggressione di Putin non significa appoggiarla o non sapere da che parte stare.

Ma, a mano a mano che la riflessione prende lucidità anche sui giornali più moderati, diventa chiaro che guerre future porranno essere evitate solo con un atteggiamento di vera cooperazione. Nella Mosca di inizio anni Novanta giravano leoni incravattati travestiti da agnelli con cattedra ad Harvard. Non ci fu aiuto. Dio solo sa cosa sarebbe stata l’Europa post 1945 senza il piano Marshall. Una lezione che dovremmo tenere a mente oggi, quando le ostilità, speriamo presto, saranno cessate.

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Vaccino Covid, cosa significa per Londra arrivare primi

L’approvazione del vaccino Pfizer-BioNTech da parte dell’ente di vigilanza britannico, primo al mondo, ha un impatto pratico (ovviamente, quello legato alla protezione della popolazione) ma anche un significato politico molto più ampio. Il vaccino sarà disponibile dalla prossima settimana. Da Europa e USA, invece, non ci sono notizie sui tempi.

Il Regno Unito è tra i paesi più colpiti dal coronavirus dal punto di vista economico, in parte anche per le scellerate decisioni del premier Boris Johnson nelle fasi iniziali. Johnson sottovalutò i rischi puntando a un’immunità di gregge molto costosa in termini di vite umane per garantirsi una ripresa precoce, salvo poi, ammalarsi egli stesso, e correggersi nel giro di qualche settimana. La pandemia ha toccato Londra nel momento peggiore: pochi mesi prima, il paese aveva sbattuto per l’ennesima volta la porta in faccia all’Unione Europea e chiuso la telenovela Brexit, che durava da oltre tre anni.

Un problema serio, perché l’economia non beneficerà del generoso Recovery Fund messo in piedi da Bruxelles.

Oggi il Regno Unito è un paese solo, con le mani libere, ma che viaggia in mare aperto senza scialuppe. Avere approvato per primi il vaccino significa cominciare a distribuirlo subito e poter, quindi, sperare in un recupero più rapido. Ma non solo: significa anche guadagnare le copertine dei notiziari, e soprattutto: siamo qui, non siamo morti. Siamo sempre uno dei paesi più avanzati al mondo dal punto di vista tecnologico. Venite da noi, ce la possiamo fare.
Oltre che di impatto per gli investitori esteri, l’annuncio rinvigorisce il morale sul fronte interno.

Che basti, non è detto. I prossimi anni saranno duri, e a Downing Street lo sanno bene. Inoltre, l’attendismo delle agenzie del farmaco europea e americana sull’approvazione è un segnale chiaro: meglio andare sul sicuro che rischiare un nuovo disastro, in termini di vite umane e di immagine internazionale. Ma la tentazione, per Londra, è stata troppo forte: dopo una serie di sconfitte a cui il paese non era abituato, quello di oggi è il primo colpo messo a segno da tempo. O l’ennesimo flop di un leader nato per stupire, forse non per governare.

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Un anno di Brexit. Da May a Cameron, la Gran Bretagna in cerca di leader

Questo articolo è stato pubblicato sul Londra, Italia il 23 giugno 2017. 

Era la fine del primo decennio Duemila. David Cameron veniva salutato come un leader giovane, ecologista, innovatore. Il paese che Tony Blair si trovò a governare nel 1997 era depresso, svogliato: aveva completato la transizione da economia industriale a economia di servizi, ma sul campo erano rimaste le teste dei tanti a cui il passaggio non era riuscito. Il miracolo riuscì, invece, almeno sulla carta, al leader laburista.

Cool Britannia la chiamavano. Ed attirava, in effetti. Non solo l’ora del tè e il Sunday roast: una comunità giovane, globale e aperta al futuro, che prende il meglio di quello che il mondo può offrire. Ma mentre a Londra si brindava a champagne nei salotti della finanza e si ascoltava il Britpop di Oasis e Blur, nelle regioni dimenticate del Nord le fabbriche di posate e le miniere chiudevano una dopo l’altra. Era la finanziarizzazione dell’economia. Calici al cielo, soldi che passano di mano in mano e creano altri soldi, e (in teoria) il benessere si sarebbe diffuso a pioggia. Col senno di poi, facile prevedere che la bolla sarebbe esplosa.

Nel 2007 arriva la crisi. Non solo. Nel pacchetto Blair era compresa una guerra, quella in Iraq, combattuta al seguito di Bush sulla base di premesse rivelatesi false; la gente era stufa di perdere soldi e soldati in un conflitto percepito come distante e inutile. E’ in questo clima da post sbornia che Cameron, il leader bambino, studente dei migliori college inglesi come da tradizione, vince le elezioni nel 2010 e porta a termine il primo mandato.

Era atteso con speranza, si dimostra un leader senza qualità. L’atto che pone termine alla sua carriera politica a nemmeno 50 anni è il referendum che trascina la Gran Bretagna fuori dall’Unione Europea esattamente dodici mesi fa. Indetto per guadagnare consensi e quasi per gioco, diventa un affare tremendamente serio quando la gente vota per lasciare Bruxelles. Che, oltre agli immigrati, portava anche soldi, tanti, ripartiti tra aiuti alle regioni depresse del paese e la possibilità di accedere a un mercato unico e ricco per i tanti servizi e le poche merci britanniche.

Brexit un anno dopo: successo o scelta avventata?

Brexit un anno dopo: successo o scelta avventata?

In quel frangente nasce la meteora di Theresa May. Ministro dell’Interno per sei anni, tiepida sostenitrice del Remain, la signora ha finalmente la grande occasione. Carriera cominciata negli anni Settanta, un marito attaccapanni, più che spalla, May accetta l’incarico come una missione e opera un’inversione a U, trasformandosi in paladina dell’uscita. “Getting the job done“, portare a termine l’incarico, quale che sia, senza farsi domande. Si sciolse in lacrime all’elezione della Thatcher, avrebbe voluto essere lei la prima inquilina al numero 10 di Downing Street. Ora ha l’opportunità di entrare nella Storia dalla porta principale.

Un aplomb altero, la consapevolezza malcelata che la Gran Bretagna post-imperiale non è mai stata un’isola ma un crocevia di relazioni, interessi e soft power, sin da principio non attira simpatie, in patria e all’estero.

Brexit means Brexit“: con questa salsa il primo ministro condiva i primi discorsi e rispondeva a chi chiedeva se, davvero, a Londra fossero sicuri di lasciare un’Unione che già garantiva ampie autonomie. E che, soprattutto, forniva sussidi, non solo costi. La replica era gelida. Gli eredi di quello che fu uno degli imperi più potenti della Storia non hanno paura di affrontare il futuro a viso aperto.

Preoccupata di passare alla Storia più che dell’ordinaria amministrazione, la premier, però, dimentica il fronte interno. La Brexit aveva perso a Londra, ma trionfato nelle periferie del Regno, dove i Leavers  avevano convinto la working class che la colpa di tutti i mali stava a Bruxelles. Immigrazione, attentati, abuso dei sussidi, ospedali al collasso: tutto nello stesso calderone. Quello del 2016 diventa un voto di protesta legato alle condizioni precarie dei molti stanchi di sentirsi raccontare che tutto va bene mentre guardano, col piatto vuoto, la dolce vita della capitale.

Nessuno tra i Conservatori pensa a come avrebbero reagito le masse all’aumento delle tasse universitarie e a manovre come la “dementia tax quando si decide di convocare nuove elezioni per “rafforzare il mandato” in vista di una hard Brexit che comincia a profilarsi problematica e piena di incognite.

E’ un errore. La premier incassa una vittoria monca: sei ministri non vengono rieletti, e, da una maggioranza sicura, i Conservatori si trovano nella necessità di cercare il sostegno del DUP (il Democratic Unionist Party nordirlandese)  per governare. Compagine locale, decisa a recitare fino in fondo il ruolo di veto player – quelle forze politiche il cui unico capitale è la possibilità di dire no – il loro sostegno costa caro.

Il resto è storia di questi giorni. Theresa May prova a formare un governo di scopo per la Brexit, le cui trattative hanno preso il via una settimana fa. L’Unione, dal canto suo, ringalluzzita dai recenti successi elettorali in Olanda e nella Francia di Macron, si mostra compatta. A Londra si comincia a pensare che la strategia massimalista (“No deal is better than a bad deal“, l’ennesimo slogan) non sia più perseguibile. Che qualcuno  a Downing Street abbia pensato a un’alternativa in questi dodici mesi è, però, tutto da dimostrare.

Antonio Piemontese
@apiemontese

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Morire di disperazione a Londra

“Testa in giù, contorni a rovescio/ disperazione in heavy rotation/Londra dov’è/Forse non c’è” cantavano i Negrita nel 2005, smontando in anticipo il sogno di quanti sarebbero andati nel Regno Unito a cercare gloria negli anni a venire. Il pezzo si chiamava “Greta” e raccontava la storia di una ragazza che non ce l’aveva fatta.

Londra, per molti, è un punto d’arrivo, ma sarebbe meglio considerarla un punto di partenza. Bastano pochi giorni qui per capire  quanto la capitale inglese sappia essere spietata. Di fianco alla ricchezza e al lusso sfrenato degli arabi, dei russi e dei finanzieri convive la miseria dei disperati impiegati nelle decine di migliaia di ristoranti, caffè, pizzerie, lavanderie, musei, parrucchieri, supermercati della capitale.

Con un salario di 6.50 sterline all’ora si lavora, se va bene, 50 ore a settimana, spesso lontano dall’abitazione,  e solo per sopravvivere. 450 vanno per l’affitto, poi c’è l’abbonamento ai mezzi, le bollette, i vestiti, il cellulare per comunicare. Il freddo dell’inverno, il riscaldamento, la corrente.

Non conosco la storia di Benedetta, una ragazza ligure di 19 anni venuta qui per imparare l’inglese. Nulla so delle sue motivazioni, delle sue condizioni di salute.  Quello che so lo apprendo da una notizia del Corriere:   “Non riusciamo a seguire tutti i decessi” ha risposto il consolato al padre. Perché Benedetta, qui, a Londra, ci è morta. Un’altra storia tragica.

Chissà cosa pensava. Forse, come tanti, voleva cambiare vita, forse, come tanti, si è lasciata massacrare giorno dopo giorno da turni infernali di da 12 ore, col terrore di essere licenziati o di ammalarsi, perché non c’è tempo per andare dal medico. Ammesso che un dottore si riesca a vederlo. C’è chi offre visite nello stesso giorno con un medico di base per 75 sterline. Il claim recita: “Non hai tempo di ammalarti? Ecco il servizio per te”.  Capirai.

Addio chiamate svogliate a casa, ogni contatto è prezioso, ogni abbraccio virtuale dei parenti o di un amico è una boccata di ossigeno. Addio choosyness: qui ci si adatta, e si lotta per sopravvivere nella guerra di tutti contri tutti. Non c’è posto per la pietà, tra i sedili della Tube.

No, Londra non è cambiata.

Due anni e ora l’ho vista, finalmente, da turista, dopo averci lavorato come tanti in passato.

Ero uno di quelli che cercavano di sbarcare il lunario con due o tre lavori, tanta fatica ma buoni solo per sopravvivere.

Dei suicidi, per convenzione, sui media non si parla. Poco prima di andarmene, era il 2015,  una fonte ben informata mi raccontò quello che non si dice mai. L’ambasciata italiana – o il consolato, non ricordo, ma fa lo stesso –  ha stipulato un accordo con una compagnia aerea (probabilmente – ma usiamo i condizionali del caso – quella di bandiera),  per rimpatriare le salme dei connazionali che muoiono in questa maledetta città. Le bare vengono imbarcate con discrezione sui voli di linea. Non lo sapete, ma viaggiate con un morto nella stiva. I casi di suicidio, del resto, si contano a decine l’anno.  Difficile organizzare trasferimenti privati. Gente disperata, ragazzi, adulti, uomini e donne fatti che,  invece, semplicemente, non ce l’hanno fatta, e non mollano per paura di tornare a mani vuote da quello che doveva essere il paradiso. Perché, è vero, alcuni ce la fanno. Ma chi?

Ci sarebbe molto da dire al riguardo, soprattutto pensando a quanto affermiamo sugli immigrati che sbarcano a Lampedusa. Qui, nella civile Inghilterra, siamo nella stessa situazione, forse messi peggio. Ce la fa chi ha un lavoro prima di sbarcare a Stansted, chi guadagna migliaia di sterline, e ne spende altrettante per mantenere un tenore di vita accettabile, chi non passa quattro ore al giorno sui mezzi di una città in cui puoi guidare per cinque ore da nord a sud senza vederne la fine, campagne e grattacieli che scorrono dai finestrini. Gli altri cercano di non morire, e di andarsene.

Scrivo dalla City, da Southwark. Di fronte a me ho St Paul, Westminster, il London Eye, i traghetti che portano in giro i visitatori. Sono seduto e guardo questo Tamigi di un marrone torbido, discarica di tutte le lacrime e i veleni di chi è venuto in cerca di speranza.

Questa volta ho alloggiato a Canary Wharf, la nuova zona finanziaria, in uno splendido hotel. E’ passato molto tempo. Ma ogni volta che apro il rubinetto, ricordo i tempi in cui rientravo in casa a notte fonda e non avevo luce e acqua calda per lavarmi, per il semplice fatto che nessuno, nell’appartamento,  aveva soldi per pagare le bollette. Quando finiva il credito del contatore, beh, era finito.

Ogni volta che tiro fuori una carta di credito per pagare un caffè penso a quando  mi riempivo di Digestive (sono biscotti) alla mattina per tirare fino a notte fonda, quando mi sarei fiondato in un supermercato aperto 24 ore che mi avrebbe dato la mia dose quotidiana di junk food a buon mercato. Not healthy, at all.

Oggi sono uno dei tanti turisti che sorseggiano una birra in un pub. Ma non è sempre stato così. Chi non lo ha passato non sa quanto si possa invidiare, e persino odiare, chi ha quattro soldi da spendere per un panino, e un po’ di tempo per godersi uno delle centinaia di musei, gallerie, teatri della città. Io, assieme a milioni di altre persone, ai tempi non l’ho mai fatto. Se devi sopravvivere, il giorno di riposo lo passi a casa. A letto, con le ossa rotte.

No, Londra non è cambiata.  Una città che funziona grazie all’autista di bus pakistano, a quello di Uber che è albanese, alla security di Marks and Spencer che è serba, all’idraulico polacco, alla nanny turca, e, of course, al barista italiano che prepara 1.500 caffè al giorno, sapendo che c’è la fila per prendere il suo posto.

Manca il tempo. Quello per vivere, per cercare un altro lavoro, per studiare e prendere un diploma inglese, che  garantisce salari più alti. Mancano gli amici, che sono pochi, e tutti immigrati come te.

E si, conosco bene la sensazione di chi non vuole tornare a casa a mani vuote, e magari qui ci crepa. O magari, di tornare non può permetterselo. Provate a prenotare un volo. Se non lo fai con mesi di anticipo costa centinaia di sterline. Sei, letteralmente, bloccato qui. L’ambasciata fa quel che può , il Progetto primo approdo, le conferenze per spiegare come si cerca lavoro, come rifarsi il cv. Ma la verità è che dovrebbero raccontare, con il consenso dei familiari, le storie di quelli che sono venuti a Londra e ci sono crepati come cani, magari gettandosi nelle acque  rancide di questo fiume malato, tra liquami intrisi di cocaina e la disperazione putrefatta dei cadaveri degli invisibili che nessuno cercherà mai.

Questa è Londra, signori. Andate e raccontatelo.

@apiemontese

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Brexit, che succede adesso?

Brexit, siamo day after. Dopo la sbornia elettorale, nella capitale inglese si pensa a come gestire un risultato che molti, forse neppure chi lo ha caldeggiato, si aspettava. Boris Johnson, l’ex sindaco di Londra capofila del fronte Leave, e’ apparso teso in conferenza stampa. Cameron ha dato le dimissioni, mentre l’Unione Europea precisa che il divorzio non sara’ consensuale e spinge a fare presto. Bruxelles teme l’effetto domino, e deve tutelarsi.

Intanto, Scozia e Irlanda – che hanno votato per il Remain – minacciano di lasciare il Regno Unito: gli scozzesi, in particolare, riproporrebbero il referendum per l’indipendenza che nel 2014 non ebbe esiti, per tentare di restare nella UE.

Ma c’è un altro spettro che si aggira per Londra. Il timore, fondato, di una crisi immobiliare, che potrebbe avere conseguenza devastanti sull’economia.

L’articolo originale è stato pubblicato su Londra, Italia, e lo trovate qui.

Canary Wharf, il nuovo distretto finanziario, l’emblema della Londra capitale globale, rischia di diventare una città fantasma, tra viali vuoti e i grattacieli rimasti a memoria del tempo che fu. I bei negozi di lusso e i palazzi con portieri in livrea non si riempiranno ogni mattina di manager dal portafoglio imbottito e il gusto per il gessato, di neolaureati rampanti in cerca di denaro e signore in tallieur con tacco a spillo e borsa di Prada che lavorano in finanza. La reazione all’uscita sarà rapida e i mercati, come al solito, non stanno a guardare.

Brexit, il giorno dopo. Separata de facto dall’Unione, ma divisa anche all’interno, la Gran Bretagna è confusa. Qui sotto un grafico con le 5 domande sull’Unione Europea più poste a Google in UK il day after: la seconda è “What is the EU?”, segno che molti hanno votato senza conoscere lontanamente la questione. Credendo, in sostanza, di votare contro la crisi e gli immigrati, i britannici si sono auto-inflitti una recessione che potrebbe lasciare macerie dietro di sé.

goggle questions brexit

Smaltita la sbornia per la vittoria, le dimissioni di Cameron hanno lasciato un vuoto proprio nel momento in cui ci sarebbe bisogno di una guida. Il premier, ovviamente, non può restare: ma Boris Johnson, ex sindaco di Londra e capo del fronte del Leave, in conferenza stampa è apparso contratto, nervoso: come non si aspettasse di vincere, e dover gestire una patata bollente che non può passare a nessuno. La sterlina si alleggerisce, e brucia nelle tasche di chi la possiede, e assieme al calo della Borsa determina una situazione esplosiva  cui si aggiunge un possibile (e probabile) crollo del mercato immobiliare.

L’indice FTSE 100 ieri ha chiuso in perdita del 3.15%. Calo contenuto? Non proprio. Nell’indice, che considera le prime 100 imprese per capitalizzazione, compaiono molte compagnie che con il Regno Unito non hanno niente a che fare, a parte la residenza per fini fiscali. Un dato più significativo si ottiene guardando all’FTSE 250, che comprende una quota maggiore di imprese concore business nel Regno Unito: questo scende del 7,19%. “Depurandolo” ulteriormente dalle aziende sostanzialmente estranee al paese dal punto di vista strategico, e considerando le aziende inglesi in tutto e per tutto insomma, si stima, invece, una perdita attorno al 10%.

Le cose non vanno meglio sul piano monetario. Verso l’una del mattino di venerdi, quando le voci di corridoio sui risultati dei primi collegi “sentinella”  hanno cominciato a diventare definitive, il valore della divisa britannica è crollato. Dopo il risultato di Gibilterra, che aveva votato al 96% per il Remain, l’entusiasmo è calato ben presto. Già un’ora dopo, il fronte del Leave è passato in testa, e non ha mai più ceduto il passo. Nei comitati e nelle sale stampa le facce hanno cominciato a rabbuiarsi solo verso le due, come vi abbiamo raccontato in diretta, ma la finanza non dorme e a quell’ora chi aveva in portafogli titoli vendibili se ne era già sbarazzato. Per quanto possibile, si intende.

I mercati hanno reagito al Brexit peggio di quanto abbiano fatto dopo il crac di Lehman Brothers” spiega Andrea Beltratti, direttore dell’Executive Master in Corporate Finance alla Bocconi in un’intervista. In Gran Bretagna non si produce più quasi nulla: si trasformano materie prime, e si forniscono servizi ad alto valore tecnologico. La finanza è il motore dell’impressionante flusso di denaro che gira su Londra, dove, chi è ricco, è veramente ricco, a dispetto di una working class ampia che fatica a tirare la fine del mese.

Per la City si aggira lo spettro di una crisi immobiliare. Il grafico qui sotto (fonte: Halifax) mostra l’andamento del mercato di settore in UK negli ultimi dieci anni, e la situazione patrimoniale delle principali banche, esposte in mutui immobiliari per miliardi di pounds: Barclays per £126bn, Lloyds (il cui titolo  ha perso il 21%) addirittura per £289bn. Cosa potrebbe accadere?

Proviamo a immaginare lo scenario più catastrofico. Il valore delle case a Londra dal 2008 (crisi dei mutui, crisi Lehman) al 2016 è salito di quasi l’80 %. Una bolla senza precedenti. La Gran Bretagna, anche grazie all’ampia autonomia, è uscita dalla crisi meglio e più in fretta rispetto agli altri, e la capitale si è lanciata verso un periodo di sviluppo che sembrava destinato a durare. Nuove costruzioni, le Olimpiadi, un’attenzione internazionale che tornava.

mercato immobiliare ukLe banche, attente a non ripetere gli errori del passato, hanno concesso mutui a giovani rampanti della finanza, considerati pagatori affidabili, con cifre pari anche al 100 del valore dell’immobile: assieme al mutuo per la casa, l’istituto ne concedeva un altro con cui lo yuppie poteva comprarsi la macchina dei sogni. Unico vincolo, versare tutti i propri introiti sul conto corrente. Pochino. I mutui si concedono in base all’affidabilità, e questo segmento di popolazione è caratterizzato da alto reddito, scarsa propensione al risparmio e tenore di vita al top.

Ma se la miccia è già stesa a terra, il fiammifero potrebbe essere la decisione delle grandi banche d’investimento di muovere i propri headquarters da Londra ad altre zone del mondo fiscalmente vantaggiose. Ad esempio il Lussemburgo, ma anche Hong Kong. Già il 16 giugno, una settimana prima del voto, il Times riportava che JP Morgan ed Hsbc avevano cominciato a prepararsi a un’eventuale Brexit valutando lo spostamento di alcune divisioni in Lussemburgo, per evitare le regole che rendono oneroso condurre il business al di fuori dell’Eurozona. Con l’uscita che si materializza (e l’UE che mette pressione perché accada in fretta) molti altri istituti potrebbero seguirle. Le conseguenze? Chi lavora in finanza sa cosa sta per accadere: prima ancora di essere licenziato, cercherà un altro lavoro altrove, magari all’estero. Si determinerà una forte pressione di vendita sull’immobiliare, e un rapido calo dei prezzi.

Torniamo per un momento ai Lloyds, la banca più a rischio con il 65% dei propri libri contabili esposti a una crisi nell’immobiliare UK. Se i prezzi sono saliti tanto rapidamente, significa che sull’onda dell’entusiasmo le case sono state pagate più di quello che valgono. Per chi ha un lavoro si tratta, semplicemente, di un investimento che si deprezza; il problema comincia con chi perde l’impiego, e il Brexit potrebbe mettere molti a rischio. In caso di insolvenza, le banche si rifanno vendendo all’asta la casa del debitore per rientrare. Ma con il mercato in picchiata, gli introiti non riuscirebbero a coprire l’importo prestato per il finanziamento. Quei mutui, come nel 2008, venivano considerati sicuri dalle agenzie di rating, e piazzati in fondi acquistati da chi cercava garanzie. Le conseguenze sono note: si diffonde il panico, e la spirale comincia ad avvitarsi. La crisi, dalla finanza, passa all’economia. Chi si ritrova invischiato nel settore va in rovina.

Il futuro del paese dipende, quindi, dai rapporti che il Regno Unito riuscirà a negoziare dopo l’uscita dalla UE, e non c’e’ da aspettarsi buonismo. Nonostante la procedura sia stata creata con il Trattato di Lisbona del 2009 non ha mai trovato impiego. Il presidente della Commissione Europea Juncker ha chiesto alla Gran Bretagna di formalizzare quanto prima l’uscita dall’Unione, precisando che non sarà un divorzio consensuale. Fino ad allora, il paese è vincolato ai doveri di appartenenza, oltre a goderne dei relativi diritti.

Il problema, per Bruxelles, è il contagio: senza una punizione esemplare, c’è il rischio che la voglia di uscire dall’Unione Europea si diffonda a macchia d’olio sulla scorta dei movimenti populisti interessati alla propria sopravvivenza immediata piu’ che al futuro. La tornata referendaria ha avuto se non altro il merito di individuare i temi caldi che potrebbero portare altri paesi a chiedere una consultazione analoga:  spesa pubblica alta, benefit eccessivi, terrorismo, immigrazione e allargamento a Est, soprattutto, alla Turchia.  La lobby di chi esporta verso l’UK eserciterà pressioni nei confronti dei governi, e della stessa Bruxelles, per continuare le relazioni economiche con la Gran Bretagna: ma il paese, non producendo quasi nulla, sarà ugualmente costretto a importare, a condizioni di favore o meno.

Intanto, si apre il fronte interno. Il Regno Unito è diviso come non mai. Il “giorno dopo”, alcune delle grandi bugie raccontate durante la campagna elettorale cominciano a rivelarsi per quello che sono, frottole. Le cifre sui risparmi che si preparano nell’immediato grazie all’uscita sfigurano rispetto a quelle sui costi, per non parlare dei benefit agli stranieri, che con gli accordi a febbraio erano stati bloccati per anni e quindi si sarebbero fermati comunque.  Tra ritrattazioni e precisazioni, non sono in molti a volersi prendere la responsabilità di gestire la crisi, almeno nella fase piu’ delicata.

Scozia e Irlanda vogliono restare attaccate al treno del Vecchio Continente. Gli scozzesi potrebbero convocare un secondo referendum dopo quello del 2014 per decidere se separarsi dall’Inghilterra: come dire, il problema siete voi, non l’Europa. L’Inghilterra stessa è spaccata: nel complesso ha votato contro l’Unione, ma la capitale, Londra, si è espressa a favore. Le polarizzazioni sono evidenti e nessuno sa sul serio come gestirle.

Le analisi, infine, dicono che a votare Remain sono stati tanti giovani sotto i 24 anni e molti laureati, a cui sarà tolta la possibilità di girare il continente come è concesso ai loro coetanei. Il conto dell’uscita decisa dagli anziani sarà pagato, come sempre, dalle generazioni che c’entrano meno.

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La Gran Bretagna divisa lascia: è Brexit

Erano le sei ora italiana quando è stato chiaro che aveva vinto il Leave. Le colpe di Cameron, il nazionalismo di Farage, il personalismo di Boris Johnson, persino il maltempo: tutto ha giocato contro la permanenza. Dopo una lunga notte passata a coprire il referendum in diretta per Londra, Italia, le analisi vanno a farsi benedire e le parole sgorgano dal cuore. Riporto integralmente il pezzo che ho scritto a caldo per il quotidiano della capitale britannica come documento, o forse solo per condividere una delle emozioni più forti che mi è capitato di provare durante la mia carriera di giornalista.

“Sarà Brexit. Mentre si contano gli ultimi voti, il risultato vede il Leave raccogliere il 51,8% dei consensi, mentre il Remain si ferma al 48,2%. Il paese si è spaccato ma la maggioranza ha deciso, puntando sull’uscita di Londra dall’Unione Europea. La sterlina crolla su se stessa. Il Regno Unito, guidato da un leader che prima ha voluto il referendum e poi lo ha perso, si ritrova praticamente privo di un governo. Se, anzi quando, David Cameron lascerà il passo, sarà molto probabilmente Boris Johnson a succedergli.

Lungi dall’essere un esempio, come tante volte è stata, la Gran Bretagna mette in luce i limiti della democrazia diretta ponendo fine al sogno europeo. Ai sudditi di Sua Maestà, si sa, piace scommettere, ma questa volta l’azzardo potrebbe costare caro. Le conseguenze arriveranno a cascata. Chi ha il patrimonio in pounds si trova da un giorno all’altro impoverito, mentre l’instabilità dei mercati non gioverà a nessuno, a partire dal Vecchio Continente. La Brexit ha creato un precedente, e adesso si sa che si può uscire dall’Unione, e come farlo. E pazienza se è il risultato di uno sforzo che definire populista è riduttivo, dove qualcuno degli attori (Nigel Farage, leader dell’Ukip) è arrivato ad accusare gli immigrati del troppo traffico sulle strade dopo essersi presentato con sei ore di ritardo a un convegno. Si apre una fase nuova. Londra ha scritto una pagina di Storia, un’altra volta. Con l’alba tramonta l’Unione Europea come l’abbiamo conosciuta. Sarebbe cambiata comunque, ma in questa maniera è tutta un’altra cosa.

Il pensiero va ai nostri connazionali che hanno puntato sul Regno Unito per rifarsi una vita, in maggioranza giovani, ma non solo. Londra ha accolto tutti, ha dato una possibilità anche a chi era avanti negli anni, e adesso tutto questo, semplicemente, rappresenta il passato. Senza visto, niente lavoro. Semplice. Un po’ come da noi. E improvvisamente ci scopriamo – ma chi a Londra ci vive lo sapeva da tempo –  immigrati. Trattati con sufficienza, poco integrati, anche se fondamentali. Trattenere i migliori, gli altri si arrangino. E’ accaduto in una fredda notte d’inizio estate. Forse è giusto così. Ma adesso lasciateli provare a immaginare un futuro lontano dal paese in cui avevano riposto i sogni”.

 

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Brexit, le colpe di Cameron

Ci siamo. Dopodomani si decide sul Brexit (Great Britain Exit), espressione giornalistica per definire l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. La consultazione è stata convocata dal premier David Cameron, che con questa arma guadagnò parte del sostegno necessario a vincere le elezioni del 2015 e a formare un governo monocolore contro buona parte delle previsioni.

Nel febbraio scorso Cameron volò a Bruxelles per un summit tra i vertici UE. L’obiettivo era strappare una modifica degli accordi, una specie di statuto speciale per la Gran Bretagna che garantisse un sostegno alla campagna per restare in Europa. La strategia era quella di depotenziare il referendum concordando a livello politico garanzie particolari: servivano prede da dare in pasto a un paese sempre più allarmato dalla violenza, dal costo della sanità pubblica e dai benefit profusi agli stranieri che arrivavano in massa. Argomenti sfruttati dalla propaganda nazionalista in maniera spesso alquanto discutibile, ma efficace (vedi foto).farage road delays

Le negoziazioni a Bruxelles furono estenuanti. Il premier non ottenne tutte le concessioni, ma anche se la vittoria non fu netta, riuscì a garantire al paese mani sciolte rispetto a un’Unione che mirava a diventare “sempre più stretta”, oltre che lo stop temporaneo dei benefit agli stranieri. Last but not least, le modifiche sarebbero state cristallizzate con l’inserimento del testo nei trattati UE, da effettuare alla prossima “apertura” dei documenti: al momento è limitato al rango di semplice  accordo intergovernativo.

Tanto doveva bastare, nella mente dell’ex Eton e Oxford, a rassicurare gli elettori. Io “non amo Bruxelles, amo la Gran Bretagna e il mio lavoro è proteggere il mio Paese”, sottolineava allora, garantendo che, grazie all’accordo, Londra sarebbe stata “fuori da un’Unione sempre più stretta, fuori da un super-stato europeo e non adotterà mai l’euro”. In sintesi? “Credo che sia abbastanza per raccomandare che il Regno Unito rimanga nell’Unione Europea, prendendo il meglio dei due mondi”. La filantropia, al contrario del pragmatismo, non è mai stata il piatto forte alla corte di Sua Maestà.

LE MOTIVAZIONI – Per capire in che modo il Brexit sia arrivato all’ordine del giorno, bisogna partire da qualche anno fa, e precisamente dall’allargamento a Est della UE e dalla crisi economica cominciata nel 2008.
Non è un mistero che l’UK, e Londra in particolare, siano la Mecca per moltissimi cittadini europei senza lavoro. Stipendi alti per gli specializzati (la “fuga dei cervelli”) e la possibilità di un impiego, almeno quello, per tutti gli altri, con una serie di benefit statali pronti a scattare quasi subito, tra cui l’assistenza sanitaria gratuita.

Italiani, spagnoli, francesi lo sapevano da anni: ma negli ultimi anni ad attraversare la Manica sono stati sempre più i cittadini  che vivevano al di là di quella che un tempo fu la Cortina di ferro, in cerca della possibilità di rifarsi una vita. I documenti comunitari consentono di passare la frontiera senza problemi per approfittare delle occasioni che la Gran Bretagna può offrire.
Gli imprenditori, in massima parte, apprezzano: manodopera a basso costo, composta da disperati senza possibilità di contrattare e disposti a fare i lavori che i Britons scartavano. Le procedure burocratiche per i comunitari erano ridotte ed esentavano i nuovi venuti dall’obbligo del visto di lavoro. Una pacchia per le migliaia di ristoranti della capitale, per l’edilizia, l’assistenza domiciliare di malati (badanti e infermieri). E infatti, complice la ricchezza circolante e la crisi che colpiva ovunque, ma non qui,  Londra si è trasformata parecchio negli ultimi anni.
Interi quartieri sono stati costruiti o riqualificati, il valore delle case è salito alle stelle e la sterlina si è rafforzata. Come meta turistica, la capitale inglese ha pochi paragoni, complici anche eventi di risonanza mondiale come le Olimpiadi del 2012, l’offerta di concerti e prime visioni di risonanza globale, il teatro.

Non solo. Sempre più lavoratori qualificati hanno continuato a prendere il traghetto a Calais (o l’Eurotunnel alla Gare du Nord) per cercare gloria in UK: ingegneri, scienziati, medici, e così via. La strategia del soft power inglese prevede che questi “talenti” siano incentivati a legarsi alla Gran Bretagna a livello affettivo, per averli sempre a disposizione al servizio della nazione. A volte funziona, a volte meno. Nell’industria e nella ricerca, di solito, lo fa. Ma nelle sale d’aspetto dei pronto soccorso non è infrequente trovare un medico greco che cerca di curare un paziente del Bangladesh: entrambi parlano un inglese approssimativo (sempre ammesso che il paziente lo conosca),si comunica a gesti, il  tutto sotto gli occhi di un’infermiera magari spagnola che non può fare niente per aiutarli.

UMANO, TROPPO UMANO – Da qui  a prendersela con gli immigrati il passo è breve per politici che intravedono la possibilità di fare il colpo della vita. Legarsi al treno del Leave è una tentazione forte; non solo per Farage e la sua Ukip, ma per un clan trasversale che trascende gli schieramenti e vede lo stesso David Cameron contrapposto a ministri e parlamentari conservatori di peso. Non sta meglio Jeremy Corbin, leader dei laburisti: simpatie – e anche qualcosa in più – a sinistra, ma una base e un gruppo dirigente divisi.

Ma per chi conosce un po’ le cose del Regno Unito, l’impressione è che la questione sia stata ampiamente strumentalizzata. Da Cameron, innanzitutto.
La Gran Bretagna gode da sempre di uno status particolare all’interno dell’Unione Europea, il cui aspetto più visibile è che non ha aderito alla moneta unica. A Londra si usa ancora la sterlina, e i trattati di Schengen sulla libera circolazione sono applicati solo parzialmente.

Il referendum è stato un ottimo argomento da campagna elettorale: ma probabilmente l’arma è sfuggita di mano al leader britannico che ora si trova a gestire una patata bollente. Certo Cameron non poteva prevedere il terrorismo e l’insicurezza diffusa di questi mesi. Ma la democrazia diretta presuppone questioni semplici e basi elettorali  informate e ristrette: due condizioni che in questo caso mancano del tutto, rendendo la votazione un’incognita. Il premier non ha la statura e l’eloquio di Obama,  forse nemmeno di Blair: è un cinquantenne di ottima famiglia con l’aria da bambinone, che si trova al comando di una delle nazioni più influenti del mondo, ma non è in grado di spostarne gli equilibri col carisma personale.

LE CONSEGUENZE – In caso di vittoria del Leave, le conseguenze di un’uscita della Gran Bretagna sull’economia interna sarebbero importanti, a partire dal valore della sterlina, che crollerebbe. I contratti internazionali e gli accordi intergovernativi andrebbero discussi da capo introducendo un vuoto normativo e una fase di incertezza che potrebbe protrarsi per una decina d’anni. Le conseguenze sull’economia reale non sarebbero da meno. La manovalanza disperata e a basso costo che adesso abbonda scarseggerebbe, mettendo in crisi moltissime attività costrette a chiudere.
Molti capitali lascerebbero la City, e si aprirebbe una crisi dell’immobiliare con un calo dei prezzi dovuto alla perdita del ruolo di capitale finanziarie dell’Unione Europea. Gli headquarters delle grandi società potrebbe muoversi altrove (Francoforte, qualcuno anche a Milano), impoverendo la città e costringendo a ripensarne la geografia a partire dallo skyline di aree come Canary Wharf. Sarebbe la fine della libera circolazione delle merci tra l’Isola e il continente, con conseguenti dazi e dogane a gravare sulle merci made in UK.
Risulta difficile immaginare che i rapporti a livello governativo possano essere gli stessi. L’uscita del Regno Unito potrebbe essere interpretata – per una volta – come una sfida da un’Unione Europea in cerca di identità.
Oltre Atlantico, gli USA, interessati alla stabilità dei mercati, hanno mostrato di preferire la permanenza della Gran Bretagna all’interno dell’Unione. Non solo: Londra rappresenta una testa di ponte troppo importante per contrattare con la UE, ad esempio sul  recente trattato di libero scambio, la cui approvazione è osteggiata nel Vecchio Continente  da una discreta fetta di popolazione.
Per la Gran Bretagna si aprirebbe, in sintesi, un periodo di incertezza difficile da gestire, che richiederebbe mano ferma e capacità di governo di cui probabilmente non dispone.

I vantaggi ovviamente non mancano. La sovranità monetaria senza scadenza, mano libera negli accordi internazionali, possibilità di chiudere le frontiere e di cercare alleanze su misura per un mondo che sta cambiando. Russia (ma con quali complicazioni?), Cina e India sono tra i possibili partner. Uscire dalla UE renderebbe inoltre nulle le disposizioni comunitarie, consentendo politiche su misura e un risparmio economico sulle cifre versate ogni anno nelle casse dell’Unione: un ottimo specchietto per le allodole.

INCERTEZZA – Come andrà a finire, nessun lo sa. Dopo l’assassinio di Jo Cox, pare che il vento, che nelle scorse settimane spirava in favore del Brexit, stia cambiando. La cronaca nera potrebbe aver scosso l’opinione pubblica dal torpore più delle parole dei leader. Non essendoci precedenti in Europa, non è possibile fare stime accurate dell’affluenza alle urne, variabile importante. Ma, comunque vada a finire, di questo lungo giugno resteranno due lezioni. La prima è il patrimonio di conoscenze sulle motivazioni che spingono a un popolo a voler uscire, e che rimarrà a disposizione di chi resta. In UK il dibattito è stato snocciolato, sviscerato da mesi: molti nodi sono stati individuati, a beneficio di chi saprà farne tesoro.
La seconda è che quando si usa la politica per fini personali, spesso se ne paga il conto.

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