coronavirus, cronaca, giornalismo

Milano, cronache dal fronte / 14

Le voci dei bambini per strada, il rumore delle auto, la fila di fronte alla banca, i duecento scontrini in un giorno del panettiere sotto casa, gli anziani stanchi che trascinano le membra intorpidite sulle panchine per godersi un raggio di sole, i runner in mascherina, la mamma che disegna una campana sul marciapiede con i gessetti e insegna al figlio di tre anni a giocarci mentre mi affaccio in balcone. L’odore del caffè di fronte a un bar, girarsi e sorprendersi di trovarlo aperto, la bellezza delle vetrine di un antiquario – ebanista – mobili antichi che non avevo mai notato. L’edicola che è rimasta aperta tutto questo tempo. La pila di giornali e libri sulla scrivania, le serie che abbiamo consumato, le birre che abbiamo ingollato, le cene luculliane che abbiamo preparato. L’ora di fila per fare la spesa, e la sera che non scorderò mai: domenica 23 febbraio, supermercato, negli occhi il terrore, la paura, la diffidenza, l’aria pesante, lunare, sembrava un film. Ed era tutto vero. I risvegli la mattina, aprire gli occhi come hai fatto per una vita, pensare alla colazione, all’acqua fredda, e poi ricordarsi, dopo un minuto, di cosa c’è là fuori. Le strade deserte, il duomo, l’odore di disinfettante ovunque, il terrore nella metro. I poveri per strada, scheletri che vagavano da un cestino all’altro alla ricerca di cibo. Le liti, la frustrazione, le riconciliazioni. L’ammasso di notizie che ripetono sempre le stesse stronzate, lo schifo dell’informazione che cerca di far quattrini pure sulle tragedie, gli sciacalli che vendono mascherine, test e notizie senza riguardo per chi sta dall’altra parte. I libri che ho letto, i giornali che ho conosciuto, i rapporti che si sono stretti – paradossale – quando non era possibile vedersi, e quelli che si sono allentati e si perderanno – e andrà come doveva andare. I matrimoni rimandati, le feste saltate, gli aperitivi in video. Le notizie da Bergamo, i volti degli anziani, le immagini strazianti delle bare portate via dai camion militari. Gli infermieri, i medici, il personale sanitario.

Non so se ci sarà una ricaduta, se il virus tornerà a far male come a marzo. Ma so che una fase si è chiusa, ed è giusto . Le “cronache dal fronte” finiscono qui. Non c’è più bisogno di un cronista che vi racconti come va là fuori. E’ stato bello farlo, confrontarci, dividere le ore e le emozioni di questi giorni. Ma adesso il faut vivre, bisogna tornare a vivere.

( vi lascio con il pezzo migliore che ho letto su questi due mesi di virus in Lombardia. Lo ha scritto, con raro equilibrio, il Post).

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Milano, cronache dal fronte / 13

Sono uscito qualche volta per documentare il disastro del Covid, forse invidiato da qualcuno per il lasciapassare giornalistico. Si sbagliava. Ciò che si mostrava agli occhi del cronista era l’anticamera della morte. Dov’è finita tutta quella gente, mi chiedevo, aggirandomi nelle vie spazzate dal vento, in certe giornate uggiose come Milano sa regalare. Non dentro ai palazzi, non è possibile siano tutti lì, alle finestre non c’è nessuno. Sembrava l’indomani di un disastro nucleare. E invece erano dentro, i compagni di sventura, rintanati al chiuso di appartamenti stretti e pensieri circolari.
Povera mente umana che si abitua a tutto, anche al dolore, fino a farne dimora. Si diventa avvezzi persino alla mancanza di piacere, come creature che per sopravvivere si mimetizzano e imparano a rallentare impulsi vitali e battiti del cuore. Quanto sembrava lontana la città che si specchiata negli aperitivi.


Se mi giro indietro, mi sembra incredibile ciò che abbiamo vissuto. E un po’ – lo confesso – mi spaventa. Lo spettro della morte in ogni telegiornale, ambulanze a sirene spiegate come sveglia, sguardi terrorizzati in fila al supermercato, che col passare delle settimane si sono spenti in occhi rassegnati, stanchi.


Qualcosa è cambiato. Oggi, per strada, si sente di nuovo sbuffare il motore delle macchine. L’ottico non venderà nulla, con tutta probabilità, ma prende posto ugualmente nel laboratorio sotto casa. I rider scorrazzano pacchi e pizze legandosi le casse alla bici e sparando musica a tutto volume (pare sia questa la nuova moda). Ma quello che mi colpisce sono le voci dei bambini. Sono loro che stanno riportando una parvenza di normalità e colore in un mondo rattrappito, in cui la linfa ricomincia a scorrere. I genitori li accompagnano negli scarni cortili di città per godersi, finalmente, qualche sprazzo di gioco e caldo. E le voci cristalline si mischiano come se nulla fosse accaduto. Magari è un’impressione, in fondo non sono esperto di poppanti. Chissà se ricorderanno questo periodo strano, se la memoria conserverà traccia della clausura forzata, o il tempo scorrerà e sciacquerà i panni. E chissà cosa rimarrà a noi adulti. Di certo, mi ripeto, dobbiamo sforzarci di uscire dal letargo. Tornare a prenderci il rischio di vivere davvero. Al di là delle videochiamate, con la consapevolezza che una generazione che non ha avuto guerre dovrà combattere ancora una volta. Contro il nemico invisibile della recessione.

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Milano, cronache dal fronte /12

Un’app per tracciare il contagio. L’ha sviluppata Bending Spoons, software house milanese di livello mondiale, in collaborazione con il Centro Medico Santagostino, noto per aver martellato sin dall’inizio dell’epidemia sull’utilizo dei test sierologici. Che però, non sono validati. Ma sorvoliamo, non vorrei ripetermi.

Personalmente, non sono incline a scaricarla, e mi pongo alcune domande. Quali sono stati i criteri utilizzati per decidere la proposta vincitrice? Non sono riuscito a trovarli, ma magari è colpa mia. La seconda: ho parecchie perplessità lato privacy. Le avrei a prescindere: ma cosa c’entra esattamente un centro diagnostico il cui business è, per definizione, la salute con un’applicazione che della riservatezza dovrebbe fare la priorità, peraltro realizzata da gente che le app le sa fare anche da sola? Terzo: non si può obbligare a scaricarla, ma si propone di limitare la mobilità di chi non ce l’ha. A me non piace, e non sono neanche sicuro che sia legale.

L’articolo del Fatto Quotidiano che riporto qui dà conto di una mossa che mi sembra più una trovata pubblicitaria che altro. Spiace che il Governo ci metta la firma. E peccato che quasi nessuno si sia posto queste domande sulla stampa

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Milano, cronache dal fronte /10

Ripropongo questo pezzo scritto 20 giorni fa solo per ricordare tristemente che, da allora, poco è cambiato. Quasi nulla. Mi sembra, piuttosto, che il dibattito sui test sierologici (che, lo ripeto, non sono ancora sicuri) sia finito italicamente a tarallucci e vino. Insomma, siamo alle solite: una bugia ripetuta mille volte che diventa verità. Vogliamo uscire di casa e aspettiamo il miracolo; pazienza se rischiamo di infilarci in un guaio più grosso di quello che vorremmo lasciarci alle spalle. Molti sciacalli (imprenditori e politici amici) non aspettano altro che speculare sul coronavirus: ai tempi, si era lanciata solo la Toscana. Quasi un mese dopo si sono aggiunte altre regioni, tra cui la Lombardia. Ma se i test attualmente in commercio sono offerti a dieci volte il valore, se possono scambiare un raffreddore per Covid e se, soprattutto, non garantiscano alcuna “patente di immunità”, (espressione giornalistica peraltro orribile), meglio farne a meno. In UK, dove c’è ancora un giornalismo serio e capace di fare ammenda, anche media come il Times – che li hanno difesi da principio – hanno cominciato a porsi delle domande. A chi fosse interessato posso mandare gli articoli. Preciso che il governo di Londra ne ha comprati 17 milioni. E dovrà forse cestinarli.
L’unica parola da cercare negli articoli quando si parla di questi esami è “validazione”. Provateci: non la troverete. Potrà arrivare anche domani, e ne saremmo tutti felici. Ma, se mancasse, saremo in presenza di una truffa bella e buona. Punto. Serve altro?

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Milano, cronache dal fronte / 9

Ogni volta che lo intravedo, Bernie Sanders è capace di emozionarmi. Come Pepe Mujica, ex presidente del l’Uruguay. O come certi grandi del nostro passato, a partire da Pertini. Dieci milioni di donazioni da 18 dollari l’una in media: questo il budget della sua campagna per contrastare le corazzate multimiliardarie di candidati ricchi e potenti, e garantire sanità a tutti. In un paese dove il denaro sembra essere la misura di tutte le cose, figure del genere sono rare. Anche altrove, mi viene da dire.

Non è andata bene, forse bene non poteva andare; ma è stato bello assistere alla corsa di un anziano diventato idolo dei giovani. Un uomo che, invece di cedere al cinismo e al disincanto dell’età, in una sorta di processo machiavelico al contrario, con gli anni è stato capace di osare sempre più.

Sanders ha mostrato che le collusioni col business peggiore, di cui la politica sembra non potere più fare a meno, non sono una necessità, ma una scelta. E che anche il cinismo lo è. Apprezzo Conte e la sua capacità di rassicurare il paese, ma un uomo come Sanders, col suo carico di primavere, aiuterebbe in questo momento.

A Milano qualcosa comincia a muoversi. Un ferramenta che torna ad aprire, una signora anziana che fa la spesa e sorride nel negozio sotto casa, un runner che corre. Danno una parvenza di normalità, assieme al sole di questi giorni. Ma inutile negarlo, la clausura pesa. Sul morale, sul fisico. I dati sono confortanti ma non basta. A volte c’è bisogno di una figura a cui ispirarsi.

Intanto, certa stampa (e l’opinione pubblica) continuano a insistere sui test sierologici. Peccato non siano ancora validati, quindi non sicuri. Il Times di Londra (il Regno Unito ne ha acquistati tre milioni), dopo aver approfondito, è arrivato alla conclusione che non fare nessun test è meglio che usarne uno che sbaglia, anche solo del 5%. La matematica dice che potrebbe significare mandare in giro come “sani” centinaia di migliaia di individui che non lo sono. Evidentemente non è sufficiente. Auguri.

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Milano, cronache dal fronte / 8

In questi giorni di donazioni e donatori, mi viene da pensare che è facile – certo, anche costoso, quando l’assegno staccato è da dieci milioni– sentirsi più buoni. Ma, come dice il proverbio, se dai un pesce a un uomo mangerà un giorno, se gli insegni a pescare lo sfamerai tutta la vita.

Finita l’emergenza l’economia dovrà ripartire. Ma credo che la generosità nei confronti del Paese debba manifestarsi in un lasso di tempo più lungo, e, soprattutto, che allo sforzo debbano partecipare tutti. Piaccia o meno.

I soldi non può metterceli solamente lo Stato, indebitandosi e scaricando il peso della crisi sulle generazioni future. Toccherà a tutti rinunciare a qualcosa, in proporzione a quanto posseggono, e darsi da fare per ripartire.

Vanno incentivate le attività produttive, non patrimoni e rendite. Se anche ci fosse un prelievo forzoso dello “zero virgola” e una tassa di emergenza su seconde, terze e quarte case non ci vedrei nulla di male. La vita e il sistema economico distribuiscono senza equità, spetta ai governi correggere le storture.

Dubito che un pensionato con la minima si lamenterebbe se gli prelevassero cinque euro (l’uno per cento) dal conto corrente per aiutare chi ha ancora meno. Forse perché conosce la fame. Perché lo stesso discorso fa storcere il naso a parecchi che poveri non sono? Su certa stampa sento parlare di “furto”. Rimango basito.

I denari raccolti, naturalmente, non vanno sprecati. Dovranno servire a investire in ricerca, istruzione, riqualificazione professionale, infrastrutture: roba che fa crescere sul lungo periodo, e non certo solo a dare sussidi, pur sacrosanti in certuni casi.

Un po’ di aggiornamento professionale farà bene a tutti, e serve anche al Paese. Linea dura: chi si tira indietro è fuori da tutto.
Vi piace questo discorso? Bene. Ricordatevene quando il prossimo venditore di tappeti proverà convincervi che esistono soluzioni semplici a problemi complessi. Ripartire non sarà facile, ma certo non è impossibile sfoderando un’arma preziosa a tutte le latitudini, il senso della comunità a cui tutti, nessuno escluso, apparteniamo.


A Milano, intanto, i contagi non diminuiscono ed è arrivato il caldo.
La primavera prende a mostrarsi sugli alberi, le nuove spiagge sono i balconi.

Alle spalle c’è un inverno che non è stato inverno, di fronte c’è un’estate che non sarà estate. Poco male, anche questa è vita. Ma il valore di un giorno dipende da quanti ne hai davanti. Non è lo stesso per gli anziani, non è lo stesso per i malati. Ho letto di sei pensionati beccati a giocare a carte in un bosco nel Varesotto. Non è la cosa giusta da fare, ma vanno compresi. Cerchiamo di essere indulgenti con le debolezze altrui: la ruota, prima o poi, gira. Per tutti.

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