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Digital tax: Amazon, Google e i giganti del web nel mirino del fisco UK

Questo articolo è stato pubblicato sul magazine StartupItalia!.

Una digital services tax sui proventi realizzati dai giganti del web, a partire da Amazon e Google. “Austerity is coming to an end”, l’austerità sta per finire, ha detto il Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond (l’equivalente del nostro Ministro delle Finanze)  di fronte al Parlamento a Westminster. L’occasione è stata la presentazione del budget 2018, che potremmo definire un bilancio di previsione, il documento programmatico con cui Downing Street pianifica come spendere il denaro pubblico.

E tra tante concessioni (20 miliardi di sterline all’NHS, il sistema sanitario pubblico che soffre una cronica mancanza di fondi, stanziamenti per un nuovo piano case, revisione delle soglie di tassazione e aumento del minimum wage, il salario minimo che riguarda moltissimi lavoratori, tra cui tanti italiani) spunta la batosta per i tech giant.

Un freno alla crescita? I timori dell’ecosistema

Nei piani del governo c’è una tassazione al 2% dei proventi, che porterà nelle casse pubbliche circa 400 milioni di sterline l’anno, più o meno l’equivalente dei fondi che verranno stanziati per le scuole. Il titolo potrebbe essere “Amazon e Google pagano le scuole britanniche”, e non sarebbe male; ma la notizia ha scosso l’ambiente. Non tanto per la consistenza della tassazione (una goccia nel mare dei profitti), quanto perché si crea un precedente pericoloso in un settore fino ad oggi poco normato.

Dom Hallas, della Coalition for a Digital Economy, ha messo sull’attenti il Governo qualche giorno fa, appena saputo delle intenzioni: “A perderci davvero non saranno i giganti della tecnologia, ma le aziende inglesi in fase di  crescita che hanno il loro business nel tech e gli stessi imprenditori” aveva dichiarato al Telegraph. “Le grandi companies che Hammond ha messo nel mirino sono ben attrezzate per fronteggiare un aumento del carico fiscale. Il vero costo colpirà le imprese innovative inglesi, quelle che cominciano l’attività nei confini nazionali per espandersi, poi, nel mondo”.

Insomma, il governo di destra di Theresa May fa una cosa di sinistra e si mette contro lo strapotere delle società che si spartiscono il grosso dei profitti web. Tra l’altro, mentre l’Europa nicchia, e si sa che i tempi di Bruxelles possono essere biblici. Se del caso,  “la Gran Bretagna andrà avanti da sola” ha dichiarato Hammond, ammettendo, però, che un approccio multinazionale sarebbe la soluzione migliore e che, qualora arrivasse una decisione del G20, il suo paese potrebbe considerare di adeguarvisi.

Chi riguarda davvero la Digital tax in UK

Il Cancelliere risponde ai timori dell’ecosistema spiegando che la misura è stata studiata per colpire i giganti della Rete e non i consumatori o le piccole aziende. “Verificheremo i dettagli per assicurarci di colpire nel segno, e che il Regno Unito continui ad essere il posto migliore per start up e scale up” ha rassicurato. La tassa dovrebbe entrare in vigore ad aprile 2020 e, stando a quanto si apprende, riguarderà le società con ricavi annui globali per almeno 500 milioni di sterline. Chi entrerà nel mirino del fisco? Praticamente tutti: motori di ricerca, piattaforme social e marketplace online. L’imposta, precisa il ministero, non vuole colpire i beni venduti online, ma solo i profitti generati dai servizi  di intermediazione. I primi 25 milioni di sterline fatturati in UK non rientreranno nell’imponibile, escludendo così le società giovani. E, soprattutto, il principio è: tassare chi guadagna lavorando con utenti che risiedono nel Regno Unito, non l’attività digitale in sé.

La mossa segue l’onda di indignazione che monta un po’ ovunque contro i giganti del web. Secondo quanto riportato dal quotidiano economico Bloomberg, Amazon UK Services (il ramo che fornisce servizi business alle imprese) ha ascritto a bilancio ricavi per 1,98 miliardi di sterline nel 2017; la corporate tax versata, però, è passata dai 7.4 milioni di pound dell’anno precedente a 4,46 mln. “Paghiamo tutte le tasse che il Regno Unito e i paesi in cui operiamo richiedono” ha affermato un portavoce della società. Basse o alte che siano; come dire, non è colpa nostra.  Sempre secondo Bloomberg, Amazon.com Inc UK – la “casa madre” in UK della società di Jeff Bezos –  ha visto il conto della corporate tax ridotto del 40% nel 2017, a fronte di ricavi triplicati. Chiaro come questo possa non piacere.

La digital tax che potrebbe chiudere un’epoca

La presa di coscienza dei mega profitti dei tech giants comincia a diffondersi a macchia d’olio. Passata la sbornia digitale, in molti paesi gli utenti cominciano a chiedere un atteggiamento diverso, a partire da quello dei regolatori. Persino a San Francisco, la Mecca della tecnologia, si parla di un balzello che vada ad aiutare gli homeless in quella che, con la febbre di inizio secolo, è diventata la città più cara d’America. La Frisco hippy di Kerouac e Ferlinghetti ha cambiato volto con i dollari dell’economia digitale.

Per ora né Facebook, né Twitter né Alphabet hanno rilasciato dichiarazioni. Sicuramente nei corridoi si sta alla finestra, cercando, come spesso è accaduto in casi del genere, di non fomentare la rabbia con commenti avventati. E con la consapevolezza che, se un paese come il Regno Unito muoverà davvero il primo passo in questa direzione, e, soprattutto, se la misura incontrerà il consenso popolare senza rovinare l’ecosistema dell’innovazione, la direzione imboccata dai britannici potrebbe essere seguita su entrambe le sponde dell’Oceano. E per l’economia digitale si chiuderebbe un’era.

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Nadia Toffa terzo personaggio più googlato del mondo?

Sulle prime ho pensato si trattasse di un sito satirico, di  una notizia postata per ridere. Poi scopro che è vero. Nadia Toffa, inviata delle Iene, è il terzo personaggio più cercato su Google nel 2017, riporta il motore di ricerca. Prima di lei, solo Matt Lauer (conduttore NBS licenziato dopo uno scandalo sessuale) e Meghan Markle, promessa sposa del Principe Harry.

Nelle ultime settimane la Toffa è stata al centro dell’attenzione  per via di un malore che l’ha colpita mentre si trovava a Trieste.  I media hanno dato la notizia immediatamente, e tra gli utenti social è partita la gara agli aggiornamenti.

Facciamo gli auguri di pronta guarigione a Nadia (che è ancora ricoverata a Milano, ma sta meglio). Ma certo fa riflettere l’attenzione che le è stata dedicata.  Le Iene sono un programma un tempo innovativo che da anni si è, purtroppo, specializzato nel rilanciare bufale. I suoi volti sono ormai noti al grande pubblico, e vengono associati al giornalismo-verità. Ma non di questo si tratta. Per capirci, non sono Report, ma intrattenimento con contenuti di inchiesta spesso inquinati dal sensazionalismo, e da un taglio che, per essere accattivante, sacrifica spesso la precisione.

Va osservato che la classifica di Google traccia un quadro interessante di come usiamo davvero il web. Date uno sguardo di persona (il link è questo), non solo a quella globale ma anche alla declinazione per paese. Un esercizio utile per conoscerci un po’ meglio.

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Sparire dal web: Google e il diritto all’oblio

Fino a pochi anni fa, quando l’informazione era  solo cartacea, televisiva o radiofonica, ci pensava il tempo a sfumare i ricordi. Oggi le cose sono cambiate: tutto passa per la rete e le possibilità di archiviazione sono praticamente infinite. Sul web resta traccia di tutto.

Si chiama diritto all’oblio, e in sostanza significa poter  richiedere la rimozione  dal web dei contenuti che vi riguardano se ritenuti non aggiornati, non pertinenti o lesivi della dignità. Se ne è parlato in un recente convegno a Roma, alla presenza dei massimi vertici di Google, il motore di ricerca più noto del mondo. Non è un mistero che per molti si tratti ormai ormai della vera porta d’accesso al web. Il colosso di Mountain View è parso interessato alla questione, che sta cominciando a proporsi con insistenza nel dibattito pubblico.

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Come distruggersi la reputazione online

Siamo in una civiltà molto più integrata, digitalmente parlando, di quello che ci piaccia pensare.

Chi per mestiere lavora anche lontanamente sul web non può permettersi di non conoscerne le dinamiche, o come direbbero i manuali, di non controllare le voci che lo riguardano nelle SERP di Google. Ma anche chi si occupa di altro dovrebbe stare attento a quello che pubblica. Blog, profili Facebook, account Twitter, Pinterest, Google Plus: qualunque  azione eseguita in Rete può vivere in eterno, e bisogna tenerne conto.

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Barilla, ovvero buoni giornalisti e cattivi giornali

Partiti come semplici emanazioni del cartaceo (proponevano, cioè, gli stessi pezzi del quotidiano di carta), i siti dei maggiori quotidiani stanno sempre più assumendo vita propria, con la creazione di redazioni esclusivamente dedicate alla Rete che producono contenuti pensati esclusivamente per il web.  Fotogallery, attenzione smodata alla cronaca, video virali sono i nuovi mantra, oltre alle solite tre S (sesso sangue soldi) e agli incidenti stradali. Una selezione di notizie che a volte più che interpretare la realtà sembra ricalcarla, con uno stile di scrittura veloce e adatto per i motori di ricerca, che spesso però diventa approssimativo.

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