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Pubblicità e politica: online è il far west

Lo suggerisce il Guardian con la solita intelligenza, e del resto il tema è attualissimo. Mentre la pubblicità elettorale sui media tradizionali (Tv, radio, manifesti) è ampiamente regolamenta, quella online è terra di nessuno e, in buona parte, inesplorata. Soprattutto dal legislatore. Il quotidiano inglese la paragona al “wild west” di Sergio Leone, dove gli sceriffi fanno tappezzeria e i conti si regolano con le pistole.

Dai sondaggi alla “par condicio” alla cosiddetta “pausa di riflessione” prima del voto, nelle democrazie moderne ogni aspetto sensibile è sottoposto a normativa. L’obiettivo, nobile, è evitare che chi è in grado di condizionare i media possa sfruttarli a proprio vantaggio. In Italia sappiamo che un modo per comprarsi il consenso si trova comunque: basta possedere tre reti nazionali, un quotidiano, quattro o cinque mensili, una casa editrice  e qualche amicizia che conta. Trump ha imparato la lezione così bene che, da palazzinaro e protagonista di reality, si è ritrovato a Washington in un battito di ciglia.

Ma c’è poco da stare allegri. I database di Facebook contengono migliaia di post per ogni utente e la creatura di Zuckerberg consente per definizione di inviare pubblicità profilata. Per capire a chi, ci sono società più piccole come Cambridge Analytica che sono in grado di creare profili elettorali bersaglio incrociando “big data and psychographics” (che tradurrei con “psicografiche”, sul modello delle ormai diffusissime infografiche). Significa che chi è sensibile  alla povertà e si commuove di fronte alle immagini shock, sarà bombardato da messaggi toccanti. Un tipo analitico, invece, riceverà reports a base di  numeri e istogrammi. Molto più persuasivo, no?

Le conseguenze possono essere pesanti. Nelle elezioni del 2015 i Conservatori in UK spesero 1,2 milioni di sterline in advertising online, il Labour solo 160mila. Il risultato fu l’inaspettata elezione di David Cameron che avrebbe condotto, l’anno seguente, al referendum sulla Brexit.
Già allora Politico.com si chiedeva se la tecnologia stesse rendendo inaffidabili i classici sondaggi.

Il problema oggi è dannatamente serio, e configura una delle sfide più interessanti per il diritto. La sfida per il legislatore è duplice. In primo luogo, capire come intervenire a livello nazionale senza ledere le libertà fondamentali. In secondo luogo obbligare le grandi corporation multinazionali come Facebook, che possono piazzare i server dove vogliono, ad adeguarsi.

Un’altra dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, di quanto sia essenziale l’Unione Europea. Siamo sicuri che l’Italia una partita del genere possa, non diciamo vincerla, ma semplicemente giocarla?

@apiemontese

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Greenwashing: quando la pubblicità verde è un trucco

Riporto questo mio pezzo apparso su TiSostengo.it. L’argomento è il “greenwashing”, la pratica di tante aziende altamente inquinanti di investire in progetti green di basso impatto (ma da pubblicizzare ampiamente) per ripulirsi la reputazione con una mano di vernice verde. Il termine, manco a dirlo, è mutuato dalla politica. Buona lettura.

Ci sono banche “verdi” perché puntano tutto sulla Rete senza bisogno di sportelli fisici, ma gestiscono fondi che sventrano intere regioni alla ricerca di minerali preziosi. O aziende che dichiarano quanti alberi hanno salvato grazie al risparmio energetico, ma truccano i dati delle emissioni inquinanti. E poi il tonno pescato senza nuocere ai delfini, magari nelle acque attorno a Fukushima. Si chiama greenwashing, ed è la nuova (ma non troppo) frontiera del marketing.

UNA MANO DI VERNICE – L’espressione deriva dall’inglese “whitewashing“, che indica la pratica politica di insabbiare gli scandali spostando l’attenzione verso aspetti più edificanti, dando – cioè –  una mano di vernice bianca (white) a strategie con pochi scrupoli.  Per traslato, il neologismo è andato a indicare le campagne di alcune aziende che presentano le proprie attività come “eco-friendly” cercando di colpire l’immaginario di un pubblico dalla sensibilità ambientale sempre più evoluta; peccato che, alla prova dei fatti, continuino a inquinare come prima.

QUESTIONE DI BUSINESS – Si cominciò a parlare di greenwashing all’inizio degli anni ’90, quando alcune delle industrie più inquinanti degli Stati Uniti (tra cui DuPont, Chevron, Bechtel) si presentarono a una fiera di Washington sventolando le proprie iniziative a favore dell’ambiente. Peccato che, come notarono in molti, il core-business non fosse cambiato, e a pochi passi di distanza i lobbisti fossero al lavoro nei saloni del Congresso  per influenzarne l’attività legislativa, soprattutto quando si trattava di decidere vincoli di carattere ambientale.

La dirigenza cercava, però, di spostare l’attenzione sugli aspetti meno pruriginosi, cercando di far dimenticare quelli problematici e preponderanti.Di solito ci riusciva così bene che gli USA sono tra i pochi paesi a non aver aderito al protocollo di Kyoto del 2001, nonostante siano responsabili di più del 30% delle emissioni di diossido di carbonio nel mondo. Un’abitudine dura a morire: lo stand a stelle e strisce ad Expo 2015 raccontava come lo zio Sam sia oggi impegnato nel rimboschimento del Vietnam, lo stesso Stato bruciato a suon di bombe al napalm negli anni Sessanta e Settanta.

QUATTRO CRITERI –  Il greenwashing  ha attecchito ovunque, spingendo le imprese a inventare strategie comunicative e iniziative di facciata che consentissero di fregiarsi legalmente dell’ambita patente verde. Costi quel che costi, e pazienza se non è vero.

L’inganno è stato smascherato presto dalle organizzazioni non governative e dalle associazioni di consumatori che si battono per portare a conoscenza del pubblico le pratiche scorrette delle aziende. “Ogni giorno gli americani sono bombardati con pubblicità su prodotti e servizi sostenibili – scrive Greenpeace sul sito stopgreenwashing.org –  Ma quanti sono davvero verdi, e quanti fanno finta di esserlo?”

La ONG ha stabilito quattro criteri per riconoscere le compagnie che ingannano il pubblico: Dirty Business (“affari sporchi”, cioè spacciare come verde un programma o un prodotto mentre il core business dell’impresa è inquinante), Ad bluster (“spacconate ambientali”, cioè esagerare gli obiettivi green raggiunti, o spendere un budget più alto in comunicazione su questi temi di quello destinato alle azioni concrete), Political spin (“manipolazione politica”, cioè fare lobbying nelle sedi istituzionali contro i temi ambientali mentre si firmano campagne pubblicitarie a favore) e It’s the Law, stupid!  (“è la legge, stupido!”, quando si cerca di far passare come spontanee iniziative previste da norme vincolanti).

UN INDICE VERDE – Chi vuole farsi un’idea della questione non ha che l’imbarazzo della scelta: in Rete si trova moltissimo materiale per documentarsi sul tema. Sul sito della Regione Emilia Romagna un ottimo articolo riassume la questione; un’altra pagina utile per fare una ricerca è Greenwashingindex, che sottopone le pubblicità a una valutazione diffusa da parte del web per stabilirne il grado di manipolazione della verità.

La parola d’ordine, per tutti, è non fidarsi. Soprattutto in ambito alimentare. Leggere le etichette, non lasciarsi ingannare dalle parti composte in caratteri più grandi. Una vecchia regola della pubblicità vuole che il budget destinato alla comunicazione aumenti in maniera inversamente proporzionale alla qualità del prodotto promosso. Chi appare troppo in televisione o sui giornali, spesso ha qualcosa da nascondere.

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Barilla, ovvero buoni giornalisti e cattivi giornali

Partiti come semplici emanazioni del cartaceo (proponevano, cioè, gli stessi pezzi del quotidiano di carta), i siti dei maggiori quotidiani stanno sempre più assumendo vita propria, con la creazione di redazioni esclusivamente dedicate alla Rete che producono contenuti pensati esclusivamente per il web.  Fotogallery, attenzione smodata alla cronaca, video virali sono i nuovi mantra, oltre alle solite tre S (sesso sangue soldi) e agli incidenti stradali. Una selezione di notizie che a volte più che interpretare la realtà sembra ricalcarla, con uno stile di scrittura veloce e adatto per i motori di ricerca, che spesso però diventa approssimativo.

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