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Cop28: un accordo in cui il clima c’entra poco

Quello di Cop28 è un accordo che fotografa la situazione di un mondo che, oggi, ha altre priorità rispetto al clima, dalle guerre all’economia. L’abbraccio tra John Kerry e Xie Zehnua, anziani inviati speciali dei rispettivi governi, è una questione politica più che ambientale. Un esercizio di diplomazia in uno scenario alla ricerca di stabilità, che non favoriva scossono e che alla fine si è risolto nel “business as usual”. Vediamo perché.  

Lo scontro tra Usa e Cina e la diplomazia del clima

Il contesto è la fine del mondo unipolare seguito alla caduta del muro di Berlino. Tramontata l’era della globalizzazione con il sogno di un governo globale, il mondo di oggi ha diversi centri di gravità, sempre più lontani dal Nord America e più vicini all’Asia.

La contesa chiave è tra le due superpotenze: se gli Stati Uniti sono in declino, la Cina, dal canto suo, è in ascesa. Tra i due giganti c’è una partita aperta su tutti i fronti, da quello commerciale a quello geopolitico. Il clima è, forse, l’unica sponda rimasta ad alleggerire la tensione.  

Washington prova a stringere alleanze in Asia. Pechino risponde.

Una buona sintesi la dà Robert Ross, professore di Scienze politiche al Boston College. “La Cina vuole più sicurezza in Asia orientale – dice il politologo -,  ed è determinata a minare le alleanze americane nella zona vicino alle proprie coste” dice. “Gli Stati Uniti, invece, stanno resistendo, cercando di mantenere il proprio ruolo di grande potenza, anzi: di unica superpotenza globale. E per questo motivo hanno innescato una guerra commerciale e tecnologica e incrementato la cooperazione con l’Europa, Corea del Sud, Taiwan, Filippine: tutto per indebolire il sistema economico cinese, rallentarne la crescita di Pechino e restare numero uno”.

Ricordiamo alcuni episodi, per sottolineare come, per comprendere Dubai, occorre allargare lo sguardo oltre all’ambiente: il bando di Huawei da parte del governo statunitense, i palloni spia cinesi intercettati sul suolo americano, i dazi reciproci sulle importazioni, le leggi come l’Inflation Reduction Act che privilegiano le imprese locali, e a cui Pechino ha risposto. Non solo. Nei giorni scorsi il governo cinese ha ordinato ai dipendenti statali di non utilizzare iPhone e Samsung come dispositivi per il lavoro, escludendo i due marchi. Per Apple (la più grande azienda americana) un chiaro segnale e uno spauracchio di quanto potrebbe accadere in caso la tensione si alzasse, dal momento che lì produce anche la maggior parte dei propri cellulari e realizza un quinto del fatturato.  

La politica ondivaga degli Usa sul clima

La politica climatica statunitense non ha molto da insegnare: dal rifiuto di aderire al protocollo di Kyoto al ritiro dall’Accordo di Parigi, sono tante le contraddizioni tra parole e fatti. La dichiarazione di Sunylands, resa pubblica il 14 novembre (due settimane prima di Cop), segna l’accordo tra Usa e Cina per spingere le rinnovabili. Una dichiarazione di buone intenzioni: ma in realtà Washington non ha mai prodotto tanto petrolio quanto oggi (qui una statistica che parte dal 1920) e anzi: negli ultimi quindici anni ha praticamente triplicato il numero di barili pompati.

Contraddizioni che, dalla prospettiva del Sud globale, si vedono chiaramente.

Come scrive il Financial Times, non certo un giornale terzomondista:

[…]something profound is happening in the world — a kind of metaphysical detachment of the west from the rest. Where many people in the rest of the world once saw the west as the answer to their problems, they now realise that they will have to find their own way”.

Le agenzie di pubbliche relazioni aiutano l’Ovest con i media e il pubblico di casa a far passare per “storico” un accordo che è un compromesso al ribasso; ma tre quarti del mondo che prima vedeva nell’Occidente guidato dall’America il parente ricco che ce l’ha fatta, un esempio da imitare, ha acquisito autocoscienza e non gli riconosce più alcuna autorità morale. Dall’Africa al vicino Oriente, dal Medio Oriente al Sudamerica fino all’Asia, è molto più forte il ricordo del passato coloniale e dello sfruttamento.

La Cina e la corsa allo sviluppo

Dal canto proprio, nonostante la Cina sia il Paese con la maggior potenza rinnovabile installata, Pechino non ha alcuna intenzione di lasciare petrolio e carbone a breve. E non è neanche particolarmente interessata a chiarire il proprio status di Paese ormai sviluppato, col dovere – quindi – di essere in prima linea nella transizione e di contribuire in maniera importante dal punto di vista finanziario alle varie iniziative multilaterali. Soprattutto in un momento in cui l’economia nazionale sta rallentando, come quello presente.

L’Opec

Se i giganti non si muovono, non si sogna certo di farlo per prima l’Opec, l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio. Anzi. Capeggiata dall’Arabia Saudita, ha fatto di tutto per bloccare un accordo a Dubai. Il benessere dei Paesi che affacciano sul Golfo Persico riposa sugli idrocarburi, e per quanto la necessità della transizione energetica sia ormai un fatto acclarato, ogni anno guadagnato significa, per chi li vende, migliaia di miliardi di dollari in più per preparare il futuro. Ai prezzi attuali, poi. Comprensibile, quindi, il rifiuto di cedere. Immaginate i grattacieli di Dubai senza i denari necessari alla costosa manutenzione: una città fantasma. La missione è riuscita, e infatti il testo dell’articolo 28 sul Global Stocktake, il più atteso, è così vago da far sorridere gli sceicchi, che possono cantare vittoria. Sui media occidentali sono stati dipinti come cattivi, l’unico capro espiatorio. Ma è troppo facile.

L’Africa e le piccole isole

Alla fine, a perderci èl’Africa e, soprattutto, le piccole isole, che fra qualche anno rischiano di vedersi sommerse. Se la nascita nel 2022 del fondo per il loss and damage era sembrato l’alba di una nuova era in cui sarebbe stato il Sud globale a dettare l’agenda climatica, quest’anno le posizioni tra G77 (il gruppo negoziale che accoglie buona parte del global south) e Cina paiono essersi allontanate. Qualcosa non torna. Le piccole isole hanno protestato per un accordo che a molti è parso un golpe – approvato in fretta e furia con una procedura irrituale a meno di due minuti dall’apertura della plenaria finale – ma con un comunicato diffuso in quelle stesse ore l’hanno parzialmente appoggiato. Resta da chiedersi in cambio di quale contropartita. Al buio delle dark room, al riparo da microfoni e taccuini nelle ultime quarantotto ore di clausura assoluta, tante sono state le trame tessute. Ma meglio fermarsi qui.

Finanza

Infine, nell’accordo di Dubai manca la finanza. Ancora una volta, non ci sono i soldi per consentire agli stati poveri di fare la transizione. E i denari sono la chiave di volte di tutto: senza, parliamo di filosofia buona per fare titoli di giornale, ma priva di impatto sulla realtà. Ci sono voluti quindici anni per raggiungere la soglia di cento miliardi di dollari per l’adattamento climatico: in realtà, ne servirebbero tremila ogni dodici mesi, trenta volte tanto. Il fondo per il loss and damage reso operativo due settimane fa all’inizio della conferenza di Dubai ha raccolto circa ottocento milioni di euro: gli Usa, storicamente contrari,  ne hanno messi solo diciassette. Poniamo che servano a beneficiare 140 paesi:  il conto fa  5,7 milioni a testa, a cui togliere le commissioni per la Banca mondiale (mi dicono attorno al 15%, qualcuno sostiene di più). Secondo un amico, quattro chilometri di ferrovia per arrivare dall’aeroporto di Malpensa a  un paese vicino costano circa duecento milioni di euro. I commenti li lascio a chi legge.

In conclusione

Articolo troppo lungo, mi scuso. Quale sarebbe stato, allora,  un risultato ottimale per questa Cop che si è tenuta  in uno dei più grandi paesi esportatori di petrolio? Dal mio punto di vista: phase down con tabella di marcia meno vaga che consentisse di centrare la finestra del 2030; passi differenziati tra mondo occidentale e paesi in via di sviluppo; vera finanza climatica.

Cito di nuovo il Financial Times.

We have to talk to each other. But we must do so as equals. The condescension must end. The time has come for a dialogue based on mutual respect between the west and the rest”. Dopo la delusione iniziale, che – confesso – a Dubai mi ha preso, è il momento di tirare una linea e ricominciare a rimboccarsi le maniche, lavorare per il futuro. Per far sì che sia migliore del presente. Qualcuno lo chiama il dovere dell’ottimismo. E probabilmente ha ragione.

Foto di Travis Leery su Unsplash

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esteri

Ancora su Russia, Usa e anni Novanta

Qualche giorno fa, Federico Fubini si poneva la domanda se aiutando economicamente la Russia dopo il ’91 si sarebbe evitata la caduta del paese nel revanscismo putiniano. All’epoca, il Cremlino accettava consigli dagli USA, e Jeffrey Sachs era tra i protagonisti di quella stagione. Sachs, qui sotto e sempre con Fubini, ripercorre quegli anni (con una certa indulgenza verso sé stesso, va detto) e offre qualche considerazione sull’oggi. Che condivido.

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coronavirus, cronaca

Milano, cronache dal fronte / 9

Ogni volta che lo intravedo, Bernie Sanders è capace di emozionarmi. Come Pepe Mujica, ex presidente del l’Uruguay. O come certi grandi del nostro passato, a partire da Pertini. Dieci milioni di donazioni da 18 dollari l’una in media: questo il budget della sua campagna per contrastare le corazzate multimiliardarie di candidati ricchi e potenti, e garantire sanità a tutti. In un paese dove il denaro sembra essere la misura di tutte le cose, figure del genere sono rare. Anche altrove, mi viene da dire.

Non è andata bene, forse bene non poteva andare; ma è stato bello assistere alla corsa di un anziano diventato idolo dei giovani. Un uomo che, invece di cedere al cinismo e al disincanto dell’età, in una sorta di processo machiavelico al contrario, con gli anni è stato capace di osare sempre più.

Sanders ha mostrato che le collusioni col business peggiore, di cui la politica sembra non potere più fare a meno, non sono una necessità, ma una scelta. E che anche il cinismo lo è. Apprezzo Conte e la sua capacità di rassicurare il paese, ma un uomo come Sanders, col suo carico di primavere, aiuterebbe in questo momento.

A Milano qualcosa comincia a muoversi. Un ferramenta che torna ad aprire, una signora anziana che fa la spesa e sorride nel negozio sotto casa, un runner che corre. Danno una parvenza di normalità, assieme al sole di questi giorni. Ma inutile negarlo, la clausura pesa. Sul morale, sul fisico. I dati sono confortanti ma non basta. A volte c’è bisogno di una figura a cui ispirarsi.

Intanto, certa stampa (e l’opinione pubblica) continuano a insistere sui test sierologici. Peccato non siano ancora validati, quindi non sicuri. Il Times di Londra (il Regno Unito ne ha acquistati tre milioni), dopo aver approfondito, è arrivato alla conclusione che non fare nessun test è meglio che usarne uno che sbaglia, anche solo del 5%. La matematica dice che potrebbe significare mandare in giro come “sani” centinaia di migliaia di individui che non lo sono. Evidentemente non è sufficiente. Auguri.

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media, pubblicità

Greenwashing: quando la pubblicità verde è un trucco

Riporto questo mio pezzo apparso su TiSostengo.it. L’argomento è il “greenwashing”, la pratica di tante aziende altamente inquinanti di investire in progetti green di basso impatto (ma da pubblicizzare ampiamente) per ripulirsi la reputazione con una mano di vernice verde. Il termine, manco a dirlo, è mutuato dalla politica. Buona lettura.

Ci sono banche “verdi” perché puntano tutto sulla Rete senza bisogno di sportelli fisici, ma gestiscono fondi che sventrano intere regioni alla ricerca di minerali preziosi. O aziende che dichiarano quanti alberi hanno salvato grazie al risparmio energetico, ma truccano i dati delle emissioni inquinanti. E poi il tonno pescato senza nuocere ai delfini, magari nelle acque attorno a Fukushima. Si chiama greenwashing, ed è la nuova (ma non troppo) frontiera del marketing.

UNA MANO DI VERNICE – L’espressione deriva dall’inglese “whitewashing“, che indica la pratica politica di insabbiare gli scandali spostando l’attenzione verso aspetti più edificanti, dando – cioè –  una mano di vernice bianca (white) a strategie con pochi scrupoli.  Per traslato, il neologismo è andato a indicare le campagne di alcune aziende che presentano le proprie attività come “eco-friendly” cercando di colpire l’immaginario di un pubblico dalla sensibilità ambientale sempre più evoluta; peccato che, alla prova dei fatti, continuino a inquinare come prima.

QUESTIONE DI BUSINESS – Si cominciò a parlare di greenwashing all’inizio degli anni ’90, quando alcune delle industrie più inquinanti degli Stati Uniti (tra cui DuPont, Chevron, Bechtel) si presentarono a una fiera di Washington sventolando le proprie iniziative a favore dell’ambiente. Peccato che, come notarono in molti, il core-business non fosse cambiato, e a pochi passi di distanza i lobbisti fossero al lavoro nei saloni del Congresso  per influenzarne l’attività legislativa, soprattutto quando si trattava di decidere vincoli di carattere ambientale.

La dirigenza cercava, però, di spostare l’attenzione sugli aspetti meno pruriginosi, cercando di far dimenticare quelli problematici e preponderanti.Di solito ci riusciva così bene che gli USA sono tra i pochi paesi a non aver aderito al protocollo di Kyoto del 2001, nonostante siano responsabili di più del 30% delle emissioni di diossido di carbonio nel mondo. Un’abitudine dura a morire: lo stand a stelle e strisce ad Expo 2015 raccontava come lo zio Sam sia oggi impegnato nel rimboschimento del Vietnam, lo stesso Stato bruciato a suon di bombe al napalm negli anni Sessanta e Settanta.

QUATTRO CRITERI –  Il greenwashing  ha attecchito ovunque, spingendo le imprese a inventare strategie comunicative e iniziative di facciata che consentissero di fregiarsi legalmente dell’ambita patente verde. Costi quel che costi, e pazienza se non è vero.

L’inganno è stato smascherato presto dalle organizzazioni non governative e dalle associazioni di consumatori che si battono per portare a conoscenza del pubblico le pratiche scorrette delle aziende. “Ogni giorno gli americani sono bombardati con pubblicità su prodotti e servizi sostenibili – scrive Greenpeace sul sito stopgreenwashing.org –  Ma quanti sono davvero verdi, e quanti fanno finta di esserlo?”

La ONG ha stabilito quattro criteri per riconoscere le compagnie che ingannano il pubblico: Dirty Business (“affari sporchi”, cioè spacciare come verde un programma o un prodotto mentre il core business dell’impresa è inquinante), Ad bluster (“spacconate ambientali”, cioè esagerare gli obiettivi green raggiunti, o spendere un budget più alto in comunicazione su questi temi di quello destinato alle azioni concrete), Political spin (“manipolazione politica”, cioè fare lobbying nelle sedi istituzionali contro i temi ambientali mentre si firmano campagne pubblicitarie a favore) e It’s the Law, stupid!  (“è la legge, stupido!”, quando si cerca di far passare come spontanee iniziative previste da norme vincolanti).

UN INDICE VERDE – Chi vuole farsi un’idea della questione non ha che l’imbarazzo della scelta: in Rete si trova moltissimo materiale per documentarsi sul tema. Sul sito della Regione Emilia Romagna un ottimo articolo riassume la questione; un’altra pagina utile per fare una ricerca è Greenwashingindex, che sottopone le pubblicità a una valutazione diffusa da parte del web per stabilirne il grado di manipolazione della verità.

La parola d’ordine, per tutti, è non fidarsi. Soprattutto in ambito alimentare. Leggere le etichette, non lasciarsi ingannare dalle parti composte in caratteri più grandi. Una vecchia regola della pubblicità vuole che il budget destinato alla comunicazione aumenti in maniera inversamente proporzionale alla qualità del prodotto promosso. Chi appare troppo in televisione o sui giornali, spesso ha qualcosa da nascondere.

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Apple contro l’FBI: in USA si gioca il futuro della privacy

Apple contro Fbi. Uno scontro tra titani che potrebbe rimodellare la vita digitale di centinaia di milioni di persone, tutti i possessori di prodotti targati con la mela.

In sostanza, i “federali” chiedono alla casa Cupertino di sbloccare l’I-phone dell’attentatore di San Bernardino. La corporation si oppone, e il rifiuto viene motivato da Tim Cook, CEO, con una lettera aperta ai clienti.

Sul piatto ci sono due diritti: la sicurezza dei dati personali di chi usa un i-Phone e la sicurezza collettiva. Stando ad Apple, non esiste una chiave per sbloccare l’iPhone: in condizioni normali, dopo tre tentativi sbagliati il telefono è fuori uso. Ma gli inquirenti pensano di trovare nel dispositivo dell’attentatore informazioni decisive e insistono per creare un passepartout da usare “una sola volta”. Continua a leggere

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esteri

Gli Usa, Lo Porto e la “distrazione di massa”

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La morte di Giovanni Lo Porto, il cooperante americano rapito dal Al – Qaeda e ucciso da un drone americano mi ha scosso. Non e’ la prima vittima italiana, ma la storia di questo ragazzo che, come Vittorio Arrigoni, probabilmente cercava di aiutare gli altri anche per aiutare se stesso, ha scavato un solco dentro di me.

Giovanni veniva da Palermo, quartiere Brancaccio: una zona difficile, come molte del capoluogo siciliano. Sequestrato nel 2012 dai terroristi, di lui si erano perse le tracce un anno dopo. La famiglia continuava a sperare, finche’ nei giorni scorsi una telefonata da Roma ha gettato la madre nella disperazione: signora, suo figlio e’ morto. “Come, quando?” sembra di sentirla. “E’ morto a gennaio nel corso di un bombardamento americano, ma il governo statunitense ce l’ha comunicato solo adesso, al termine di una serie di verifiche”. L’obiettivo erano i terroristi: in quella casa, secondo le informazioni dei servizi segreti, dovevano esserci solo loro. E invece c’erano anche Giuseppe e un anziano, anche lui ostaggio, ma con passaporto a stelle e strisce.

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