giornalismo, internet

Chat Gpt, gli Nft e i giornalisti

Dico la verità: questo Chat Gpt mi fa paura. La risposta ai dubbi su come cambierà il giornalismo e il content writing (no, non sono la stessa cosa, anche se il dubbio non è peregrino) potrebbe venire dagli Nft. Il primo tweet, il primo sms, le azioni più belle del calcio e del basket sono già  stati venduti per centinaia di migliaia di dollari. Ci sono persone che portano al polso, sullo smartwatch, mere immagini di diamanti pagate come fossero veri. Per non parlare delle opere d’arte: possono vederle tutti, ma la proprietà resta di uno solo. Insomma, l’Nft ha molto a che fare con l’attrazione psicologica per l’esclusività, la stessa degli status symbol.

Lo stesso, immagino, potrebbe accadere per i contenuti: la maggior parte di quelli che si producono oggi sarà agevolmente sostituita dal chatbot, e credetemi sta già accadendo; il negozio all’angolo non si affiderà più ai freelance, e chi di questo vive farebbe bene a preoccuparsi. Ma assumere un autore significherà tutelare dei panda in via di estinzione; e poterlo affermare, magari linkando il contenuto in questione a una biografia che dimostri che l’autore esiste in carne e ossa, potrebbe aggiungere un certo valore, un po’ come accade oggi per le certificazioni green. Immagino, naturalmente.

Non solo. Difficilmente una grande azienda rischierà un danno reputazionale affidandosi a un algoritmo. Ricordiamo la disastrosa campagna di Dolce e Gabbana in Cina di qualche anno fa: ve la  immaginate una maison che fattura miliardi scusarsi dicendo che è tutta colpa di un bot? Per non parlare delle fintech, insurtech, che agli algoritmi già oggi si affidano massicciamente per maneggiare enormi somme di denaro: se ti affidi al bot per risparmiare le fatture da qualche migliaio di euro di un content writer, come posso essere certo che i miei risparmi siano al sicuro?

L’umano, a conti fatti, potrebbe essere insostituibile. Se non altro come capro espiatorio.

Veniamo al giornalismo. Qui il problema è più complesso. Come suggeriva qualche giorno fa Federico Rampini, un professionista ha le sue fonti, anche segrete, fa inferenze, insomma ha un ancora qualcosa in più. E poi c’è l’allure, la pipa, il sigaro, il cappotto e le clarks.  ChatGpt, sosteneva Rampini dopo averlo testato, fa lavori discreti, che funzionano bene per l’80% dei contenuti, ma non per tutto.

Per i professionisti dell’informazione, il tema della validazione assume ancora più valore: chi garantisce? Il giornalista in carne e ossa è responsabile di quel che scrive, il bot no, e anche se lo fosse, sarebbe poca cosa multarlo, dato che i problemi di vil denaro non lo toccano. Al massimo, si può pensare di staccargli l’alimentazione.

Ribadisco, questo Chat Gpt mi fa paura. Ed è un dovere guardare alla nostra professione da qui a dieci anni, per chiunque viva di parole. Ma credo che, almeno la mia generazione, proverà a difendersi. A scovare i limiti di queste applicazioni, a creare riserve protette. Magari il successo non arriderà ai nostalgici, ma pazienza, in fondo conta darsi uno scopo. Per le generazioni che ancora devono nascere, il discorso è più complesso. Nel ’96 la pecora Dolly fece pensare che saremmo scivolati nella manipolazione genetica di massa. Non è stato così. Ci siamo dati dei limiti. Forse il punto, uno dei punti, è questo: non rassegnarsi a raccogliere per buono tutto quanto ci viene propinato come tanti boccaloni con la bocca spalancata. Meglio esercitare il nostro diritto di scelta, e tenere alta l’attenzione, sapendo anche rinunciare a qualcosa quando è chiaro che non può farci bene. Quel momento non è ancora arrivato, ma meglio non illudersi.  (foto: Getty Images)

Pubblicità
Standard
L'apertura del New York Times relega la sparatoria in secondo piano.
cronaca, esteri, giornalismo, media

La (solita) corsa al clic

Giornalismo è dare delle priorità. Un uomo spara in metro a New York: tutti i media italiani ci fanno le aperture. Capisco poco, forse ci hanno capito poco pure loro. Pare non sia terrorismo. Vado sul sito del New York Times: apre con la guerra in Ucraina. La notizia della sparatoria devo cercarla scrollando.

Ognuno tragga le conclusioni che vuole. La mia è che la corsa al clic, quella che abbiamo conosciuto col Covid e i vari, irrinunciabili casi di cronaca, ha colpito ancora.

Standard
giornalismo, internet, media

Due o tre riflessioni sul giornalismo digitale al tempo del Covid

La crisi pandemica ha avuto qualche effetto positivo, oltre alla tragedia globale delle vittime del Covid. Non sembri blasfemo, a volte è necessario cercare di guardare il bicchiere mezzo pieno per affrontare tempi difficili, pur evitando di gli eccessi dell’ottimismo a priori (che, osservava qualcuno, è un’arma di difesa essenzialmente tragica: vi si ricorre quando ogni tentativo razionale di spiegare un fenomeno è andato a farsi benedire).

Parlo di giornalismo, perché è il settore che conosco meglio.
Qualche premessa. Internet, non è una scoperta, ha cambiato completamente l’approccio all’informazione. Innanzitutto, non si parla quasi più di articoli ma, genericamente, di “contenuti”. Un calderone dove si può infilare tutto, dal tweet griffato alla foto d’autore allo screenshot rubato dal cellulare di un passante che lo ha pubblicato sui social media senza curarsi di impostare la privacy. Ciò è dovuto in buona parte al fatto che la metrica fondamentale con cui si valutano le performance di un sito web è quella delle pagine visitate: e dato che ogni “contenuto”, con un adeguato lavoro di “cucina” redazionale, può equivalere a una pagina, si assiste a una frammentazione che, peraltro, ben si sposa con i ritmi e le esigenze di una vita sempre più frenetica.

Il concetto di informazione si è lentamente imbastardito inglobando quello – uso un termine inglese tipico dell’ambito business non a caso – di entertainment, intrattenimento. Cellulare alla mano, dieci applicazioni aperte contemporaneamente, più un paio di giochini, si salta da una finestra all’altra con l’unica guida di ciò che colpisce di più l’attenzione; che, a questo punto, diventa essenzialmente visuale. A quel punto, ci si ferma per dieci secondi, esattamente il tempo per leggere un titolo, o un tweet, notare un brand di pubblicità, e il gioco ricomincia.

In questo modo, si è progressivamente persa la visione di insieme. Direi a livello sociale. Il cervello è una macchina che si atrofizza se non usata, e chi scrive appartiene alla generazione a cui veniva vietata la calcolatrice. Insomma, ricordo come si fa una divisione a mano.

Sostanzialmente, il pubblico si è abituato da anni a assumere la realtà in microdosi: poco efficaci per curare una malattia, chiamiamola così, quale l’ignoranza. Ogni argomento viene spezzettato. È come assumere un frammento di pastiglia al giorno: quale cura funzionerebbe?

In un’epoca non troppo lontana, non era raro incontrare ferrovieri con la quinta elementare e una cultura sindacale e di diritto del lavoro da far presumere ben più blasonati studi. I cretini laureati, dal canto loro, ci sono sempre stati; ma, francamente, ne giravano meno.

Torniamo a noi. Il modello di business per le aziende editoriali – che, va detto, non sono opere di carità – si è dovuto adeguare. Anche perché, e qui ritorniamo all’attenzione, per catturare l’interesse del lettore ha assunto sempre più importanza il ruolo della “firma”. Leggere un articolo di Gramellini, di Mattia Feltri, o degli altri bravi colleghi che scrivono in prima pagina vale il prezzo del biglietto, come si suol dire. Queste grandi star del giornalismo portano lettori e si fanno pagare di conseguenza, incidendo non poco sui bilanci.

Chiaramente, l’esempio più illustre è quello di Vittorio Feltri, capace di creare un personaggio e persino un giornale a propria immagine e somiglianza. Alzi la mano chi ha letto un articolo di Libero oltre agli editoriali: pochi. E, in certi casi, non sono neanche scritti male. Il punto, però, è un altro: quel quotidiano si compra più che altro per la figura del direttore. Il resto conta poco, e lo si cerca, di solito, altrove. Non parliamo degli epigoni, da Sallusti a Belpietro: una progenie che si limita più che altro a riprenderne le pose.

Nelle redazioni si è creata così una divisione estremamente netta tra grandi firme strapagate (ci sono anche dei giovani, anche se pochi) e redattori ordinari, con stipendi quasi proletari. Mi riferisco ai nuovi assunti: perché gli anziani godono ancora dei contratti sottoscritti quando le vacche erano grasse per tutti (e la ricchezza meglio distribuita). Ah, i diritti acquisiti. Questi contratti pesano ancora parecchio sui bilanci, anche se gli intestatari, bontà loro, non scrivono quasi più. Il resto dei lavoro lo fanno i freelance, i quali, in molti casi, sono pagati in visibilità e buonanotte al secchio. O poco più.

In queste condizioni, chi ha potuto è corso a cercare gloria altrove. Non in altri giornali, perché la situazione dell’editoria è la stessa ovunque. Mi riferisco a uffici stampa, pr, ma anche posizioni da segretaria in aziende. Ho visto personalmente colleghi dotati cambiare mestiere esasperati per la mortificazione e la frustrazione di non arrivare alla fine del mese dopo 30 anni di onorata carriera, trascorsi anche in testate nazionali.

In un mercato lasciato a se stesso, si è creata la solita polarizzazione. Capita anche nelle aziende. Negli anni Sessanta, un amministratore delegato guadagnava trenta volte un operaio. Oggi diverse centinaia. Chi resta, a queste condizioni, spesso lavora di fretta (“breaking news” è un’espressione inflazionata) e senza maestri, sapendo, peraltro, che l’errore è concesso, perché sul web basta poco per correggerlo. Così, capita che sul primo quotidiano nazionale un omicidio venga definito “killing”, senza che alcun caporedattore lo segni in rosso. Linguaggio da Instagram. Peraltro, il termine inglese sarebbe murder, o manslaughter.

Benvenuti nell’informazione digitale anno domini 2020.
Concludo. In questa accozzaglia, farsi un’idea è diventato sempre più difficile. Se prima bastava leggere un articolo lungo, scritto da un giornalista che teneva alla propria firma e che si era preparato a dovere per cominciare a capire qualcosa, oggi il lettore medio compone il quadro giustapponendo pezzi presi da ogni dove. Un po’ come il personaggio della Nausea di Sartre, che voleva farsi una cultura leggendo il volumi della biblioteca dalla a alla z: quello che conta non è la quantità. E’ la gerarchia.

E veniamo al Covid. La cosa positiva è che la pandemia, dopo uno sbandamento iniziale, ha rimesso in primo piano la competenza, marcando la differenza tra prodotti editoriali di serie a e altri di serie b.

Cominciano ad apparire (e a guadagnare spazio) firme meno blasonate ma più preparate dei tuttologi da prima pagina. Mi viene in mente Sandro Modeo del Corriere. Questo articolo nasce dopo aver letto l’ennesimo suo bel pezzo.

Modeo (ma non è l’unico) scrive articoli lunghi, documentati, precisi ma caratterizzati dallo sforzo di rendere comprensibili concetti ostici. Anche sul web, nel regno dell’effimero.

Si sta (finalmente) superando il concetto che l’articolo lungo non renda. Al contrario. Il longform è quello che ci vuole per spiegare al lettore che l’informazione di qualità va pagata, così come, peraltro, è sempre stato fino a 20 anni fa. E non con i dati. Oggi come oggi, superata la fase in cui abbonarsi al digitale costava parecchio, con pochi euro alla settimana è possibile accedere ai contenuti premium. Credetemi: dopo aver provato, non tornerete più indietro.

I nomi storici hanno cominciato a perdere i lettori più attenti (che spesso fa rima con fedeli) a vantaggio di realtà più piccole ma in grado di guadagnarsi credibilità senza rincorrere l’ultima idiozia, ogni giorno, a tutte le ore, si tratti di Salvini o dei testi sierologici. Niente di nuovo, in fondo: una mensilizzazione, potremmo dire, di una parte del web.

Sono anche nate (o meglio, si sono evolute) forme più raffinate di introiti. Dai branded content (che hanno una propria dignità, quando fatti bene: guardate l’esempio della serie Cocainomics del Wall Street Journal, sponsorizzata da Netflix prima del lancio di Narcos) alle testate che stanno in piedi grazie ai bandi. A volte li emettono soggetti privati, a volte sono aziende, come Google, che ha lanciato numerosi progetti e sta cercando di rifarsi una reputazione dopo essere finita nel mirino dei regolatori e di una parte sempre più consistente di pubbloco. Come sempre, per il lettore, la cosa più importante è sapere con esattezza chi ci mette i soldi: e tenere presente che è difficile parlare male di chi ti finanzia.

Insomma: alla pandemia dobbiamo la prima, e più importante, crepa in quella che era la vera barriera alla transizione digitale: la reticenza del lettore a pagare per i contenuti, a fare il gesto di inserire i dati della propria carta di credito per avere notizie che, credeva, avrebbe potuto avere gratis. Il problema non è solo questo: più spesso di quanto sembri, è una questione di pigrizia (nessuno ama alzarsi a cercare i codici nel portafoglio quando vuole solo leggere un articolo in santa pace), senza contare la paura di frodi informatiche. La nuova abitudine al commercio elettronico sta travolgendo molte resistenze ataviche.

Inoltre, la pandemia – che riguarda proprio tutti, mettendo a rischio il bene più prezioso, la salute – ha reso più chiara la differenza tra informazione di qualità (fatta da persone competenti, dove , come dicono gli anglosassoni, less is more e conta la gerarchia) – e l’accozzaglia di notizie confuse e prive di un reale significato proposta da molti media mainstream.

Al momento si sta ancora seminando, ma penso che manchi poco: i frutti arriveranno. C’è ancora posto per qualcuno sul treno: ma chi ha scommesso due o tre anni fa, riuscendo a restare in piedi nel frattempo, si appresta a raccogliere i risultati.

Anche le redazioni cominciano a cambiare assetto. Qualcuno va in pensione, qualcun altro, si diceva cambia mestiere.

Ogni tanto sui forum della nostra categoria un giovane chiede se fare o meno del giornalismo la propria strada. Personalmente, sconsiglierei. Ma è sempre stato così: solo chi è motivato comincia qualcosa dopo avere sentito tutto il male possibile. Aggiungerei, però, una cosa: se vuoi fare questo mestiere, ragazzo, devi studiare. Tanto. Il tempo del “sempre meglio che lavorare”, se mai è esistito, è finito. Il livello si è alzato: chi non lo ha capisce, verrà travolto. Ci sono, tra i restii al cambiamento, anche tanti padri e madri di famiglia.

La rivoluzione digitale ha impattato sull’editoria scardinando tutto quanto era vero fino a 20 anni fa. Certo, a far da guida, restano i capisaldi dell’etica professionale. Ma il problema, anche per noi che ci lavoriamo, è un altro. È che siamo solo agli inizi.

(Foto di Shutterbug75 da Pixabay)

Standard
giornalismo

Nasce Domani, nuovo quotidiano di De Benedetti

Nasce Domani, un’altra prima volta nell’editoria italiana. E’ uscito oggi il primo numero del quotidiano(online e cartaceo) diretto da Stefano Feltri. Nessuna parentela con il Vittorio di Libero, e se leggete l’editoriale di apertura è abbastanza chiaro. Il campo è quello del centrosinistra progressista e aperto, in America direbbero liberal (e in America Feltri ci è stato, occupandosi di economia con Luigi Zingales, docente della materia e partner di Oscar Giannino nella sfortunata lista Fermare il declino nel 2013). Feltri è stato vicedirettore del Fatto Quotidiano dal 2015 al 2019, ma ha lavorato anche nella squadra di Lilli Gruber per Otto e mezzo dal 2012 al 2014.

“La storia della democrazia liberale si intreccia a quella del libero mercato” scrive il direttore nell’editoriale di apertura. Tanta attenzione alle disuguaglianze, (“non solo di reddito e patrimoni ma anche e soprattutto di opportunità nella vita privata e in quella pubblica”) e alla crisi climatica.

Il modello di business sarà basato essenzialmente sulle vendite, in edicola e online, con un ruolo minore per la pubblicità. La versione online comprenderà contenuti in forma ridotta ma comunque fruibili per i non abbonati, con il riassunto delle notizie in punti, mentre ai sottoscrittori sono riservati i contenuti premium.

Editore, dichiarato apertamente, Carlo De Benedetti, “ma dopo la fase di avvio le azioni passeranno a una fondazione che garantirà risorse e autonomia” scrive Feltri.

Gli investitori pubblicitari del primo numero sono Enel, Trenitalia, Ferrarelle, Edison, Leonardo, Intesa San Paolo: il meglio del capitalismo italiano, significa che i contatti ci sono. 

L’ambizione è quella di non dare solo le notizie di ieri, ma fornire una visione del mondo su quelle di domani (in gergo sociologico, si chiama agenda setting). Tra le pagine, un servizio dedicato ai guai della Lega, gli incendi in California, un commento sulla tragica storia di Willy, la nuova enciclica di Francesco. Le inchieste sono garantite dal vicedirettore Emiliano Fittipaldi e da Giovanni Tizian, cronista de l’Espresso.

Domani mi sembra un quotidiano certamente di sinistra, un po’ ecumenico, forse, ma ambizioso, sicuramente rivolto a chi ha voglia di leggere e approfondire e che trarrà linfa dai lettori. Se non lo compreranno, facile immaginare che la baracca chiuderà in fretta. Non glielo auguriamo, ovviamente, anche perché il direttore dichiara che i giornalisti che collaborano sono assunti. Che dire: non è facile provarci di questi tempi: apprezziamo lo sforzo e auguriamo in bocca al lupo.

Standard
giornalismo, lavoro

Cosa c’è dietro le breaking news

Volete sapere cosa c’è dietro all’informazione dozzinale, quella “di consumo”, quella che per gran parte del tempo leggete e leggiamo?
Benissimo, ve lo racconto.
Sono passati quasi dieci anni. Lavoravo per un grande gruppo italiano di informazione locale online, e avevo appena aperto la sede che, nel piano di business, era prevista per la mia città. Se non ricordo male, doveva essere la trentottesima.

Quella che segue è la cronaca della routine di chi lavora per queste redazioni virtuali. Non posso dire “vive”, in queste redazioni, perché di uffici non se ne parla. Al massimo un coworking, autofinanziato.

Il telelavoro che oggi va di moda era usato a mani basse già all’inizio degli anni Dieci dai pionieri delle news online, quanto il web era un far west e ci aveva pensato la crisi ad abbassare le pretese salariali.

Il mio contratto a progetto per lavorare da casa ammontava a mille euro al mese. So, e lo sapevo anche allora, che nella categoria molti agognano un “fisso” del genere. Ma erano pochi, questi denari, per quello che ci veniva richiesto.

Coworking ante litteram

Non c’era una redazione, dicevamo, ma lavorare da casa era impossibile per ovvi motivi. Così, cerco in ufficio in coworking (siamo nel 2012, non era ancora di moda). Ho la gran fortuna di trovare alcuni colleghi con una scrivania libera. Furono onesti: pagavo solo cento euro al mese per un desk  in centro dotato di connessione internet ultra veloce (lavoravano con i video e avevano investito nella fibra ottica). Il valore aggiunto è stato che, nel tempo, siamo diventati anche amici.

Nota: Il salario reale è già sceso, quindi, a 900 euro.

Testata online, dicevamo. Non era l’unica del territorio. Ce n’erano altre tre o quattro (oggi molte di più).

La giornata del proletario digitale  cominciava alle 9 di mattina, quando bisognava accendere Skype per dimostrare al cerbero che ci controllava da quel di Roma di essere online e operativi. Un caporale frustrato e addestrato a frustrare, evidentemente trattato malissimo dai padroni della baracca e che si rifaceva su chi poteva. Altro che contratto a progetto. Da quel momento, cominciava la corsa.

Piccola digressione per chi non è del mestiere. Come fa un quotidiano ad avere le notizie? Manda in giro una squadra di cronisti, che chiamano tutti i giorni le fonti di polizia, vanno in Comune, a Palazzo di giustizia, si recano sul posto quando ci sono incidenti.
Ma se per avere le notizie c’è bisogno di cronisti, come fa una testata scritta e impaginata da una sola persona a stare al passo?
Semplice: le copia.

Copy-right, ovvero copiare come diritto

Ora, quella di copiare i dispacci delle agenzie di stampa è una prassi comune nell’editoria. Sono fatte apposta, ed è normale, a patto di modificare il pezzo prima di pubblicarlo. Non a caso, una delle prove dell’esame di giornalismo è la sintesi:  rifare l’articolo in maniera preso dalla concorrenza in modo che al lettore sembri originale. Noi ce ne accorgiamo, ma il pubblico no. 

Fare un quotidiano sulla città di Milano, a patto di avere accesso alle agenzie di stampa, non è difficile. Basta selezionare, sintetizzare, e il gioco è fatto. Ci sono così tante notizie dai grandi centri della vita politica, economica e amministrativa che il problema è solo scegliere quelle che interessano. Ma le agenzie costano parecchio, e non sono un investimento alla portata di tutti.

La difficoltà vera sta nel farlo in provincia, da dove l’ANSA, l’AGI, l’Adn Kronos trasmettono poco. I giornali locali, con la loro rete di collaboratori malpagati, ci provano, a fare il loro mestiere. Colleghi giovani (e purtroppo anche padri e madri di famiglia) girano per il territorio a caccia di notizie, consumando suole, benzina e la risorsa più importante per un giornalista, il tempo.

Il nostro caso era diverso. L’investimento era scarso, e si riduceva, sostanzialmente al costo del sottoscritto. E fare un quotidiano in provincia senza investire significa copiare le notizie da chi se le va a cercare onestamente. Ci si basa sulle economie di scala, sul fatto di essere un grande gruppo e disporre di un solido team informatico, che, oltre a creare un sito ben indicizzato, fornisce tutti i dettagli e la formazione sulle procedure SEO per aiutare il ranking. Ragazzi, parliamo del 2012, non di oggi. Otto anni sono un secolo nel digitale. Certe competenze, allora, erano davvero all’avanguardia.  Una sorta di franchising, funzionava più o meno così.

Il controllo delle 9

Sveglia puntata alle 9, il cerbero da Roma decideva di fare un controllo sul collaboratore di turno.
La modalità era questa: cliccare sulle tre o quattro testate online della zona e confrontarle con la home page del sito che ti era stato affidato.  Dovevano esserci tutte. Tolleranza massima dieci minuti, altrimenti avevi preso un “buco”.

Se la concorrenza scriveva, dovevi farlo anche tu. Chi era scrupoloso provava a verificare, ma il diktat era uscire, subito, copiando. Solo che quando la fonte è l’ANSA , puoi andare tranquillo. Se riprendi, invece, la notizia di un collega pagato due euro al pezzo, il rischio di prendere una cantonata e sputtanarti la firma è altissimo.

La corsa all’ultimora qualche volta fregava anche chi aveva più mezzi di noi, che pure eravamo una Spa. Ricordo quando il giornale più noto della zona scrisse che uno stimato sindaco era passato a miglior vita. Era domenica, pomeriggio inoltrato, forse dicembre: mi prese un colpo, non lo avevamo scritto e io mi trovavo, per giunta, fuori casa. Verificai al telefono, lo ammetto, più nella speranza di non dover rientrare che per scrupolo: il poveraccio era ancora vivo. La soffiata era sbagliata, i colleghi non avevano controllato. Da allora conservo lo screenshot della homepage e i commenti sulla pagina facebook di quella testata, a testimonianza del tipo di figure cui vai incontro se non stai più che attento a questo tipo di, chiamiamoli così, dettagli.

Dieci pezzi al giorno, più bonus

Per contratto bisognava scrivere non meno di dieci pezzi al giorno, con il corredo di SEO, foto, e titolazione. Il fatto che fossimo all’inizio degli anni Dieci faceva sì che il sistema editoriale che usavamo non fosse il semplicissimo e funzionale WordPress cui siamo abituati ma un software (in gergo si dice CMS) proprietario, che per i grassetti e i corsivi dei titoli usava ancora l’HTML. Un inferno impaginare i pezzi.

Poi c’erano i collaboratori. Io ero il capo della redazione, quindi avevo ampia libertà editoriale. Dopo qualche mese mi assegnarono un budget di meno di mille euro per pagare qualche collega. Alla mia “bravura” il fatto di strappare il prezzo più basso.

I pezzi che loro inserivano nel gestionale li dovevo editare e impaginare io, titolare, farci la SEO. In aggiunta al resto, e all’attività di pubblicazione dei contenuti sui social media aziendali, che al tempo erano Facebook e Twitter. C’era da uscire pazzi. Anche perché se “sbagliavi” una Url (il “nome” web della pagina, ndr) potevi star certo che qualcuno se ne sarebbe accorto. E sarebbero cominciati i guai. 

Scegliere le persone con cui lavorare, mi resi conto, non è facile.
Confermo una cosa: se hai bisogno di qualcuno, e non hai tempo da perdere, il primo tentativo è chiedere ai colleghi se hanno un nome da segnalarti.

Dopo parecchie prove ed errori, persone raccomandate che non erano all’altezza e altre su cui mi ero sbagliato io, cominciai a capire che era meglio puntare sulla qualità. Il livello delle collaborazioni a volte era veramente basso: qualcuno mi fece trovare un pezzo sulle previsioni del tempo annunciando sole per il weekend; peccato avesse sbagliato giorno, e quel fine settimana il meteo prevedesse pioggia. O, (era la stessa persona) quando diede per perdente un sindaco donna che, invece, aveva appena vinto le elezioni. Cose del genere, che, a mio avviso, non puoi scusare neanche se paghi poco.
Insomma, non ci volle molto a capire che, con questo andazzo, dovevo fare il lavoro due volte.
Decisi per una strategia diversa: prenderne uno solo valido, pagarlo bene. Almeno da quel punto di vista mi trovai coperto.

Le visite, prima di tutto

Furono mesi brutti, brutti. Probabilmente il mio periodo peggiore dal punto di vista lavorativo e personale. Ero nauseato, schifato. Non mi piaceva andare alle conferenze stampa perché, con questo andazzo, non attiravi certo simpatie. Era una corsa continua contro il tempo: provavo a fare le cose per bene, a uscire dall’ufficio per avere foto e video originali, a fare pezzi miei con interviste e approfondimenti che dessero dignità al giornale. Mi era spesso riconosciuto anche dai capi, ma non era questo che serviva all’azienda, e, dopo qualche lode,  partiva la quotidiana reprimenda. Il canovaccio: non ce ne frega niente della qualità, devi puntare sulla quantità. Cioè copiare. Ma non è facile farlo in una città di centomila abitanti, dove tutti ti conoscono e tu conosci tutti. Ci perdi la faccia.

Decisi di tenere duro, finire i 18 mesi del praticantato giornalistico e poi andarmene.

Al lavoro ci passavo dalle 10 alle 14 ore al giorno, non esistevano weekend. Solo la domenica mi limitavo a controllare tre o quattro volte la concorrenza, a “muovere” la homepage ogni tanto per farla sembrare aggiornata limitando gli interventi a casi clamorosi.

Le “visite”, cioè il traffico generato, erano un’ossessione: avevamo una progressione geometrica da rispettare (da quelle dipende la pubblicità) ed era scritta nel contratto. Gli obiettivi fissati erano così alti che avresti avuto sempre torto, anche nella migliore delle ipotesi (state attenti a cosa firmate: non è bello trovarsi sempre in difetto). La SEO me la sognavo di notte. E poi i titoli urlati: roba da non mettere più il naso fuori di casa dalla vergogna. Mi rifiutavo di sbattere nomi in prima pagina e di fare clickbait selvaggio. Ci sono dei limiti.

Era un rapporto destinato a finire. Decisi (a malincuore) di avviarmi verso la conclusione. Non è facile lasciare un lavoro fisso nel mondo del giornalismo; poi, nel 2013 la crisi mordeva ancora forte. Ma dovevo andarmene, ci stavo rimettendo la salute. 
Tenendo duro avevo imparato a fare il mio mestiere e, se non altro, mantenevo l’orgoglio di non aver ceduto troppo ai compromessi. Ma ero esausto.

Tra i lati positivi, i miei coworker erano tutti collaboratori di grandi testate, e per osmosi, in quei 18 mesi appresi molto più di quanto avrei mai potuto fare da solo. Il che non è poco. Inoltre, mi ero guadagnato la possibilità di fare l’esame di stato e passare al professionismo.

Ma andarmene mi spiaceva, perché essere al timone di un giornale locale conferisce un certo status: ti invitano a cene, inaugurazioni e compagnia cantante, la tua opinione comincia a contare nella comunità e questo, per chi fa il mio mestiere, è una lusinga a cui è difficile rinunciare, soprattutto a 30 anni appena compiuti. Il più delle volte alle cene ci arrivavo in ritardo e morto di fatica, ma questo è un altro discorso.

E poi, c’era il timore del “dopo”. Dopo aver dato tu le direttive, tornare a fare il “semplice” giornalista non è affare da poco. C’era la fila di sempre per un posto in redazione, c’erano le invidie, le antipatie, le gerarchie da rispettare, insomma, la vita di provincia, che a me non era mai andata a genio. Il rischio di finire di nuovo a scrivere della raccolta differenziata dai comuni con meno di 10mila abitanti era alto.

Così, dopo l’ennesima convocazione a Milano (dove, intanto, l’editore aveva nominato un coordinatore di tutto il nord Italia) me ne andai. C’è una frase che mi porto dietro, di quell’ultimo incontro: “Gli standard si sono alzati. Il collega di xxx (una città emiliana esce alle due di notte su un incidente stradale e fa pure le foto. Sappiti regolare”. Buon divertimento, collega. Io mollo.

Questione di scelte

A distanza di molti anni, riconosco che fu la scelta giusta; ma allora non potevo saperlo ed ero divorato dai dubbi. Chi è rimasto è ancora inchiodato a un lavoro da proletario digitale che, più che il giornalismo, ricorda le catene di montaggio. Non ha acquisito competenze spendibili, non è specializzato in niente, e fuori dal gruppo che lo ha assunto e nutrito dovrebbe ricominciare da zero. Con dieci anni in più, e la reputazione sputtanata. Parlo soprattutto delle province. Si è trattato, in poche parole, di mera sussistenza senza un domani.

Qualcuno ha fatto la mia scelta, quella di lasciare, non so con quali motivazioni ma posso immaginarle.

Quello che ho imparato (allora, e in seguito) è che ognuno di noi ha un carattere più o meno adatto a determinate dinamiche: c’è chi tutta questa roba riesce a farsela scivolare addosso, e chi, invece, ci si rode il fegato. Io non potevo andare avanti. Oggi faccio il freelance, libero di svolgere la professione e di contrattare il valore del mio lavoro e del mio tempo come meglio credo. Non è una vita per tutti, è un punto di arrivo più che di partenza, ma ha i propri lati positivi ed è, comunque, la modalità che mi si addice. 

Se volevate sapere cosa c’è dietro le breaking news, eccovi serviti. Vi ho raccontato della cronaca locale, ma per la politica internazionale, lo sport, la cultura, la faccenda non cambia: se la concorrenza esce con la notizia, bisogna scrivere, non importano le verifiche. Conta solo la SEO, e arrivare primi.

Ho aspettato otto anni per questo pezzo. I tempi non erano maturi. Non lo ero neanche io, non avevo le spalle abbastanza larghe e il giusto distacco. In quel periodo, c’era il mito del lavoro da casa. Un mito, appunto, tale forse solo per i pendolari. Con il virus abbiamo capito quanto possa essere frustrante l’isolamento. Nel dibattito pubblico, poi, non era ancora entrato il concetto di fake news. Insomma, la gente prendeva per buono quello che leggeva senza farsi troppe domande, e l’idea di pagare meglio i giornalisti per avere un’informazione migliore era lontano mille miglia.

Di acqua sotto i ponti, da allora, ne è passata parecchia. Personalmente sono fiducioso in un modello diverso, sostenibile e basato sulla qualità. Il resto, poi, lo fanno i lettori, scegliendo le fonti più affidabili e decidendo di sostenerle economicamente. In fondo, fino a poco fa il giornale lo compravamo tutti i giorni, no?

Ps: dopo questa esperienza, per dinsitossicarmi decisi di passare tre mesi senza news online. Il racconto lo trovate qui, ed è datato marzo 2014. Ma molte considerazioni sono ancora attualissime. 

Standard
cronaca, giornalismo, salute

Effetti collaterali

Virale. Nell’oceano (rosso) del marketing, oltre le colonne d’Ercole che separano vita offline e online, non si registra aggettivo più usato da almeno un paio di lustri. Virale è il contenuto, virali sono il video, lo sketch, la gaffe. Sono bastati dieci giorni e, invece, di virale è rimasto solo il Covid. Persino sui giornali. Sulle testate non si vedono più mici che giocano teneramente, koala che si abbracciano, bimbi che imitano Frank Sinatra stonando. E, soprattutto, nessuno osa più accompagnarli con l’infausta parolina, pena il pubblico ludibrio. Beh, se può esserci un effetto collaterale positivo del coronavirus, direi che è proprio questo.

Standard
brexit, esteri, londra, Senza categoria

Dal Prosecco al Times: il vizio del buon giornalismo

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Londra,Italia. 

Più dei diplomatici potè il prosecco. Che le interminabili discussioni sulla Brexit nelle stanze del potere siano in stallo lo sanno tutti, ma nessuno lo dice. In questo mare magnum di informazioni spesso inutili e dichiarazioni di facciata entra in gioco il buon giornalismo, quello che interpreta e non si limita a riportare i fatti. E qualche volta trova la chiave giusta. La guerra, ormai, è anche commerciale.

La lettura che Londra, Italia ha dato di una vicenda a dir poco singolare come quella del Prosecco nostrano (che secondo un Carneade dell’odontoiatria inglese rovinerebbe i denti) ha fatto scuola: molti nell’ambiente pensano si tratti di una campagna denigratoria, strumentale e giocata ai limiti – per non dire al di fuori – del regolamento, simile a quella contro l’olio di palma.

L’editoriale del nostro direttore a difesa di un prodotto che ha saputo conquistare il cuore tiepido degli inglesi è stato il classico sassolino scagliato dalla fionda di Davide contro Golia.  E invece, di blog in blog, di testata in testata, il passaparola ha coinvolto i più alti vertici istituzionali.

La prima pagina del Times di venerdì 1 settembre con l’articolo che cita Londra, Italia

Il nostro giornale è letto, ” fa opinione a Londra“, e viene spesso ripreso in patria. Però se a seguirci è addirittura il Times con un bel pezzo in taglio basso, lo prendiamo come motivo di soddisfazione (qui il link alla versione online).

Londra, Italia ha quasi tre anni. Un bambino a quell’età comincia ad articolare frasi. Dai primi vagiti, alle parole, giorno dopo giorno tenta di costruire il linguaggio e la propria identità attraverso l’interazione con il mondo. Un giornale funziona allo stesso modo.

Chi comincia un’avventura editoriale ha un’idea, ma deve confrontarsi con la realtà, con le risorse, con i vincoli di bilancio. Nel nostro caso, anche con la tendenza a rinchiudersi di chi vive all’estero. Noi non l’abbiamo fatto. Londra, Italia è fatto da persone che vogliono innanzitutto fornire un servizio: quello di interpretare la realtà che gli expat vivono, quotidianamente.

E’ nato da loro e per loro, e chi ci scrive sa bene che il nostro Paese è criticato, odiato talvolta, ma sempre rimpianto. Non ha commesso l’errore di costruire una torre d’avorio. Al contrario, è probabilmente l’unica realtà ad aver creato e sempre mantenuto un legame forte con la Penisola. Molti di noi viaggiano ogni mese tra Stansted e Bergamo, tra Heatrow e Fiumicino, vivono in UK ma ragionano come se avessero due patrie: Londra, Italia ne tiene conto.

Un giornale, due paesi. L’Europa si sta formando nella quotidianità prima che nei palazzi. Per molti esiste sul serio, e da tempo. Sono quelli che viaggiano, emigrati per  lavoro e non per piacere, quelli che non hanno paura di ammettere che tornerebbero, un giorno, se ve ne fossero le condizioni. E’ a loro che ci rivolgiamo. E sono molti. Sarà per questo che, a noi, la Brexit non piace. E se anche il Times è dalla nostra, allora, dopo tre anni, è il caso di brindare. Con una bottiglia di Valdobbiadene, ovvio.

Standard
app, salute

TiSOStengo: nasce la testata editoriale

L’editoriale di presentazione del magazine  tiSOStengo, un nuovo  progetto editoriale legato ai temi di salute e sanità. 

Il “sentito dire” è la prima fonte di informazioni per tutti: chi consultasse l’enciclopedia per dirimere ogni singolo dubbio rischierebbe di rendersi ridicolo. La vox populi è rapida, e, ammettiamolo, spesso non si discosta troppo dalla verità. L’importante è saper andare oltre le chiacchiere tra amici, e controllare quel che ci viene raccontato quando si tratta di argomenti rilevanti; e la salute ovviamente è tra questi.

Pochi giorni fa è nata la nostra testata editoriale. In realtà, come sapete, abbiamo cominciato le pubblicazioni da diversi mesi. Giorno dopo giorno, però, abbiamo visto questa pianta crescere, e, forti dell’apprezzamento che ci avete manifestato, ci siamo decisi a dare una veste istituzionale ai contenuti che produciamo.

Adesso la testata è registrata in tribunale. Ci siamo sentiti di compiere questo passo per due motivi. Il primo, semplicemente, è che la legge lo impone se, come nel nostro caso, le pubblicazioni da sporadiche diventano regolari. Il secondo è che ci teniamo a sottolineare che i nostri contenuti sono scritti con leggerezza per quanto riguarda lo stile, ma senza mai dimenticare la professionalità. Facciamo il nostro lavoro con scrupolo, precisione, cercando di evitare la banalità per fornire un’informazione utile e, perché no, stimolante.
Abbiamo deciso di creare una testata editoriale perché la Rete offre a chiunque la possibilità di amplificare notizie prive di fondamento, e non sempre un sito ben curato o un’applicazione ben fatta assicurano la qualità dei contenuti. Noi cerchiamo di mettere a disposizione la nostra esperienza per assicurarvi tutto questo.

Siamo una redazione giovane, ma ci siamo dati delle regole. Citare sempre le fonti, per esempio. Oppure comprare le foto: tutte le immagini che vedete sono regolarmente acquistate da professionisti, che ricevono una retribuzione per il proprio lavoro. Puntare sulla qualità e non sulla quantità: se non siamo sicuri di una cosa, semplicemente, non la scriviamo. E, ultimo ma non per importanza, ci siamo imposti di tutelare la lingua italiana, patrimonio nazionale che merita rispetto.

Esistono sicuramente redazioni più strutturate della nostra, giganti dell’editoria che hanno storia e tradizione da vendere. Noi, nel nostro piccolo, proviamo a difenderci. Proponiamo un modello di giornalismo alternativo e giovane, senza rinunciare alla serietà che la materia richiede.

Se facciamo bene il nostro lavoro sarete voi a giudicarlo. Di una cosa, però, siamo certi: preferiamo le critiche oneste alle lodi sperticate. Vogliamo creare un rapporto con chi ci legge, e saremo sempre pronti a rispondere e dare conto di quello che scriviamo. Continuate a seguirci, come avete fatto finora. L’avventura è appena cominciata.

Antonio Piermontese
@apiemontese

Standard
media

Dieci consigli per stare con un giornalista

Dato che recentemente “qualcuno”  mi ha invitato a leggere il decalogo per stare con una ragazza viaggiatrice, faccio uno strappo alla regola di serietà di questo blog e pubblico i dieci consigli per stare con un giornalista. Pan per focaccia.

  1. Il tempo. Se ami un giornalista, devi sapere che il tempo per lui è un’ossessione. Ne ha troppo quando non serve, e troppo poco quando ne ha bisogno. Se dopo tre ore a leggiucchiare giornali gli viene un’idea e deve ribaltare il mondo con mail, telefonate, ricerche per un pezzo che, nella sua mente, sarà sempre quello della vita, non è colpa sua. E’ che lo vogliono cosi.
  2. Strettamente correlato al punto 1. Il tempo da soli. La mente di un giornalista viaggia alla velocità della luce: prova tu a trovare qualcosa di non banale da dire su ogni cosa che vedi accadere nel mondo, un punto di vista interessante, un ragionamento che metta in luce un aspetto nascosto. Si sa, siamo un popolo di commissari tecnici quando gioca la Nazionale, e alla bisogna sappiamo reiventarci economisti, cuochi, medici, avvocati. Il giornalista cerca di farlo meglio degli altri. Per questo lavora in un giornale. Se sapesse realmente cucinare, pensi che si chiuderebbe in redazione? Il sonno riposa il fisico, il  tempo da soli è fondamentale per la mente: ossigeno per il cervello, uno spazio in cui ricaricare le pile in un mondo pieno di informazioni e banalità. Nulla gli piace di più che avere una stanza in cui scrivere a notte fonda per i fatti suoi, magari con la tv accesa in sottofondo sul canale sportivo. Il suo sogno? Uno studio alla Obama (vedi foto).
  3. Tutta quella carta che hai buttato nella differenziata l’altra sera non sono “solo giornali”. Ammettiamolo subito: vale per chi la carta l’ha conosciuta. Ma se sei sopra i trenta e fai questo mestiere, quando accade qualcosa pensi per prima cosa al titolo del Corriere in edicola domani. E magari a quello di Repubblica. E a quello della Stampa. E a quello del New York Times…
  4. Fagli credere che le cose che dice siano interessanti. Beh si, questo vale per tutti gli uomini. Vuoi mandarlo in crisi? Se ti chiede cosa ne pensi rispondigli “cosa”? Dopo mezzora di monologo, potrebbe uscirne devastato.
  5. Il telefonino alla mattina. Lo sappiamo, la gente usa Facebook, Twitter, Instagram, Skype per chattare, frugare nella vita degli altri, perdere tempo. Il giornalista anche. La differenza è che, per lui, da quell’aggeggio infernale escono n-o-t-i-z-i-e. Ogni sussulto, ogni luce proveniente da lì è una potenziale miccia, un articolo, un’idea.  Se la prima cosa che fa quando si alza è guardare il telefonino, buttaglielo dalla finestra. Ma se lo fa a colazione, adesso sai perché. E magari cerca di essere comprensiva.
  6. La vita. Quella vera. Il giornalista vuole stare in mezzo alla Storia e raccontarla. Peccato che la Storia, quella con la S maiuscola, non avvisi, e spesso ci si debba accontentare dei surrogati. Non si può correre sempre da una parte all’altra del mondo, ma l’alternanza tra redazione e vita vissuta è il fascino di questo mestiere. Uno senza l’altro non ha senso. Il giornalista vero e’ un teorico con attitudine per la pratica. Chi sta troppo in redazione dovrebbe fare lo scrittore, o lo studioso; chi ci sta troppo poco, al contrario, spesso dimentica l’italiano. Restare in equilibrio tra questi due estremi dà come risultato  un pezzo ben scritto. E fidati, la differenza si sente.
  7. Il giornalista è un pignolo. Gli piace puntualizzare. Non è colpa sua, è che lo tirano su cosi. “Controlla, controlla, controlla”.”Riscrivilo!” “Ma che …zo hai scritto??” sono le tipiche frasi che chi è alle prime armi si sente ripetere all’infinito. Qualcosa, auspicabilmente, gli è rimasto.
  8. Lui ti ama, ma non sarà mai un buon fidanzato. Insomma, con una normale proprio non ci può stare, e ti conviene saperlo. Sarà  sempre preso da una notizia di cui a te non interessa nulla, si fermerà sempre se vede un incidente, se in metropolitana incontra un tizio vestito da Iron Man è quello che lo ferma e gli chiede il perché, mentre gli altri ascoltano la risposta. Sarà  per questo che spesso finiscono da soli.  Non ti chiama, ma se non ti fai sentire, inizia a fibrillare. E’ un bambino, in poche parole. Su questo, non posso che darti ragione.
  9. Nelle discussione preferisce i messaggi, whatsapp e le mail alle chiacchierate. E’ il suo habitat. A dire le cose a voce proprio non ci riesce. Se non altro, si spera, dovrebbe riflettere meglio su quello che dice. Dovrebbe.
  10. Si prende sempre, maledettamente, sul serio. E non aggiungo altro.
Standard
economia, media

L’Economist parla italiano: Agnelli sale al 43,4%

Sembrava impossibile. E invece è vero. La notizia più interessante di questi mesi è stata la scalata di Exor fino al 43,4% di The Economist. La holding della famiglia Agnelli, guidata da John Elkann, ha annunciato l’acquisto il 12 agosto. Il settimanale londinese è un punto di riferimento per l’informazione economica mondiale. Noto per lo stile chiaro e omogeneo, dovuto in buona parte all’assenza di firme alla fine degli articoli, si trova oggi a confrontarsi con la svolta digitale. Exor ha il controllo di una quota doppia rispetto a quella di una delle grandi famiglia del capitalismo mondiale, i Rotschild, fermi al 21%. E anche se non potrà esprimere la maggioranza del cda (ma un massimo di 6 consiglieri su 13), avrà un peso decisivo nelle scelte strategiche. economist berlusconi

La testata deve confrontarsi con un calo di vendite e la necessità della transizione al digitale. Una sfida che a Torino hanno già brillantemente raccolto con La Stampa, sempre in prima linea sul fronte delle nuove tecnologie.

A questo punto, non è vietato sognare. Anche, ad esempio, che alla testa del celebre magazine inglese possa esserci un direttore italiano. Personalmente, vedrei bene Mario Calabresi. Giovane, con esperienza internazionale, ha diretto uno dei quotidiani più prestigiosi d’Italia rendendolo un modello e restando sempre un passo avanti agli altri. Personalmente, amo le personalità che sanno spaziare, e sono abbastanza diffidente dei tecnici. Calabresi non ha un background economico, ma è senza dubbio in possesso delle qualità per costruirselo nel giro di un decennio.  E, soprattutto, sa fare i giornali. Speriamo sia lui il primo italiano a dirigere uno dei principali organi di informazione a livello mondiale.

Standard