cinema, politica

Esterno notte, il sequestro Moro visto da Marco Bellocchio

Esterno notte, la serie di Marco Bellocchio sul rapimento Moro, tratteggia bene l’atmosfera, lo smarrimento, la ricerca di senso degli anni del terrorismo,  quando i riferimenti sono caduti uno dopo l’altro sotto i colpi della contestazione ed è necessario sostituirli con qualcos’altro per non rischiare di fare un passo indietro all’ancien regime. Per alcuni, anche a prezzo del sangue.

Dopo il ’68 e le sue molte liberazioni ( dalla famiglia, dalla scuola, dalle ipocrisie della società), nel ’69 la strage di piazza Fontana riporta il Paese con i piedi per terra. Il fronte del lavoro si dimostrerà un terreno  più difficile di altri: in un’epoca ancora contraddistinta dalla produzione industriale di massa, fabbrica, catena di montaggio, capireparto rappresentano il polo di un dualismo tra cui è difficile scegliere: da una parte il salario e la possibilità di acquistare i nuovi prodotti del benessere consumistico, dal giradischi all’automobile; dall’altra, la vita greve, fatta di abusi quasi ottocenteschi ben documentati nelle cronache sindacali di quegli anni.

Le lotte operaie conducono allo Statuto dei lavoratori nel 1970, traguardo storico cui ancora oggi si fa riferimento; rileggerlo è utile per comprendere quale fosse la condizione all’epoca. I colletti bianchi non stavano poi molto meglio: la satira sociale di Paolo Villaggio ne descrive la frustrazione, la “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè anche.

Ma è negli atenei che comincia l’elaborazione di una teoria più o meno organica. In alcuni gruppi comincia a  farsi strada l’idea che è possibile sottrarsi all’imperialismo americano figlio della guerra mondiale e del piano Marshall (l’Italia è un Paese “a sovranità limitata”), al giogo dei padroni e alla dittatura delle multinazionali, tutto in un colpo solo. La risposta, per alcuni, è la lotta armata.

Tra le tante sigle che nascono in quegli anni, ci sono le Brigate Rosse, che imbracciano il mitra quasi subito.

Sono tempi convulsi. Non c’è solo la lotta di classe. Numerose sono le questioni economiche e sociali aperte. Mentre alla radio suonano i Led Zeppelin e Santana, al ’73 risale lo shock petrolifero, che porta alle domeniche a piedi, all’austerity, ma anche a realizzare come, ancora una volta, le crisi colpiscano più forte chi ha di meno.

La droga diventa un problema serio: Lilly, splendido brano di Antonello Venditti, descrive la storia di una ragazza di belle speranze finita nel giro sbagliato.

Si discute aspramente di conquiste sociali come divorzio e aborto, un confronto serrato in un Paese cattolico che, sin dalla proclamazione della Repubblica, è guidato dalla Democrazia Cristiana, ma che conta il Partito Comunista più forte dell’Occidente.

In questo clima, le Br cominciano a rapire e ferire ostaggi selezionati in maniera strategica prevalentemente al Nord industriale: dirigenti pubblici, manager d’azienda, magistrati, fino alla nascita della colonna romana e all’ “attacco al cuore della Stato” attorno al ’75. Al ’78 risale il sequestro di Aldo Moro, che voleva realizzare un storico compromesso tra Dc e comunisti. Personaggio mite ma potente e ben inserito negli apparati statali, il presidente della Dc viene rapito e ucciso in 55 giorni. Non senza opposizione interna nell’organizzazione fondata da Renato Curcio (all’epoca già in galera), e mentre buona parte del Paese scende in piazza per chiederne la liberazione.

La serie di Bellocchio racconta quei due mesi con dovizia di particolari e diversi punti di vista. C’è quello della famiglia – che, nel privato, non riesce a cogliere la grandezza pubblica di Moro – , quello della politica (la crisi del delfino Cossiga , allora ministro dell’Interno; la freddezza di Andreotti; i dubbi sulla linea della fermezza), e naturalmente quello dei terroristi, di cui vengono tratteggiate psicologie e motivazioni,  non sempre inappuntabili dal punto di vista della lotta. C’è anche il Papa, con la sua influenza nelle cose italiane.

Scenografie perfette, dialoghi serrati, una ricostruzione storica che mi pare fedele. Lungo il corso delle sei puntate si viene trasportati dalla regia di Bellocchio negli anni Settanta. I grandi nomi (Toni Servillo e Margherita Buy) ci sono, fanno cartellone ma non sono centrali. La vera star è Fabrizio Gifuni, che interpreta un Aldo Moro drammaticamente reale, disegnandone la personalità delicata ma ferma, la paura, e l’incontro con sentimenti che non credeva di poter provare; quindi, in definitiva, l’umanità. E poi Fausto Russo Alesi (Cossiga), capace di rendere benissimo la caratteristica inflessione sarda del politico, assieme alla ciclotimia e ai tormenti.

Il giudizio di Bellocchio è netto, ma non pedante.

Sono sei puntate su Netflix, poteva essercene forse una in meno, ma è una serie appassionante, non pesante, e da vedere. Nota conclusiva, la sigla iniziale ha un tema che mi è piaciuto molto.

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ambiente, cronaca, sostenibilità

Alluvione in Romagna, non sempre c’è un colpevole

Proviamo a fare il punto a mente un po’ più lucida su questi giorni di alluvioni e disastri in Romagna. Tanti – e anche molti giornali – parlano di urbanistica, consumo di suolo, di responsabilità delle amministrazioni: ma è solo una parte del problema, un altro modo per buttarla in politica, o in caciara.

Le alluvioni ci sono sempre state; l’aumento della frequenza è attribuibile al riscaldamento globale. Ciò premesso, certamente le politiche di gestione del territorio possono aiutare a controllarne gli effetti; ma non si può impedire agli eventi di verificarsi, lasciando passare il concetto (tristemente giornalistico) del “mai più”, come qualcuno si fosse dimenticato di spegnere l’interruttore. La natura non funziona così. Ha sempre colpito con violenza, e di fronte alla potenza degli elementi siamo stati – e restiamo – piccoli. Anche quando crediamo di poterla dominare. Anche se a una società senza dolore piacerebbe che esistesse una leva da tirare per potersi liberare di questi fastidiosi imprevisti.

Non solo. Occorre un po’ di onestà intellettuale. L’agricoltura, come quella praticata in Romagna, consente al nostro Paese di avere grande disponibilità di prodotti di qualità a prezzi accettabili; fatevi un giro all’estero per capire cosa significa mangiare melanzane che non sanno di nulla, o seguire, per una vita, una dieta a base di carne e patate. Prendersela con la coltivazione intensiva senza sapere di cosa si sta parlando non rende onore all’intelligenza di chi pontifica. Il nostro stile di vita, quello che amiamo perché così piacevole, passa innanzitutto dal cibo. Senza agricoltura intensiva, ci troveremmo pomodori a 15 euro, e a poterseli permettere sarebbero solo i ricchi. Il fatto che a Milano e Londra già accada non significa che sia un buon esempio. Ragionare così è una mancanza di rispetto per chi di agricoltura vive, senza guadagni spropositati, e nelle ultime settimane ha perso molto. Certo, il suolo può essere usato meglio di oggi; ma serve tempo per rompere gli schemi consolidati, per insegnare nuove tecniche, insomma, per imparare. E la storia dell’umanità insegna che un solo grande evento avverso vale più di mille ragionamenti, di migliaia di pagine e discorsi.

Terzo punto. Mi pare di aver letto – ma potrei sbagliare – che solo il 5% delle abitazioni in Italia sia provvisto di un’assicurazione contro i rischi di questo tipo. Forse converrebbe cominciare a pensarci. Anche perché, in maniera tutto sommato controintuitiva, le compagnie hanno tutto l’interesse a lottare contro il cambiamento climatico: liquidano danni per decine di miliardi l’anno a causa degli eventi estremi, e la cosa inizia a pesare sui conti. Con la massa di capitali di cui dispongono, sono un ottimo alleato per portare avanti le negoziazioni dove conta, cioè a livello internazionale, dove si decidono le sorti delle nostre economie, e del futuro, anche climatico. Sia chiaro: le assicurazioni non agiscono e non agiranno mai per filantropia: è mero interesse, che però andrebbe sfruttato. Anche pungolandole quando fanno greenwashing, come non di rado accade.

In definitiva, migliorare l’adattamento si può, ma nessuno – nessuno – potrà garantire che tragedie del genere non accadano più. Meglio prepararsi al futuro tenendo conto dei vincoli, economici e non solo, che abbiamo. Vogliamo andare su Marte, ma restiamo sempre piccoli rispetto all’universo. I giornali non aiutano a ristabilire le proporzioni. Per me il consiglio resta il solito: disintossichiamoci dalle news. Soprattutto quelle online.

(foto Lapresse, a dispozione per rimuoverla)

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politica, sostenibilità, sport

La “nuova Napoli” post scudetto è già vecchia

Qualche giorno fa ho scritto un post su Napoli, chiedendomi che futuro avrà la città, se sarà l’ennesimo caso di gentrification e grandi eventi o riuscirà a proporre – meglio, a essere capofila – di un modello diverso di sviluppo, ora che è sulla cresta dell’onda. Mi aspettavo fosse necessario qualche mese, forse qualche anno per capirlo, e chiamavo in causa la politica, che dovrebbe governare certi fenomeni, senza limitarsi a spingere semplicemente sull’acceleratore. Invece non ci è voluto molto: la risposta si trova in queste dichiarazioni programmatiche del sindaco Manfredi (le trovate nelle due foto qui sotto). Napoli, dice, “inizia a essere città globale, guida dei Sud del mondo“. A me sembra roba da neuro, talmente populista da essere una macchietta. E non solo perché Napoli si trova indiscutibilmente a nord, del mondo.

Anche il resto delle affermazioni del primo cittadino è un inno alle worst practices globali (uso l’inglese manageriale in chiave ironica), un copia e incolla da Milano, che a sua volta copia e incolla da Barcellona, che copia e incolla da chissà chi. In una parola: grandi eventi, dalle dubbie ricadute sul territorio.

Tra un concerto dei Coldplay e uno di Bono, spiace rovinare la festa: ma chiedetevi a chi andranno i soldi che gireranno all’improvviso. Domandatevi se creeranno sviluppo umano in una città che ha bisogno di crescita diffusa, o incancreniranno le differenze, confermeranno i ghetti, alimenteranno ancora una volta appetiti puzzolenti e illegalità.

Pare che, di fronte all’abbondanza, la ragione abbia perso anche questa volta. Eppure, lo scudetto sarebbe stato un bel momento per fare dichiarazioni – queste sì, rivoluzionarie – diverse dal solito campionario trito e da parvenu (tranquilli, anche Milano lo è, in questa corsa alle metriche). Perché leader sono coloro che sanno dare voce al disagio. E sono capaci di andare controcorrente.

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cronaca, reportage, sostenibilità

Quale futuro per Napoli?

Questione di atmosfera, profumi, suoni, vociare: al viaggiatore giunto a Napoli, bastava scendere dal treno per capire di trovarsi all’ombra del Vesuvio. Ma l’altro giorno ho provato una sensazione diversa, di deja vu. In città per festeggiare lo scudetto – festa rimandata, peraltro – mi è sembrato, mai accaduto, di trovarmi in un posto simile a molti altri. Una Venezia, una Firenze, solo un po’ meno linda. Cosa accomuna queste città d’arte universali? Il sovraturismo, direi, che le ha rese quasi parodie, caricature di sé stesse.

Non è accaduto subito. Ci ho messo un po’ ad accorgermene, a decodificare quella sensazione. Ma camminando per le vie dei Quartieri Spagnoli invase da tifosi e bandiere, tra souvenir, chincaglieria e odore di fritto, mi è parso ci fosse meno spontaneità di una volta.

Intendiamoci, la gioia dei napoletani per la vittoria (quasi certa) dello scudetto è vera, viscerale. Nulla può spiegarla a chi non l’abbia avvicinata, magari a casa di amici di amici, dopo una conoscenza durata pochi minuti. Ci è accaduto al rione Sanità, “salvato”, dice un residente, “dalle telecamere a circuito chiuso”. Ma in questo caso siamo lontani dai riflettori.

In centro, tra i bassi, qualcosa non torna a chi conosce il capoluogo campano. Tutto è vero, eppure niente lo pare completamente. Come se l’anima pittoresca della città di Totò fosse stata colorata a tinte troppo brillanti; come dopo un filtro su Instagram, o in una foto dalla postproduzione eccessiva.  

Coordinamento, forse è questa la parola giusta, quello che stona. Al posto della confusione che è il marchio di fabbrica di una città che ha saputo elevare il caos ad arte, i festoni si succedono seguendo linee dalle geometrie sin troppo regolari. Degli storici locali in cui si veniva presi a maleparole se non ci si affrettava a liberare posto, restano tanti ristorantini ordinati e pronti per accogliere i turisti, con tavolinetti disposti in bella fila sui lastroni e menu in inglese più o meno perfetto. Ogni tanto qualche anziana si affaccia a spiare da dietro le imposte questo flusso che ha una fisionomia diversa da quella delle passeggiate domenicali di chi abita nei comuni della cintura: è lo sciame dei turisti vestiti alla stessa maniera, da Milano a Santorini, da Amsterdam a Londra. Stesse scarpe, stessi giubbotti, stessi telefoni. Largo Maradona, un anfratto tra i vicoli dedicato al compianto numero dieci celeste, è un luogo troppo ingenuo per essere vero, sovraccarico com’è di memorabilia, bandiere, dediche.  

Dove sta andando Napoli? Confesso di non avere una risposta.

Presto per parlare di gentrification, ma si tratta di fenomeni già visti altrove, che un amministratore deve tenere presenti.

Un amico, buon conoscitore della città, mi dice: si trova nel pieno di un vorticoso processo di sviluppo, non si può sapere ora dove e come finirà. In certi quartieri, aggiunge, prima era difficile anche pensare di mettere piede: bisogna ricordarselo, prima di giudicare.

Ha ragione, penso. Ma c’è qualcosa che ancora non mi convince, un dubbio che mi punge. Qualcosa di cui è difficile parlare, perché mancano il tempo e lo spazio per provare ad argomentare, e farlo espone alla replica – facile –  di chi contrappone sviluppo turistico e povertà. Napoli non ha forse il diritto di promuoversi e provare ad attirare i viaggiatori come le altre?

Certo che sì, ma forse dovrebbe confrontarsi con qualche domanda, ora che va di moda e Mare fuori è la serie tv più vista tra le decine che affollano i palinsesti. Di chi sono le attività che sorgono come funghi tra i vicoli? In che maniera il denaro che arriva dai turisti si redistribuisce sul territorio e diventa un’opportunità per il futuro dei residenti?

E ancora: che ne sarà, di questi residenti? Si è visto a Venezia, svuotata negli anni, trasformata in un enorme albergo. Potrebbe accadere anche qui.

Non vorrei che la città, una delle poche ad averne ancora una, perdesse la proprie identità.

La questione, tutto sommato, è vecchia, e forse bisogna rassegnarsi al fatto che prima o poi anche le (poche) realtà che hanno resistito cadranno nel gorgo dei selfie stick, degli occhiali a specchio, dei viaggi con le Hogan (abbiamo anche avuto giornalisti che ci sono andati in Ucraina, con le Hogan, se è per questo).  Eppure mi chiedo: possibile che non esista un modello diverso? Un modello di turismo che possa portare benessere senza sovraccaricare i quartieri, trasformandoli in luoghi da selfie, in fondo violentandoli? Pongo la domanda a chi ne sa più di me, perché mi è difficile rispondere.

Mi viene in mente Medellìn, in Colombia. Una città profondamente cambiata dai tempi di Pablo Escobar, che è diventata la più moderna del Paese, l’unica, ad esempio, ad avere una metropolitana. Ci sono aziende e un grande incubatore di startup per i giovani “talenti” che garantiscono copertine e articoli, uno dei quali vergato da chi scrive. E gli altri, i dimenticati? Agli angoli delle strade sono sdraiati i fumatori di crack, ombre senza speranza. Si può passeggiare – con una guida – per la Comuna 13, un sobborgo tra i più problematici; ma può facilmente capitare di essere rapinati, tranne nel lussuosissimo quartiere del Poblado, dove hamburgerie veg, cocktail bar e saloni di bellezza all’europea appartengono a individui poco raccomandabili. Alcuni dei quali, nostri connazionali.

Anche in Colombia emerge la contraddizione forse insanabile: il turismo, le carovane di turisti che sfilano tra le case della Comuna 13 sono mal sopportate dai residenti; ma rappresentano forse l’unica salvezza per i ragazzi che imparano le lingue su YouTube, hanno visto omicidi mentre andavano a scuola, e sognano un futuro in Europa quando si scambiano indirizzi e email con chi arriva. C’è la corruzione, il degrado, e la tensione verso il futuro, la modernità. Dove sta la verità?

Come si cambia – stavo per scrivere: si salva – una città senza snaturarla?

Certe scelte vanno fatte adesso che Napoli è di moda, e la sigla di Mare fuori la cantano anche a Milano sui tram.

Non vorrei che la città fosse svenduta alla speculazione di chi è sempre a caccia di nuove occasioni di investimento.

Non vorrei mai vedere, anche qui, i residenti storici cacciati dal centro perché i prezzi degli apppartamenti aumentano a causa degli affitti brevi, per finire in periferie destinate a restare ghetti. I riflettori accesi da una parte, le luci spente dall’altra. Fenomeni cui abbiamo già assistito. Non vorrei, insomma, che Napoli, che finora è rimasta un passo indietro, finisse per cedere e diventasse un’altra galleria di immagini da cartolina, che il turista si vede scorrere davanti, senza riuscire a coglierne l’anima e il dolore, che in quei vicoli è sempre esistito ed esiste. Insomma, che l’odore di un benessere improbabile proprio perché improvviso ne cancellasse l’umanità: ciò che da sempre la contraddistingue.

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esteri, guerra, reportage

L’eredità dei Troubles in Irlanda del Nord

Belfast, 2019. Incontro Jim, un veterano del conflitto armato, parte unionista, i protestanti. Ha combattuto, è stato in prigione, ne è uscito: il volto, il tono della voce, lo sguardo sono ancora modellati da quegli anni. Le rughe, la fronte ne portano i segni, solcati da linee profonde. Non si può comprendere la questione irlandese senza parlare con gli abitanti dell’Ulster. A Belfast ci sono murales che inneggiano alla violenza, palazzi colpiti da raffiche di mitra che mostrano i buchi dei proiettili. In cielo volavano gli elicotteri, per strada i carri armati Tutti hanno perso qualcuno. Jim mostra le immagini dei combattenti, le tombe. Ha dedicato l’esistenza a un pezzo di terra che a guardarlo potrebbe sembrare insignificante, per quanto è simile a tanti altri, scagliandosi  contro coetanei, entrambi nel fiore degli anni, entrambi che hanno speso la parte migliore della vita in galera. Le sue parole sono di una lucidità dilaniante. Ancora oggi la cadenza delle sillabe fatica ad abbandonarmi. “Il conflitto è diventato parte della mia vita – dice – L’ho accettato per quello che era, e ho accettato anche il mio ruolo in esso. Ho perso per strada degli amici, alcuni membri della mia famiglia. Ma era parte del viaggio”. Era possibile non essere coinvolti? chiedo. “Era difficile non esserlo, avevo un fratello in un’organizzazione, io ero in un’altra […] e c’erano momenti in cui si ammazzavano”. Quali le conseguenze dei Troubles, per la gente oggi? “Credo che la gente sia ancora alle prese con l’eredità del conflitto. Qualcuno la gestisce bene, qualcun altro non ce la fa. Penso che abbia colpito le persone in maniera differente, capisci cosa intendo?”.

Qui il video (riproduzione riservata, lo scrivo se qualche simpaticone avesse voglia di ripubblicarlo senza chiedere l’autorizzazione, e credetemi, càpita anche questo.)

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app, internet, politica

Qualche link per comprendere la questione Chat Gpt

Di seguito provo a riepilogare qualche pezzo interessante su Chat Gpt, assieme ad alcune considerazioni personali.

Nota: questo post nasce il 7 aprile come una tantum, ma nei giorni seguenti ho pensato di tenerlo aggiornato e farne una specie di utile repository, a beneficio mio e di chi legge. Anche perché potrebbe essere interessante, domani, ricostruire la questione e il dibattito sull’intelligenza artificiale, che per la prima volta sta diventando mainstream.

Premesse

Qui trovate un articolo molto bello del New York Times, gran pezzo di giornalismo, sul fondatore di ChatGpt, Sam Altman. Da leggere, anche perché l’autore ha il raro dono di saper bilanciare dubbi e certezze.

Qui la lettera di mille appartenenti alla comunità tech sui pericoli della AI: chiedono una moratoria di sei mesi. Siamo a marzo 2023.

30 marzo 2023

Il Garante italiano per la privacy formula alcune richieste a Open AI, la società che ha sviluppato ChatGpt. Quest’ultima reagisce “spegnendo” l’applicazione nel nostro paese.

Qui il testo della delibera dell’Authority (ecco una sintesi) mentre qui la risposta di Open AI, la società che ha sviluppato Chat Gpt.

Qui un bel podcast di DataKnightmare che riassume l’intervento del Garante italiano, primo al mondo, sulle questioni legate alla privacy. Altri stanno seguendo, segno che la strada è giusta. In questo articolo Guido Scorza, membro dell’Authority, spiega molto bene il senso dell’intervento, e perché non dobbiamo scegliere tra futuro e diritti, come molti tecnottimisti ripetono. Teniamo presente che tanti si sono già gettati a pesce sulla nuova tecnologia, investendo, e sono toccati direttamente dallo stop. Insomma, sono interessati nel loro parlare.

Questo è un pezzo del Guardian, che annuncia di stare sviluppando una squadra dedicata allo studio di Chat Gpt, delle sue potenzialità giornalistiche e, speriamo, dei limiti. Magari con qualche proposta su come gestire questa tecnologia.

19 aprile 2023

Il sociologo bielorusso Evgeny Morozov, uno tra i più attenti osservatori di Internet, spiega le sue preoccupazioni sull’AI, il “soluzionismo tecnologico” e il ruolo fondamentale dei media nel tenere vivo il dibattito senza accontentarsi delle narrazioni degli uffici stampa di Big Tech. ().

Qui un articolo della MIT Tech Review, non proprio un circolo di luddisti. Da leggere perché ampio e non schierato aprioristicamente. Si parla degli impatti sul lavoro, ma anche di chi deve fare le regole e del ruolo di Big Tech. Si propone il modello del Cern per il ruolo nel world wide web. Faccio notare che il pezzo è del 25 marzo, cioè prima del provvedimento del Garante della Privacy italiano. In quest’altro pezzo, sempre la MIT Tech Review spiega che le società di Intelligenza artificiale potrebbero incontrare più difficoltà del previsto ad adeguarsi alle normative sulla privacy. E che forse si poteva allenare le AI in maniera diversa

25 aprile 2023

Questo è il primo video politico realizzato interamente dall’intelligenza artificiale. A commissionarlo, il partito repubblicano Usa, dopo l’annncio di Biden che si sarebbe ricandidato alle presidenziali del 2024.

28 aprile 2023Chat GPT riapre in Italia.

Qui la dichiarazione del Garante della Privacy relativa alla riapertura di ChatGpt in Italia

In questo pezzo per l’Economist, lo storico Yuval Harari (autore, tra l’altro, di Sapiens) spiega le sue preocupazioni riguardo all’AI, a come potrebbe essere la fine della storia guidata dall’uomo. “We can still regulate the new AI tools, but we must act quickly” scrive, chiamando in causa i governi, come si fece per l’energia atomica, che riscrisse l’ordine internazionale. “The first crucial step is to demand rigorous safety checks before powerful ai tools are released into the public domain. Just as a pharmaceutical company cannot release new drugs before testing both their short-term and long-term side-effects, so tech companies shouldn’t release new ai tools before they are made safe. We need an equivalent of the Food and Drug Administration for new technology, and we need it yesterday“. Harari sottolinea anche come l’AI generativa sia in grado di influenzare il dibattito democratico.

2 maggio 2023

Geoffrey Hinton, accademico, uno dei padri dell’intelligenza artificiale, rassegna le dimissioni da Google, dove lavorava da oltre un decennio e si unisce al coro di critiche. “L’unica scusa che mi dò è la solita: se non l’avessi fatto io l’avrebbe fatto qualcun altro”, dice.

7 maggio 2023

Un bel riassunto semplice che fa il punto sull’intelligenza artificiale lo potete leggere qui. E’ del Washington Post, ed è veramente per tutti. Citazione cinematografica nel sommario: “Everything you wanted to know about the AI boom but were too afraid to ask”. Va notato che il Washington Post è di Jeff Bezoes, proprietario di Amazon. E che Amazon non è citata tra le società in corsa per l’AI. Non ancora?

Sempre di oggi, un’intervista del Mit Tech Review a Geoffrey Hinton, uno dei pionieri del deep learning che ha appena lasciato Google, dove ha lavorato per dieci. La sua posizione riguardo all’intelligenza artificiale è cambiata negli anni: ora Hinton la teme, definendola una “minaccia esistenziale”, e mette il mondo in guardia sui rischi. E questo ha fatto scalpore nella comunità degli esperti.

9 maggio 2023

La Harvard Business Review scrive un lungo contributo su come evitare i rischi etici per l’Ai e le nuove tecnologie. Potete leggerlo qui.

13 maggio 2023

Intanto il 14 giugno (data provvisoria) il Parlamento europeo discuterà la norma nota come Ai Act, di portata non inferiore al quella del Gdpr (che ha da poco compiuto cinque anni) per la privacy. Qui c’è un pezzo recente dell’Mit Technology Review che spiega cosa ci aspetta. Qui il pezzo di Luca Tremolada sul Sole 24 ore, che risale a febbraio ma è in italiano. Una volta delineata la posizione di Strasburgo, comincerà il dialogo con Commissione e Consiglio Europeo, il cosiddetto trilogo, procedura standard che porterà al testo finale. Potrebbe volerci più di un anno, qualcuno dice anche due prima che diventi legge, ma l’Unione avrà il vantaggio di fare la prima mossa e anche gli Stati extraeuropei che vorranno fare affari con il grande mercato continentale dovranno adeguarsi; questa legislazione rischia di essere, de facto, lo standard internazionale sulla Ai, e comprenderà anche aspetti controversi come il riconoscimento facciale. E’ previsto (e prevedibile) un intenso lavoro delle lobby per depotenziare la portata del testo finale.

16 maggio 2023

Anche l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, prende posizione e mette in guardia sui rischi di un uso “precipitoso” delle nuove tecnologie. I dati di cui sono nutriti i language models, scrive, possono essere imprecisi e generare conseguenze negative per i pazienti. C’è anche un elenco di casistiche. L’organizzazione si dichiara, comunque, “entusiasta” di un uso “appropriato” della tecnologia. La proposta sono 6 linee guida “per l’etica e la governance dell’intelligenza artificiale per la salute”. Da qui potete scaricare il documento.

22 maggio 2023

Sempre l’MIT Technology review in questo pezzo fa una sintesi di quanto stanno facendo i policymakers globali, dando i voti. C’è il Consiglio d’Europa (un’organizzazione umanitaria, diverso dal Consiglio europeo), che sta chiudendo una bozza interessante che comincia con le definizioni – e le cosiddette tassonomie sono la base di qualunque ragionamento politico; ma ci sono anche l’OCSE, che già nel 2019 aveva emesso alcune linee guida che sono la base delle policy occidentali, e le Nazioni Unite. Lettura interessante.

25 maggio 2023

I media riportano di un nuovo super antibiotico in grado di prevalere su batteri farmacoresistenti scovato tramite l’intelligenza artificiale. Qui un pezzo della BBC. Non è detto che arrivi mai all’impiego umano, ma la farmacoresistenza è uno dei problemi principali della sanità globale, ed è un buon segnale, anche perché mostra il volto positivo si questa tecnologia.

Vengo alle mie considerazioni.

  1. La prima riguarda il giornalismo. Speriamo che non si perda la voglia di insegnare ai giovani il lavoro paziente e spesso (in apparenza) infruttuoso che conduce a scrivere un pezzo. Per capire la realtà non basta una ricerca su internet, e non basta ChatGpt per scrivere un buon pezzo. Servono tempo, pazienza e studio: ma il lavoro dei giornalisti è essenziale alla società, proprio perché prova a dare la bussola, lo fa più in fretta degli storici, spesso basandosi su intuito ed esperienza, e lo fa partendo da presupposti umani. Cioè dalla velocità a cui dovremmo andare noi, e sulla quale dovremmo tarare il mondo.
  2. Il problema della responsabilità è forte: provate a multare un algoritmo per aver scritto scemenze…
  3. Il problema di chi prende le decisioni: come sottolineato da Scorza, non è detto che – anche se il pubblico non se ne rende conto – i pericoli non siano reali. Le elite servono a questo , e non lascerei alle masse, che non sono informate, la decisione su cosa è giusto e sbagliato su temi che plasmeranno il futuro.
  4. Da qui un altro tema, quello del populismo digitale. Nei giorni scorsi Ryanair ha mandato una mail ai clienti invitandoli a fare pressione sulla Commissione europea per limitare gli scioperi dei controllori di volo francesi. Mail empatica, si paventano disagi in vacanza. A mio avviso si è superata un’altra soglia, l’ennesima. Immaginate se le compagnie petrolifere cercassero di convincere i clienti del fatto che la transizione ecologica è negativa perché aumenterà il prezzo della benzina. Le persone leggono, votano, poi uno vale uno e la frittata è fatta. Se ci si rivolgesse alla gente con strumenti potenti di marketing e budget milionari per spingerla a fare lobby anche su transizione ecologica e AI, saremmo nei guai. Su un certo tipo di questioni devono decidere gli informati. Il dibattito, anche duro, è necessario, e nessuno può tirarsi indietro. Ma le posizioni si pesano, non si contano. Piantiamola con questa retorica i cui costi ci troveremo a pagare tra dieci anni, quando non sarà più possibile tornare indietro.

Giusto sottolineare che Chat Gpt non è uno strumento non intelligente (semplificazione giornalistica, utile ma imprecisa). Significa che non va oltre la statistica per fare le proprie affermazioni, non è in grado di scovare il dettaglio che dà il senso a tutto. Ma non sottovalutiamone la potenza.

E, soprattutti, non ripetiamo l’errore fatto a inizio Duemila con big tech, quando si lasciò fare, per comodità, interesse e ignoranza. Il risultato dell’influenza dei social e dei motori di ricerca sulle nostre vite è sotto gli occhi di tutti. Brexit, elezione di Trump e fake news comprese.

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Gli scontri in piazza a Parigi
esteri, politica, reportage

Quello che resta degli scontri di Parigi

Chissà che cosa deve aver pensato Emmanuele Macron quando il 24 marzo, assieme al vento e alla pioggia che dalla mattina si alternavano a squarci di sole, dal cielo di Parigi è scesa la grandine. Probabilmente, che se i chicchi fossero arrivati un giorno prima la capitale non sarebbe stata messa a ferro e fuoco. Che il destino di chi ha salvato la Francia per due volte da Marine Le Pen è ben triste, se la piazza gli si rivolta contro con una manifestazione da Sessantotto. E che quando ci si mette anche il meteo, c’è poco da fare. Meglio rassegnarsi.

Macron non è simpatico. Ho avuto l’occasione di vederlo da molto vicino a Sharm el Sheick, parliamo di istanti, ma la prima impressione – diceva qualcuno – si forma in dieci secondi, e passiamo tutta la vita solo a confermarla. Monsieur le President è un primo della classe, arrivato al potere giovanissimo, appoggiato da potentati economici i cui contorni non saranno mai del tutto chiari – come quelli di Renzi, per capirci – e, non ultimo, dall’Unione europea. E’ di sinistra perché non è di destra, non mi viene una definizione migliore. Certo, sui diritti civili il posizionamento è innegabile. Ma con la gauche, come è intesa in riva alla Senna, non ha niente a che spartire. E nemmeno con la rive gauche, quella degli intellettuali. L’inquilino dell’Eliseo è piuttosto un tipo pragmatico, metodico, uno che ama avere la situazione sotto controllo e che ha sempre la risposta pronta. Più maturo della sua età sin da quando era giovane, e ha sposato una donna che potrebbe essere sua madre.

Il problema dei tipi come Macron è che capiscono molto in fretta, baciati da una razionalità superiore. Non sono cattivi, ma mancano di empatia. Il presidente conosce la matematica abbastanza per sapere che, se l’età media si allunga, un sistema pensionistico pensato nell’Ottocento – quando si campava in media meno di sessant’anni – non può reggere.

Quindi, sicuro di non potersi ricandidare e senza più niente da perdere, all’inizio del secondo mandato ha fatto quello che un governante deve fare: la cosa giusta, anche se impopolare. In questo caso, alzare l’età del pensionamento di un paio d’anni, portandola da 62 a 64. Bastano un foglio e una matita per capire che ha ragione.

Il fatto è che nella piazza di giovedì, tre milioni di persone che hanno marciato da place de la Bastille all’Opera dopo dieci giorni di proteste, di razionalità ce n’era ben poca.

Abbiamo camminato coi manifestanti da place d’Italie fino al concentramento, e poi ancora verso i punti critici. Per strada c’erano persone comuni, gente di mezza età, studenti, pensionati – che la pensione, quindi, già la percepiscono – e poi, a guardare bene, tutti gli strati sociali. C’erano diplomi, lauree, elementari, licenze medie, senza che fosse possibile individuare un senso. Slogan comunisti misti a rivendicazioni più moderate. Qualcuno ha provato a prenderla con un sorriso: ma erano, francamente, pochi. Sguardi torvi, la rabbia si respirava a ogni passo, più forte assieme alle sirene, assordanti; e a ogni metro percorso, quando il serpente cominciava a raggomitolarsi e a mostrare la potenza delle proprie spire proprio in place de la Bastille, la psicologia dell’individuo cedeva il passo a quella, molto più pericolosa, delle folle. Risate. Qualcuno sparava bombe carta che spaventavano la gente, e rideva, per aver fatto paura a chi, in teoria, ne condivideva la lotta. I compagni a fianco, come da copione, assistevano. Sopportavano, in qualche caso scattavano persino foto ricordo.Non condividevano, forse, ma non protestavano, e questo è il prodromo delle escalation di piazza.

Si creava, insomma, quella sensazione di impunità per la quale esiste una zona franca dai limiti, una finestra temporale in cui tutto è permesso, in cui si arriva a concedersi atti da cui, in un contesto diverso, ci si asterrebbe per prudenza.

Probabilmente esisteva una componente organizzata e violenta che ha cercato lo scontro e la devastazione come unica ragione della propria presenza. Accanto a loro, però, e accanto alla gente normale, sfilava questa accozzaglia di codardi da branco. Quanti erano? Facciamo una stima, approssimativa perché basata sull’osservazione di chi ha esplorato un unico settore: uno ogni venticinque, trenta.

Quella di giovedì mi pare sia stata una manifestazione di pancia. Le rivendicazioni erano slegate dalla logica, anche chi aveva gli strumenti per capire si rifiutava di farlo. Mi sembra si possa inscrivere, piuttosto, in quel rifiuto più generale del sacrificio, della vita passata al lavoro, che caratterizza gli anni dopo la pandemia. La quale, dopo aver costretto a casa miliardi di persone, le ha abbandonate con la consapevolezza che passare due ore al giorno in automobile o sui mezzi per lavorarne altre otto – se va bene – è una follia. Che vivere in città dove uno stipendio basta a malapena a pagare un affitto è un controsenso in termini. Che le macchine, lontano dalla promessa di Keynes, ci hanno portato a lavorare di più e non di meno. E che questo surplus va sempre più a beneficio di pochi.

Ci si può chiedere come da questa logica stringente si possa passare alle devastazioni, e che cosa si possa salvare tra i cassonetti bruciati. Ma non dimentichiamo che in piazza c’erano tre milioni di persone – la polizia ne stimava centomila alla vigilia – , e sono tante, tantissime.

Qualcosa di simile era accaduto coi novax.

Si cerca un motivo per protestare, un pretesto, senza riuscire a tradurre le sensazioni in un pensiero coerente. Un tempo questo compito spettava a partiti e sindacati, i cosiddetti corpi intermedi: ma la gente non si fida più, e marcia da sola e alla mercé di minoranze organizzate che aspettano acquattate di intestarsi la protesta. Ironicamente, En marche è il nome del movimento che ha condotto al poter Macron.

Sono tempi duri, qualcosa si sta muovendo, non si capisce in che direzione. Se esprimere un disagio è corretto, e mettere a ferro e fuoco una città non lo è, cosa resta degli scontri di Parigi? L’umore della piazza è mutevole. Il presidente francese era stato acclamato a maggio, è ancora vivido il ricordo della folla radunata sotto la torre Eiffel per festeggiare la vittoria. Poi, però, quando ha assolto al compito per cui era stato chiamato – governare -, il botto. C’è rifiuto dell’autorità, della razionalità. Frustrazione, in una città dove i clochard sono ovunque, molto più che in qualunque altro posto, e dormono persino nei campetti da basket sotto i ponti della metropolitana dove i bambini giocano facendo attenzione a non lanciargli il pallone in testa. I ricchi da una parte, i poveri dall’altra. Le babysitter inglesi, le startup, la fisica quantistica e la potenza nucleare contro il destino di emarginazione già scritto a quattordici anni degli immigrati: li riconosci subito, girano in branco con cappelli di pelliccia e borse Gucci, calano in città dalle banlieu, e prendono tutto quello che possono perché sanno che, a loro, il domani non riserva niente. La grandeur, il ruolo della Francia, la scena mondiale e la ragione contano poco per chi non ha molto: e soprattutto non ha speranza. Confinati nei ghetti, lontani dagli edifici con le facciate dipinte da murales che mostrano il volto di una città moderna e fintamente inclusiva, non cercano altro che un’occasione per essere ascoltati. E se la prendono, come bambini che urlano, senza sapere perché, in attesa di un genitore che traduca il loro disagio in richieste. Sono loro, rimasti indietro nella corsa al futuro. E non c’è welfare, soccorso sociale che possa salvarli perché anche quello è già un ghetto. La Francia è un Paese costruito sulle colonie, quindi sullo sfruttamento. Ma ha marginalizzato i propri figli, che ora le si rivoltano contro, offrendo a chi sta dalla parte giusta l’occasione non per una riflessione, ma per l’ennesima condanna.

Non si possono condividere le bombe carta, ma chi ha gli strumenti per capire, deve accogliere la verità che siamo di fronte a un sistema che ha fallito e ha prodotto disuguaglianze ammantate dal marketing dei diritti. Il primo è quello al futuro. E per tanti è solo un miraggio.

[foto in alto: da Internazionale, le altre sono mie]  

Qui qualche video che ho girato a Parigi 1 | 2 | 3. Sono ospitati su Facebook. Per chi non l’avesse, qui su Instagram ci sono gli stessi video assieme a molte foto.

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giornalismo, internet

Chat Gpt, gli Nft e i giornalisti

Dico la verità: questo Chat Gpt mi fa paura. La risposta ai dubbi su come cambierà il giornalismo e il content writing (no, non sono la stessa cosa, anche se il dubbio non è peregrino) potrebbe venire dagli Nft. Il primo tweet, il primo sms, le azioni più belle del calcio e del basket sono già  stati venduti per centinaia di migliaia di dollari. Ci sono persone che portano al polso, sullo smartwatch, mere immagini di diamanti pagate come fossero veri. Per non parlare delle opere d’arte: possono vederle tutti, ma la proprietà resta di uno solo. Insomma, l’Nft ha molto a che fare con l’attrazione psicologica per l’esclusività, la stessa degli status symbol.

Lo stesso, immagino, potrebbe accadere per i contenuti: la maggior parte di quelli che si producono oggi sarà agevolmente sostituita dal chatbot, e credetemi sta già accadendo; il negozio all’angolo non si affiderà più ai freelance, e chi di questo vive farebbe bene a preoccuparsi. Ma assumere un autore significherà tutelare dei panda in via di estinzione; e poterlo affermare, magari linkando il contenuto in questione a una biografia che dimostri che l’autore esiste in carne e ossa, potrebbe aggiungere un certo valore, un po’ come accade oggi per le certificazioni green. Immagino, naturalmente.

Non solo. Difficilmente una grande azienda rischierà un danno reputazionale affidandosi a un algoritmo. Ricordiamo la disastrosa campagna di Dolce e Gabbana in Cina di qualche anno fa: ve la  immaginate una maison che fattura miliardi scusarsi dicendo che è tutta colpa di un bot? Per non parlare delle fintech, insurtech, che agli algoritmi già oggi si affidano massicciamente per maneggiare enormi somme di denaro: se ti affidi al bot per risparmiare le fatture da qualche migliaio di euro di un content writer, come posso essere certo che i miei risparmi siano al sicuro?

L’umano, a conti fatti, potrebbe essere insostituibile. Se non altro come capro espiatorio.

Veniamo al giornalismo. Qui il problema è più complesso. Come suggeriva qualche giorno fa Federico Rampini, un professionista ha le sue fonti, anche segrete, fa inferenze, insomma ha un ancora qualcosa in più. E poi c’è l’allure, la pipa, il sigaro, il cappotto e le clarks.  ChatGpt, sosteneva Rampini dopo averlo testato, fa lavori discreti, che funzionano bene per l’80% dei contenuti, ma non per tutto.

Per i professionisti dell’informazione, il tema della validazione assume ancora più valore: chi garantisce? Il giornalista in carne e ossa è responsabile di quel che scrive, il bot no, e anche se lo fosse, sarebbe poca cosa multarlo, dato che i problemi di vil denaro non lo toccano. Al massimo, si può pensare di staccargli l’alimentazione.

Ribadisco, questo Chat Gpt mi fa paura. Ed è un dovere guardare alla nostra professione da qui a dieci anni, per chiunque viva di parole. Ma credo che, almeno la mia generazione, proverà a difendersi. A scovare i limiti di queste applicazioni, a creare riserve protette. Magari il successo non arriderà ai nostalgici, ma pazienza, in fondo conta darsi uno scopo. Per le generazioni che ancora devono nascere, il discorso è più complesso. Nel ’96 la pecora Dolly fece pensare che saremmo scivolati nella manipolazione genetica di massa. Non è stato così. Ci siamo dati dei limiti. Forse il punto, uno dei punti, è questo: non rassegnarsi a raccogliere per buono tutto quanto ci viene propinato come tanti boccaloni con la bocca spalancata. Meglio esercitare il nostro diritto di scelta, e tenere alta l’attenzione, sapendo anche rinunciare a qualcosa quando è chiaro che non può farci bene. Quel momento non è ancora arrivato, ma meglio non illudersi.  (foto: Getty Images)

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politica

Elezioni: Von der Leyen? No, non ha sbagliato

La levata di scudi riguardo alla dichiarazioni di Von Der Leyen (ha detto, più o meno: “Se in Italia le elezioni vanno male, abbiamo gli strumenti”) è la classica foglia di fico, molto nazionalista, un po’ provinciale, per mascherare che il re è nudo. La presidente tedesca della Commissione ha detto quello che a Bruxelles e a Washington (e non solo) pensano tutti. Se avesse più carattere (non lo ha), non avrebbe nemmeno ritrattato.

L’Italia ha potuto predisporre un generoso Pnrr (più fondi del piano Marshall) grazie all’Europa. Denari che consentiranno al Paese di provare a continuare a mantenere il livello di benessere attuale – che è alto: provate ad andare in Sudamerica, in Asia o in Romania, per non parlare dell’Africa – nonostante attrraversi una lunga fase di declino. Assieme all’Occidente tutto, peraltro.

Chiaramente, i fondi sono sottoposti a condizionalità: per questi arrivano in tranche, con la possibilità di sospendere i pagamenti in caso di mancato rispetto degli accordi. Un’ipotesi già paventata per l’Ungheria.

Ora, in Parlamento, quasi con la maggioranza assoluta, dopodomani finiranno una destra che non ha mai rinnegato il passato fascista; una Lega che propone flat tax e scostamenti di bilancio, una politica economica da cumenda milanès che fa male ai conti dello Stato; un Berlusconi, l’unico moderato, che, se prima dava le carte, conterà molto poco (numericamente, oltre che per raggiunti limiti di età).

Il problema, quindi, è reale. E il fatto di essere attenzionati da un’Unione di cui siamo orgogliosamente membri e che tanto ci ha dato, personalmente mi rasserena. Non esistono pasti gratis: se i soldi del Next Generation Eu smettono di arrivare, tanto vale emigrare.

Si dirà: non c’è diritto a intromettersi negli affari interni. Questa è la versione di chi non vuole l’integrazione.

Per chi sostiene l’Europa, pur nei limiti che le vanno addebitati, e vuole far avanzare il processo, il fatto che Bruxelles ogni tanto intervenga è, invece, positivo.

Sovranità? Parliamoci chiaramente. Dopo l’ultima guerra mondiale l’Italia era un paese agricolo e distrutto, di cui otto abitanti su dieci non parlavano la lingua. Si è ricostruita, diventando in vent’anni la settima potenza industriale al mondo, grazie ai fondi del Piano Marshall. Quei soldi, però, non sono arrivati gratis. Il debito lo abbiamo pagato con la cessione a Washington di quote ampie di sovranità. Capita la stessa cosa negli stati federali: si concede qualcosa al centro in vista di un bene maggiore.

Personalmente, credo che se il nostro baricentro stesse a Bruxelles e non negli Stati Uniti avremmo solo da guadagnarci. Nei tempi grami che ci attendono, la nostra liretta non sarebbe stata in grado di garantirci benessere. Per cui, bene ha fatto Von der Leyen a mandare un segnale. Tanto, poi si può sempre precisare. Noi, invece, dovremmo assumerci la responsabilità di non mandare in Parlamento i soliti pifferai da quattro soldi, ma chi ha mostrato di volersi assumere le responsabilità di quello che ci aspetta. Buon voto a tutti.

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cinema, cultura

Il Signore delle Formiche, l’Italia bigotta descritta da Amelio

Il Signore delle formiche è un film bello da vedere, forse leggermente lungo, ma ben realizzato. E che fa riflettere. La pellicola di Gianni Amelio ha il merito di dipingere tutti i chiaroscuri di un caso giudiziario realmente accaduto, il processo per plagio ad Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio) negli anni Sessanta, primo caso di applicazione del reato in Italia.

Il professore piacentino, personalità magnetica, era accusato di abusare dei propri allievi sfruttando la propria influenza. Dettaglio centrale, Braibanti era omosessuale. Amelio descrive in maniera efficace come il processo sia stato condizionato dal clima sociale, ai tempi estremamente moralista. E induce lo spettatore a pensare come, da allora, il nostro Paese abbia percorso parecchia strada, anche grazie a chi non è rimasto in silenzio.

Bravi gli attori (applauso all’esordiente Leonardo Maltese, Ettore), dialoghi mai banali, bella fotografia. Stupenda l’ambientazione nella campagna piacentina, il contrasto, così profondamente italiano tra la bellezza della provincia e il bigottismo cinico che si consuma all’ombra dei campanili.

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