politica, sostenibilità, sport

La “nuova Napoli” post scudetto è già vecchia

Qualche giorno fa ho scritto un post su Napoli, chiedendomi che futuro avrà la città, se sarà l’ennesimo caso di gentrification e grandi eventi o riuscirà a proporre – meglio, a essere capofila – di un modello diverso di sviluppo, ora che è sulla cresta dell’onda. Mi aspettavo fosse necessario qualche mese, forse qualche anno per capirlo, e chiamavo in causa la politica, che dovrebbe governare certi fenomeni, senza limitarsi a spingere semplicemente sull’acceleratore. Invece non ci è voluto molto: la risposta si trova in queste dichiarazioni programmatiche del sindaco Manfredi (le trovate nelle due foto qui sotto). Napoli, dice, “inizia a essere città globale, guida dei Sud del mondo“. A me sembra roba da neuro, talmente populista da essere una macchietta. E non solo perché Napoli si trova indiscutibilmente a nord, del mondo.

Anche il resto delle affermazioni del primo cittadino è un inno alle worst practices globali (uso l’inglese manageriale in chiave ironica), un copia e incolla da Milano, che a sua volta copia e incolla da Barcellona, che copia e incolla da chissà chi. In una parola: grandi eventi, dalle dubbie ricadute sul territorio.

Tra un concerto dei Coldplay e uno di Bono, spiace rovinare la festa: ma chiedetevi a chi andranno i soldi che gireranno all’improvviso. Domandatevi se creeranno sviluppo umano in una città che ha bisogno di crescita diffusa, o incancreniranno le differenze, confermeranno i ghetti, alimenteranno ancora una volta appetiti puzzolenti e illegalità.

Pare che, di fronte all’abbondanza, la ragione abbia perso anche questa volta. Eppure, lo scudetto sarebbe stato un bel momento per fare dichiarazioni – queste sì, rivoluzionarie – diverse dal solito campionario trito e da parvenu (tranquilli, anche Milano lo è, in questa corsa alle metriche). Perché leader sono coloro che sanno dare voce al disagio. E sono capaci di andare controcorrente.

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app, internet, politica

Qualche link per comprendere la questione Chat Gpt

Di seguito provo a riepilogare qualche pezzo interessante su Chat Gpt, assieme ad alcune considerazioni personali.

Nota: questo post nasce il 7 aprile come una tantum, ma nei giorni seguenti ho pensato di tenerlo aggiornato e farne una specie di utile repository, a beneficio mio e di chi legge. Anche perché potrebbe essere interessante, domani, ricostruire la questione e il dibattito sull’intelligenza artificiale, che per la prima volta sta diventando mainstream.

Premesse

Qui trovate un articolo molto bello del New York Times, gran pezzo di giornalismo, sul fondatore di ChatGpt, Sam Altman. Da leggere, anche perché l’autore ha il raro dono di saper bilanciare dubbi e certezze.

Qui la lettera di mille appartenenti alla comunità tech sui pericoli della AI: chiedono una moratoria di sei mesi. Siamo a marzo 2023.

30 marzo 2023

Il Garante italiano per la privacy formula alcune richieste a Open AI, la società che ha sviluppato ChatGpt. Quest’ultima reagisce “spegnendo” l’applicazione nel nostro paese.

Qui il testo della delibera dell’Authority (ecco una sintesi) mentre qui la risposta di Open AI, la società che ha sviluppato Chat Gpt.

Qui un bel podcast di DataKnightmare che riassume l’intervento del Garante italiano, primo al mondo, sulle questioni legate alla privacy. Altri stanno seguendo, segno che la strada è giusta. In questo articolo Guido Scorza, membro dell’Authority, spiega molto bene il senso dell’intervento, e perché non dobbiamo scegliere tra futuro e diritti, come molti tecnottimisti ripetono. Teniamo presente che tanti si sono già gettati a pesce sulla nuova tecnologia, investendo, e sono toccati direttamente dallo stop. Insomma, sono interessati nel loro parlare.

Questo è un pezzo del Guardian, che annuncia di stare sviluppando una squadra dedicata allo studio di Chat Gpt, delle sue potenzialità giornalistiche e, speriamo, dei limiti. Magari con qualche proposta su come gestire questa tecnologia.

19 aprile 2023

Il sociologo bielorusso Evgeny Morozov, uno tra i più attenti osservatori di Internet, spiega le sue preoccupazioni sull’AI, il “soluzionismo tecnologico” e il ruolo fondamentale dei media nel tenere vivo il dibattito senza accontentarsi delle narrazioni degli uffici stampa di Big Tech. ().

Qui un articolo della MIT Tech Review, non proprio un circolo di luddisti. Da leggere perché ampio e non schierato aprioristicamente. Si parla degli impatti sul lavoro, ma anche di chi deve fare le regole e del ruolo di Big Tech. Si propone il modello del Cern per il ruolo nel world wide web. Faccio notare che il pezzo è del 25 marzo, cioè prima del provvedimento del Garante della Privacy italiano. In quest’altro pezzo, sempre la MIT Tech Review spiega che le società di Intelligenza artificiale potrebbero incontrare più difficoltà del previsto ad adeguarsi alle normative sulla privacy. E che forse si poteva allenare le AI in maniera diversa

25 aprile 2023

Questo è il primo video politico realizzato interamente dall’intelligenza artificiale. A commissionarlo, il partito repubblicano Usa, dopo l’annncio di Biden che si sarebbe ricandidato alle presidenziali del 2024.

28 aprile 2023Chat GPT riapre in Italia.

Qui la dichiarazione del Garante della Privacy relativa alla riapertura di ChatGpt in Italia

In questo pezzo per l’Economist, lo storico Yuval Harari (autore, tra l’altro, di Sapiens) spiega le sue preocupazioni riguardo all’AI, a come potrebbe essere la fine della storia guidata dall’uomo. “We can still regulate the new AI tools, but we must act quickly” scrive, chiamando in causa i governi, come si fece per l’energia atomica, che riscrisse l’ordine internazionale. “The first crucial step is to demand rigorous safety checks before powerful ai tools are released into the public domain. Just as a pharmaceutical company cannot release new drugs before testing both their short-term and long-term side-effects, so tech companies shouldn’t release new ai tools before they are made safe. We need an equivalent of the Food and Drug Administration for new technology, and we need it yesterday“. Harari sottolinea anche come l’AI generativa sia in grado di influenzare il dibattito democratico.

2 maggio 2023

Geoffrey Hinton, accademico, uno dei padri dell’intelligenza artificiale, rassegna le dimissioni da Google, dove lavorava da oltre un decennio e si unisce al coro di critiche. “L’unica scusa che mi dò è la solita: se non l’avessi fatto io l’avrebbe fatto qualcun altro”, dice.

7 maggio 2023

Un bel riassunto semplice che fa il punto sull’intelligenza artificiale lo potete leggere qui. E’ del Washington Post, ed è veramente per tutti. Citazione cinematografica nel sommario: “Everything you wanted to know about the AI boom but were too afraid to ask”. Va notato che il Washington Post è di Jeff Bezoes, proprietario di Amazon. E che Amazon non è citata tra le società in corsa per l’AI. Non ancora?

Vengo alle mie considerazioni.

  1. La prima riguarda il giornalismo. Speriamo che non si perda la voglia di insegnare ai giovani il lavoro paziente e spesso (in apparenza) infruttuoso che conduce a scrivere un pezzo. Per capire la realtà non basta una ricerca su internet, e non basta ChatGpt per scrivere un buon pezzo. Servono tempo, pazienza e studio: ma il lavoro dei giornalisti è essenziale alla società, proprio perché prova a dare la bussola, lo fa più in fretta degli storici, spesso basandosi su intuito ed esperienza, e lo fa partendo da presupposti umani. Cioè dalla velocità a cui dovremmo andare noi, e sulla quale dovremmo tarare il mondo.
  2. Il problema della responsabilità è forte: provate a multare un algoritmo per aver scritto scemenze…
  3. Il problema di chi prende le decisioni: come sottolineato da Scorza, non è detto che – anche se il pubblico non se ne rende conto – i pericoli non siano reali. Le elite servono a questo , e non lascerei alle masse, che non sono informate, la decisione su cosa è giusto e sbagliato su temi che plasmeranno il futuro.
  4. Da qui un altro tema, quello del populismo digitale. Nei giorni scorsi Ryanair ha mandato una mail ai clienti invitandoli a fare pressione sulla Commissione europea per limitare gli scioperi dei controllori di volo francesi. Mail empatica, si paventano disagi in vacanza. A mio avviso si è superata un’altra soglia, l’ennesima. Immaginate se le compagnie petrolifere cercassero di convincere i clienti del fatto che la transizione ecologica è negativa perché aumenterà il prezzo della benzina. Le persone leggono, votano, poi uno vale uno e la frittata è fatta. Se ci si rivolgesse alla gente con strumenti potenti di marketing e budget milionari per spingerla a fare lobby anche su transizione ecologica e AI, saremmo nei guai. Su un certo tipo di questioni devono decidere gli informati. Il dibattito, anche duro, è necessario, e nessuno può tirarsi indietro. Ma le posizioni si pesano, non si contano. Piantiamola con questa retorica i cui costi ci troveremo a pagare tra dieci anni, quando non sarà più possibile tornare indietro.

Giusto sottolineare che Chat Gpt non è uno strumento non intelligente (semplificazione giornalistica, utile ma imprecisa). Significa che non va oltre la statistica per fare le proprie affermazioni, non è in grado di scovare il dettaglio che dà il senso a tutto. Ma non sottovalutiamone la potenza.

E, soprattutti, non ripetiamo l’errore fatto a inizio Duemila con big tech, quando si lasciò fare, per comodità, interesse e ignoranza. Il risultato dell’influenza dei social e dei motori di ricerca sulle nostre vite è sotto gli occhi di tutti. Brexit, elezione di Trump e fake news comprese.

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Gli scontri in piazza a Parigi
esteri, politica, reportage

Quello che resta degli scontri di Parigi

Chissà che cosa deve aver pensato Emmanuele Macron quando il 24 marzo, assieme al vento e alla pioggia che dalla mattina si alternavano a squarci di sole, dal cielo di Parigi è scesa la grandine. Probabilmente, che se i chicchi fossero arrivati un giorno prima la capitale non sarebbe stata messa a ferro e fuoco. Che il destino di chi ha salvato la Francia per due volte da Marine Le Pen è ben triste, se la piazza gli si rivolta contro con una manifestazione da Sessantotto. E che quando ci si mette anche il meteo, c’è poco da fare. Meglio rassegnarsi.

Macron non è simpatico. Ho avuto l’occasione di vederlo da molto vicino a Sharm el Sheick, parliamo di istanti, ma la prima impressione – diceva qualcuno – si forma in dieci secondi, e passiamo tutta la vita solo a confermarla. Monsieur le President è un primo della classe, arrivato al potere giovanissimo, appoggiato da potentati economici i cui contorni non saranno mai del tutto chiari – come quelli di Renzi, per capirci – e, non ultimo, dall’Unione europea. E’ di sinistra perché non è di destra, non mi viene una definizione migliore. Certo, sui diritti civili il posizionamento è innegabile. Ma con la gauche, come è intesa in riva alla Senna, non ha niente a che spartire. E nemmeno con la rive gauche, quella degli intellettuali. L’inquilino dell’Eliseo è piuttosto un tipo pragmatico, metodico, uno che ama avere la situazione sotto controllo e che ha sempre la risposta pronta. Più maturo della sua età sin da quando era giovane, e ha sposato una donna che potrebbe essere sua madre.

Il problema dei tipi come Macron è che capiscono molto in fretta, baciati da una razionalità superiore. Non sono cattivi, ma mancano di empatia. Il presidente conosce la matematica abbastanza per sapere che, se l’età media si allunga, un sistema pensionistico pensato nell’Ottocento – quando si campava in media meno di sessant’anni – non può reggere.

Quindi, sicuro di non potersi ricandidare e senza più niente da perdere, all’inizio del secondo mandato ha fatto quello che un governante deve fare: la cosa giusta, anche se impopolare. In questo caso, alzare l’età del pensionamento di un paio d’anni, portandola da 62 a 64. Bastano un foglio e una matita per capire che ha ragione.

Il fatto è che nella piazza di giovedì, tre milioni di persone che hanno marciato da place de la Bastille all’Opera dopo dieci giorni di proteste, di razionalità ce n’era ben poca.

Abbiamo camminato coi manifestanti da place d’Italie fino al concentramento, e poi ancora verso i punti critici. Per strada c’erano persone comuni, gente di mezza età, studenti, pensionati – che la pensione, quindi, già la percepiscono – e poi, a guardare bene, tutti gli strati sociali. C’erano diplomi, lauree, elementari, licenze medie, senza che fosse possibile individuare un senso. Slogan comunisti misti a rivendicazioni più moderate. Qualcuno ha provato a prenderla con un sorriso: ma erano, francamente, pochi. Sguardi torvi, la rabbia si respirava a ogni passo, più forte assieme alle sirene, assordanti; e a ogni metro percorso, quando il serpente cominciava a raggomitolarsi e a mostrare la potenza delle proprie spire proprio in place de la Bastille, la psicologia dell’individuo cedeva il passo a quella, molto più pericolosa, delle folle. Risate. Qualcuno sparava bombe carta che spaventavano la gente, e rideva, per aver fatto paura a chi, in teoria, ne condivideva la lotta. I compagni a fianco, come da copione, assistevano. Sopportavano, in qualche caso scattavano persino foto ricordo.Non condividevano, forse, ma non protestavano, e questo è il prodromo delle escalation di piazza.

Si creava, insomma, quella sensazione di impunità per la quale esiste una zona franca dai limiti, una finestra temporale in cui tutto è permesso, in cui si arriva a concedersi atti da cui, in un contesto diverso, ci si asterrebbe per prudenza.

Probabilmente esisteva una componente organizzata e violenta che ha cercato lo scontro e la devastazione come unica ragione della propria presenza. Accanto a loro, però, e accanto alla gente normale, sfilava questa accozzaglia di codardi da branco. Quanti erano? Facciamo una stima, approssimativa perché basata sull’osservazione di chi ha esplorato un unico settore: uno ogni venticinque, trenta.

Quella di giovedì mi pare sia stata una manifestazione di pancia. Le rivendicazioni erano slegate dalla logica, anche chi aveva gli strumenti per capire si rifiutava di farlo. Mi sembra si possa inscrivere, piuttosto, in quel rifiuto più generale del sacrificio, della vita passata al lavoro, che caratterizza gli anni dopo la pandemia. La quale, dopo aver costretto a casa miliardi di persone, le ha abbandonate con la consapevolezza che passare due ore al giorno in automobile o sui mezzi per lavorarne altre otto – se va bene – è una follia. Che vivere in città dove uno stipendio basta a malapena a pagare un affitto è un controsenso in termini. Che le macchine, lontano dalla promessa di Keynes, ci hanno portato a lavorare di più e non di meno. E che questo surplus va sempre più a beneficio di pochi.

Ci si può chiedere come da questa logica stringente si possa passare alle devastazioni, e che cosa si possa salvare tra i cassonetti bruciati. Ma non dimentichiamo che in piazza c’erano tre milioni di persone – la polizia ne stimava centomila alla vigilia – , e sono tante, tantissime.

Qualcosa di simile era accaduto coi novax.

Si cerca un motivo per protestare, un pretesto, senza riuscire a tradurre le sensazioni in un pensiero coerente. Un tempo questo compito spettava a partiti e sindacati, i cosiddetti corpi intermedi: ma la gente non si fida più, e marcia da sola e alla mercé di minoranze organizzate che aspettano acquattate di intestarsi la protesta. Ironicamente, En marche è il nome del movimento che ha condotto al poter Macron.

Sono tempi duri, qualcosa si sta muovendo, non si capisce in che direzione. Se esprimere un disagio è corretto, e mettere a ferro e fuoco una città non lo è, cosa resta degli scontri di Parigi? L’umore della piazza è mutevole. Il presidente francese era stato acclamato a maggio, è ancora vivido il ricordo della folla radunata sotto la torre Eiffel per festeggiare la vittoria. Poi, però, quando ha assolto al compito per cui era stato chiamato – governare -, il botto. C’è rifiuto dell’autorità, della razionalità. Frustrazione, in una città dove i clochard sono ovunque, molto più che in qualunque altro posto, e dormono persino nei campetti da basket sotto i ponti della metropolitana dove i bambini giocano facendo attenzione a non lanciargli il pallone in testa. I ricchi da una parte, i poveri dall’altra. Le babysitter inglesi, le startup, la fisica quantistica e la potenza nucleare contro il destino di emarginazione già scritto a quattordici anni degli immigrati: li riconosci subito, girano in branco con cappelli di pelliccia e borse Gucci, calano in città dalle banlieu, e prendono tutto quello che possono perché sanno che, a loro, il domani non riserva niente. La grandeur, il ruolo della Francia, la scena mondiale e la ragione contano poco per chi non ha molto: e soprattutto non ha speranza. Confinati nei ghetti, lontani dagli edifici con le facciate dipinte da murales che mostrano il volto di una città moderna e fintamente inclusiva, non cercano altro che un’occasione per essere ascoltati. E se la prendono, come bambini che urlano, senza sapere perché, in attesa di un genitore che traduca il loro disagio in richieste. Sono loro, rimasti indietro nella corsa al futuro. E non c’è welfare, soccorso sociale che possa salvarli perché anche quello è già un ghetto. La Francia è un Paese costruito sulle colonie, quindi sullo sfruttamento. Ma ha marginalizzato i propri figli, che ora le si rivoltano contro, offrendo a chi sta dalla parte giusta l’occasione non per una riflessione, ma per l’ennesima condanna.

Non si possono condividere le bombe carta, ma chi ha gli strumenti per capire, deve accogliere la verità che siamo di fronte a un sistema che ha fallito e ha prodotto disuguaglianze ammantate dal marketing dei diritti. Il primo è quello al futuro. E per tanti è solo un miraggio.

[foto in alto: da Internazionale, le altre sono mie]  

Qui qualche video che ho girato a Parigi 1 | 2 | 3. Sono ospitati su Facebook. Per chi non l’avesse, qui su Instagram ci sono gli stessi video assieme a molte foto.

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politica

Elezioni: Von der Leyen? No, non ha sbagliato

La levata di scudi riguardo alla dichiarazioni di Von Der Leyen (ha detto, più o meno: “Se in Italia le elezioni vanno male, abbiamo gli strumenti”) è la classica foglia di fico, molto nazionalista, un po’ provinciale, per mascherare che il re è nudo. La presidente tedesca della Commissione ha detto quello che a Bruxelles e a Washington (e non solo) pensano tutti. Se avesse più carattere (non lo ha), non avrebbe nemmeno ritrattato.

L’Italia ha potuto predisporre un generoso Pnrr (più fondi del piano Marshall) grazie all’Europa. Denari che consentiranno al Paese di provare a continuare a mantenere il livello di benessere attuale – che è alto: provate ad andare in Sudamerica, in Asia o in Romania, per non parlare dell’Africa – nonostante attrraversi una lunga fase di declino. Assieme all’Occidente tutto, peraltro.

Chiaramente, i fondi sono sottoposti a condizionalità: per questi arrivano in tranche, con la possibilità di sospendere i pagamenti in caso di mancato rispetto degli accordi. Un’ipotesi già paventata per l’Ungheria.

Ora, in Parlamento, quasi con la maggioranza assoluta, dopodomani finiranno una destra che non ha mai rinnegato il passato fascista; una Lega che propone flat tax e scostamenti di bilancio, una politica economica da cumenda milanès che fa male ai conti dello Stato; un Berlusconi, l’unico moderato, che, se prima dava le carte, conterà molto poco (numericamente, oltre che per raggiunti limiti di età).

Il problema, quindi, è reale. E il fatto di essere attenzionati da un’Unione di cui siamo orgogliosamente membri e che tanto ci ha dato, personalmente mi rasserena. Non esistono pasti gratis: se i soldi del Next Generation Eu smettono di arrivare, tanto vale emigrare.

Si dirà: non c’è diritto a intromettersi negli affari interni. Questa è la versione di chi non vuole l’integrazione.

Per chi sostiene l’Europa, pur nei limiti che le vanno addebitati, e vuole far avanzare il processo, il fatto che Bruxelles ogni tanto intervenga è, invece, positivo.

Sovranità? Parliamoci chiaramente. Dopo l’ultima guerra mondiale l’Italia era un paese agricolo e distrutto, di cui otto abitanti su dieci non parlavano la lingua. Si è ricostruita, diventando in vent’anni la settima potenza industriale al mondo, grazie ai fondi del Piano Marshall. Quei soldi, però, non sono arrivati gratis. Il debito lo abbiamo pagato con la cessione a Washington di quote ampie di sovranità. Capita la stessa cosa negli stati federali: si concede qualcosa al centro in vista di un bene maggiore.

Personalmente, credo che se il nostro baricentro stesse a Bruxelles e non negli Stati Uniti avremmo solo da guadagnarci. Nei tempi grami che ci attendono, la nostra liretta non sarebbe stata in grado di garantirci benessere. Per cui, bene ha fatto Von der Leyen a mandare un segnale. Tanto, poi si può sempre precisare. Noi, invece, dovremmo assumerci la responsabilità di non mandare in Parlamento i soliti pifferai da quattro soldi, ma chi ha mostrato di volersi assumere le responsabilità di quello che ci aspetta. Buon voto a tutti.

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Una centrale nucleare: assieme al gas, l'atomo è entrato nella tassonomia green dell'Unione Europea
ambiente, politica, sostenibilità

Perché gas e nucleare non possono entrare nella tassonomia green

L’approvazione da parte del Parlamento Europeo della tassonomia è la risposta sbagliata a un dubbio legittimo, quello sul massimalismo ambientalista riguardo alla transizione ecologica. Il documento è l’elenco delle fonti finanziabili sotto la voce di iniziative “verdi”.

Del nucleare possiamo parlare, ha il problema delle scorie ma aiuta (non l’Italia, che ha perso il treno, complici due referendum tenuti a ridosso dei disastri di Chernobyl e Fukushima: nel primo caso volutamente, nel secondo per sfortuna). Ma, il gas, verde non lo è davvero. Certo, la transizione ecologica non si fa col massimalismo, e (ancorché progressivamente ridotto) assieme all’atomo è necessario a decarbonizzare e contrastare il cambiamento climatico; ma non è la tassonomia il documento giusto per affermare questo concetto.

Mischiare le carte facendo ciò che conviene alla bisogna, creando documenticchi ibridi privi di impatto toglie credibilità alle istituzioni europee: che, ancora una volta, vengono percepite come prone alle lobby. A sguazzarci saranno le aziende (e i gestori finanziari) che venderanno i propri portafogli definendoli green. Non a caso, alle fiere di settore, buona parte della comunicazione è ormai da mesi incentrata sulla sostenibilità. A questo punto, non resta che affidarsi alla stampa: sperando che non si accontenti delle veline, e si metta a fare inchieste per stabilire, di volta in volta, dove sta la verità.

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milano, politica

Cherchez l’ami

Non c’è da esultare molto se vinci con il 60 % dei voti, ma alle urne si è recato meno del 50% degli aventi diritto, dato più basso di sempre a Milano. La sinistra ha tradizionalmente più potere di mobilitazione; il resto dei meneghini ha deciso che non valeva la pena perdere un quarto d’ora di vita per scegliere chi sostenere tra l’offerta politica di questo 2021.

E come dar loro torto. Con un avversario all’altezza sarebbe stato ballottaggio sicuro. Ma uno come Albertini, di prendere ordini da Salvini non ne ha voluto sapere. E infatti ha salutato, simpaticamente addossando la responsabilità alla consorte.

Con Sala vince l’idea di città internazionale ma poco attenta alla spina dorsale di lavoratori, quella delle settimane della moda ma anche del vino, del coniglio, del design, dello spritz (scegliete un sostantivo e cercatelo nel calendario: probabile che lo troviate). La città che non si ferma, quella degli Ambrogini alla Premiata multinazionale del marketing Ferragni / Fedez e dei progetti di riqualificazione tutti diversi eppure tutti uguali perché senz’anima (dov’è il rispetto delle identità dei quartieri, se fai sempre la stessa cosa da Loreto a porta Romana?).

Quella che spinge fuori i poveri per attirare manager e fondi di investimento. Quella che accontenta i proprietari immobiliari, felici degli aumenti folli dei valori perché guadagnano senza muovere un dito (si chiama rendita).

A Roma, dice il resoconto di un convegno recente, i palazzinari già esultano per la candidatura all’Expo 2030: il valore degli immobili è dato in salita, e si sono messi a fare i conti nei giorni scorsi, guarda caso poco prima delle elezioni.

Milano, naturalmente, da prima della classe le sue Olimpiadi le ha già. Quelle invernali. Peccato che nessuna città al mondo li voglia, i giochi, perché durano due settimane, costano miliardi, e di solito lasciano cattedrali nel deserto, come ben sappiamo qui in Italia. Non solo. A Milano la neve non c’è. Se il profeta non va dalla montagna, sarà la montagna a venire al Duomo, devo aver pensato a Palazzo Marino. Oppure è il solito marketing.

Insomma, chi, come chi scrive, ha il cuore che batte a sinistra (e conosce il mondo reale, non quello delle ztl) stappa una bottiglia per la fine dell’ondata sovranista. Ma tiene gli occhi aperti. Cherchez la femme, dicono i romanzi polizieschi. Qui bisogna cercare i finanziatori. “Non ho chiesto e non ho ricevuto – ha detto Sala – diciamo che godo di tanta stima e quindi ho amici e conoscenti che in trasparenza aiutano nella campagna, però l’ho fatto volontariamente, perché credo che l’indipendenza passi anche attraverso quello. Io non chiedo soldi ai partiti”. Da oggi, io direi cherchez l’ami.

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expo, milano, politica

Perché non ho votato Sala

Quando lo incrocio dal vivo a qualche evento, Beppe Sala non riesce proprio a non essermi simpatico. L’ho visto in azione a Expo, quando ha salvato praticamente da solo una manifestazione che sembrava condannata al fallimento tra ritardi, appalti truccati, infiltrazioni mafiose. È arrivato agli sgoccioli, e ha fatto quello che era necessario per condurre in porto l’esperienza: senza fare domande, e anche mettendo firme dove sarebbe stato meglio controllare. Ma un grande manager si riconosce da questo: finisce il lavoro per cui è stato assunto. Altrimenti non lo accetta.

Non solo. Ricordo bene la sensazione del primo giorno. Cielo plumbeo, viali semidedeserti, la cerimonia inaugurale con le sue scontate passerelle politiche che sembrava l’anticamera di un disastro annunciato e, finalmente, giunto a compimento.

Come è andata, invece, lo sappiamo. Expo è stato un successo. Dopo il primo mese di rodaggio, la gente ha cominciato ad arrivare. A luglio era tanta, a settembre per i viali non si camminava, a fine ottobre era impossibile vedere più di tre padiglioni in una giornata. Escluso, ovviamente, quello del Giappone, che da solo richiedeva otto ore di coda. Per saltare le file qualcuno arrivò a presentarsi con un passeggino riempito da un bambolotto.

Cosa era accaduto? Fu messa in piedi una campagna di marketing poderosa. Tra accordi con supermercati che fornivano biglietti scontati e un lavoro incessante di creazione del buzz, il passaparola, su social media e blog, la voce si sparse in fretta. Si crearono tormentoni come il già ricordato Giappone che divennero virali.

L’incremento di pubblico fu esponenziale. La macchina comunicativa aveva fatto il suo dovere. I conti erano salvi (più o meno, ma non era colpa di Sala). La manifestazione, però, però divenne invivibile. La situazione era sfuggita di mano. Tra i padiglioni, letteralmente, non si respirava per la calca. Scesero in campo le associazioni dei consumatori: perché vendere così tanti biglietti se uno poi non può vedere nulla? Avevano ragione.

Erano gli anni del renzismo, e il capo fu generoso nel ricompensare il manager , appoggiando la candidatura di Sala a sindaco di Milano. Sembrava l’uomo giusto per proseguire il discorso di una città internazionale, aperta e rampante. Fino al Covid, il capoluogo lombardo era una città da copertina, l’unico posto in Italia dove la crisi del 2008 2011 era davvero passata. Tutti volevano Milano.

Poi arrivò la pandemia. E si vide che durante la crisi, in città non erano restati i manager internazionali o gli expat strapagati che tornavano attirati unicamente dal regime fiscale favorevole. C’erano i panettieri, i baristi coi locali chiusi, gli operai, i cassieri, gli impiegati delle poste da 1200 euro al mese. Quelli che hanno fatto funzionare Milano anche quando avrebbe potuto, e in parte lo è stata, trasformarsi in un deserto.

Arrivo al punto. Qualcuno dice che c’è una scelta: o la città internazionale, “attrattiva”, o la città disegnata per chi ci vive. Terza possibilità, questa la tesi, non è data. Con Sala, Milano ha scelto la prima. E dimenticato la seconda. Affitti alle stelle, un centro senza vita, periferie dimenticate da cui il Duomo dista ben più dei sette chilometri indicati sulla mappa. Se ne accorse persino l’Economist, non certo un giornale di sinistra, con un articolo a gennaio 2020.

La speculazione edilizia ha innescato una spirale difficile da contenere. La gentrification fa sì che anche alcune periferie stiano diventando patrimonio dei ricchi mente i poveri sono confinati nei soliti quartieri (Barona, Corvetto, Quarto Oggiaro, Bovisa). La politica ambientalista del “tutto subito” (ah! ancora il marketing) ha costretto tanti a cambiare auto senza alternative valide a livello di trasporto pubblico . I negozi di quartiere stanno chiudendo uno a uno, sostituiti da catene. Gli scali ferroviari, progetto bandiera di riqualificazione , sono stati disegnati come usa adesso: tutti uguali, nonostante gli architetti siano diversi. Il solito modello internazionale buono per tutte le stagioni, a base di vetro, acciaio e boschi verticali. Persino i tram cambieranno, in peggio. Aggiungete l’Ambrogino d’oro alla Ferragni e il cocktail è pronto.

Sala ha fatto il politico come faceva il manager. Non è colpa sua, è il suo DNA. Il marketing davanti a tutto per attirare gli investitori, il resto arriverà. A Expo esagerò. A Milano è accaduto lo stesso. Lo slogan che ha sintetizzato la visione è quel “Milano non si ferma” ripetuto in piena pandemia che mostra quanto la percezione del sindaco fosse slegata dalla realtà. Fuori i bar cinesi erano chiusi e la città aveva paura: ma guai a mostrare la verità. Par condicio : anche l’aperitivo di Zingaretti è stato una cagata mostruosa, per dirla alla Fantozzi.

Sala continuerà a essermi simpatico dal vivo; meno, quando lo vedo sui manifesti in cui si alterna tra Obama e i vecchietti del circolino. Con ogni probabilità vincerà senza problemi. Più per incapacità del centrodestra di trovare candidati, per gli scandali da fan page, per il fatto che le carte ormai (purtroppo) le dà Salvini che per meriti propri. Ma io non l’ho votato. Milano ha bisogno di altro, e di pensare ai suoi cittadini prima che agli investitori e alle copertine. A quelli che ci vivono davvero, non ai bocconiani pronti a lasciarla in cerca del regime fiscale migliore, fosse anche in capo al mondo. Insomma, consideriamo le alternative. Leggiamo le interviste. Valutiamo i programmi. Ci sono ottimi candidati anche a sinistra che non hanno foto con ex presidenti ma hanno molto da dire da dare. Diamo loro una chance, anche solo di far sentire la propria voce. E buon voto a tutti.

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politica

Perché la vergogna di Genova non è la morte di Giuliani

Se a vent’anni avessi corso contro una camionetta dei carabinieri assediata dalla folla, incappucciato e brandendo un estintore, dico, se fossi stato io a correre con quell’arnese contro una jeep finita in un cul de sac e un coetaneo impaurito mi avesse sparato per difendersi, allora mia madre, mio padre e i miei amici avrebbero dovuto darmi del pirla, non chiamarmi eroe. Quella del G8 era una piazza bella, con rivendicazioni giuste, che vent’anni dopo sono state fatte proprie dalle destra, mentre la sinistra non disdegna di strizzare l’occhio alle multinazionali. Gente come Giuliani l’ha rovinata.

Era un ragazzo, certo, ma, spiace dirlo, è stato vittima di sé stesso, non di Placanica. La vergogna del G8 non è stata la sua morte, in conseguenza di una escalation violenta che che lui per primo ha contribuito a innescare; sono stati i black bloc, che hanno messo a ferro e fuoco la città, e il blitz alla Diaz, con le coperture politiche che hanno impedito a lungo di fare giustizia. Il resto è retorica buona per raccattare qualche applauso, o qualche voto. (Qui c’è un’intervista recente a Mario Placanica, “Sparai al G8 a Carlo Giuliani, da 20 anni vivo una prigione infinita).

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politica

Chi rappresenta il PD?

(Questo post è stato pubblicato su Facebook il 5 marzo 2021)

Zingaretti si è dimesso, e a me, pensando alla successione, viene da chiedere: che cos’è la sinistra oggi? È quella degli statali, degli insegnanti, dei dipendenti pubblici? Forse. È quella dei boschi verticali e delle ztl? Può darsi. Oppure è quella delle fabbriche e delle periferie? Non più, dato che nei sobborghi trionfa la Lega. Sicuramente, non è quella delle partite Iva, dei precari. Il partito è pieno di correnti, ma, interagendo qui su Facebook con chi ha la bontà di commentare i miei post, mi rendo conto che la politica capitolina è solo lo specchio della realtà. Che è polverizzata.

A nessuno piace rinunciare al vessillo con cui si è cresciuti, alle bandiere, ad alcuni temi cari – dall’antifascismo ai diritti civili. Ma sull’economia – quella che per molti è la misura della serenità, e che spesso ci fa votare per questo o quello – noi di sinistra la pensiamo tutti in maniera profondamente diversa. Tutelare i privilegi è di destra o di sinistra? E quali sono, questi privilegi, nel duemilaventuno? Avere un lavoro fisso lo è? Le malattie pagate sono un benefit? Una pensione? E ancora: la meritocrazia è di destra o di sinistra? E fare impresa? E aprirsi un’attività autonoma quando non c’è lavoro?

Lo capisco, che a Roma ci sia confusione. Ce n’è anche nella testa di di noi semplici cittadini che crediamo ancora di appartenere a quella famiglia politica, nel momento in cui ci guardiamo attorno e, invece, ci riconosciamo in concetti che, fino a poco tempo fa, pensavamo appartenere ad altri. Non invidio chi verrà dopo Zingaretti. La digestione delle categorie del Novecento è ancora lunga.

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economia, politica

Porte girevoli

Se riuscite a recuperarlo, leggete questo articolo di Stefano Feltri su Domani. Il tema sono le carriere che troppo facilmente dalla politica proseguono verso il settore privato. L’ultima caso è quello di Marco Minniti, ex ministro dell’Interno e sottosegretario con delega ai Servizi Segreti, fino a due giorni fa parlamentare . Minniti si è dimesso ed è passato però da pochi giorni a Leonardo (ex Finmeccanica, molto attiva nel comparto militare), dove guiderà una fondazione attiva nella promozione dei rapporti tra Mediterraneo e Medio Oriente, insomma, più o meno le stesse aree del mondo su cui aveva lavorato da politico. Riporto un estratto, che sintetizza la questione. “I Cinque Stelle hanno imposto il tema della ‘casta’, convinti che conquistare una ‘poltrona’ fosse il punto di arrivo di una carriera, la garanzia di uno stipendio alto e privilegi. Ma dai tempi dei Vaffaday del M5s le cose sono cambiate: ora un passaggio in parlamento o al governo è una fase transitoria per accumulare relazioni e informazioni che poi verranno ben remunerate dal settore privato“. Non è l’unico. Non è ora di affrontare il fenomeno apertamente e provare a regolarlo, come si sta cercando di fare con le lobby?

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