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Ripensare le città: un’intervista a Carlos Moreno

Può capitare che si organizzi un’intervista, e che per qualche motivo non esca. Può capitare anche che ce la si dimentichi in una cartella del pc. Mi è accaduto – mea culpa – con Carlos Moreno, il teorico della città dei quindici minuti, di gran moda a livello globale e con cui avevo parlato un annetto fa durante la presentazione del progetto del nuovo piazzale Loreto, di cui è sponsor. La riporto qui. Cerniera tra centro e periferia, piazzale Loreto, uno dei luoghi più transitati del capoluogo lombardo, sarà completamente ridisegnato. Spariranno o quasi le auto; appariranno pedoni, alberi e negozi.
Tutto bene? Non proprio. In una città dai valori immobiliari impazziti come la Milano di oggi, un progetto del genere allarga la portata della bolla, espellendo residenti e storici negozianti per far posto a chi può permettersi di reggere il passo. E’ già accaduto nella vicina NoLo (nuovo nome con cui si è chiamata una delle strade più scalcagnate di Milano e la si è resa appetibile); sta avvenendo a Porta Romana e in molti altri quartieri. Il fatto è che una città è un organismo per propria natura imperfetto; cercare la perfezione genera mostri. Vendibili, forse, ma inabitabili. E non sempre i cittadini sono d’accordo. Ecco il pezzo.

Lei è il teorico della città dei quindici minuti, modello applicato in diverse metropoli mondiali. Per esempio, la Parigi di Anna Hidalgo. Come sintetizza il suo pensiero?

Se dovessimo riassumerlo,  potremmo dire che l’obiettivo è definire una città policentrica, decentralizzata, dotata di molti servizi differenti, con una forte riduzione delle distanze. Una città che sviluppi infrastrutture dalla destinazione d’uso plurima. E ultimo, ma non per importanza, una città in grado di sviluppare nuovi modelli economici, per dar luogo a un’economia locale più vibrante, occupazione locale, minore uso delle materie prime.

Da dove, da cosa ha tratto ispirazione?

Da molti pensatori, ma la mia maggior fonte di ispirazione è stata Jane Jacobs, attivista e scrittrice nordamericana, che ha sviluppato il concept della “living city” . Ma non solo: ci sono il new urbanism, il new pedestrianism. In Italia avete la grande scuola di Aldo Rossi. Ho proposto un nuovo paradigma nel punto di convergenza tra le idee di molti pensatori e doers, per attualizzarle al ventunesimo secolo. Un tempo di grandissima urbanizzazione, segnato dalla crisi climatica e da altre come il covid e la guerra.

La pandemia ha fermato il mondo per mesi, costringendoci a ripensare le nostre abitudini. Quanto ha cambiato il covid la prospettiva dei sindaci?

Si è trattato di un crisi molto profonda, ma anche di una grande opportunità per trasformare il modo in cui lavoriamo. Innanzitutto, invece di continuare con lunghe ore di pendolarismo molte persone hanno imparato a lavorare in maniera diversa con la ibridazione tra presenza fisica e attività in remoto. Il secondo punto è che le persone, specialmente tra i venti e i quarant’anni, hanno scoperto il “tempo utile”, cioè la possibilità di avere tempo a disposizione per attività personali, familiari, sociali. E’ una conseguenza del nuovo modo di lavorare: se la gente ha la possibilità di ridurre i lunghi tragitti da pendolare, questo tempo in più  offre finestre per sviluppare nuove attività sociali e amicali. Terzo, con il covid molti hanno scoperto nuove risorse di prossimità: aree verdi , negozi locali, attività culturali e sportive: risorse che si trovano già nello spazio urbano e sono vicine a noi.

Ci sono già molte città in cui le sue teorie sono state applicate: quali sono?

Ne abbiamo tante, in effetti, sparse per il mondo. La novità è l’impegno del C40, di cui fanno parte Roma e Milano. A Milano, il sindaco Sala è totalmente coinvolto. La campagna elettorale per la sua rielezione è stata basata sulla città dei 15 minuti; Roma è nella stessa situazione. Anche in Europa gli esempi non mancano: Lisbona, Barcellona, la nazione scozzese – non solo una città, ma tutta una regione – . Recentemente non solo Parigi, ma tutta la regione dell’Ile de France ha abbracciato questo concept. E poi Buenos Aires, Bogotà, Portland, Cleveland,  Seattle,  Seul, Susa (tra le più grandi città della Tunisia). In Senegal, la capitale Dakar e in Polonia persino molte zone rurali.

Con la pandemia è cambiato il modo di percepire le città,. Ma gli effetti non hanno solo segno positivo.  A volte, migliorando la città l’effetto è espellere certe fasce della popolazione. Milano probabilmente sta commettendo questo errore. Che ne pensa?

Dobbiamo sviluppare il concept della città dei 15 minuti con l’idea di ribilanciare le città. Alcune dinamiche si ripropongono simili in tutti i continenti: una gentrification forte e importante, una frammentazione, una zonizzazione. Con la città dei 15 minuti vogliamo proporre una nuova politica urbana, per arrivare a un nuovo processo decisionale e a un ribilanciamento verso una città policentrica. Ognuno di questi nuovi poli deve offrire servizi culturali, negozi, sport e rigenerare l’occupazione locale. Per quanto riguarda l’housing, dobbiamo promuovere policy per avere social housing e limitare i prezzi di affitti e appartamenti.

Insomma, questo concept deve essere accompagnato da policy sociali.

Con l’esperienza che abbiamo oggi, è molto chiaro che dobbiamo mixare l’housing per la classe media con quello di alto livello. La chiave di volta per implementare con successo la città dei 15 minuti è il mix massivo di categorie sociali e funzionalità. E’ possibile se ci diamo l’obiettivo di creare un percorso che conduca a un ecosistema pubblico-privato. Dobbiamo creare queste alleanze per generare nuovi modelli di business, e sviluppare questa coesistenza.

Il processo di ridefinizione di una città nell’ottica dei quindici minuti può essere vissuto dalla popolazione come top-down: il sindaco decide, la popolazione esegue. Ci sono altri approcci più partecipativi che sostengono, invece, che sia necessario ascoltare di più la voce dei residenti. Per esempio, ci sono esperimenti in Svezia al riguardo. Che ne pensa?

Dopo anni di lavoro con tanti sindaci e associazioni civiche posso dire che non c’è una ricetta valida per tutti: [ridisegnare una città] è un processo di lungo termine il cui punto cruciale è combinare tutti gli elementi in maniera ottimale. Per seguire questa traiettoria, abbiamo senz’altro bisogno di un forte impegno dei sindaci a sviluppare nuove policy urbane, ma allo stesso tempo è necessario sviluppare un impegno rilevante da parte dei cittadini. Un grande esempio è proprio qui a Milano con la community Loreto 2026. Oggi c’è una rotonda completamente dedicata alle macchine, che potremo definire un attrattore di ingorghi. Molti passano un sacco di tempo in auto, eppure si rifiutano di abbandonarla. Per cambiare, dobbiamo creare accettabilità sociale: questa è la grande domanda per me, perché questa trasformazione coinvolge un sacco di persone differenti. Dobbiamo combinare le decisioni strategiche degli amministratore con la partecipazione. Col mio gruppo di lavoro all’università abbiamo sviluppato un nuovo tool che si chiama Proximity Fresk, un gioco materiale per sviluppare la partecipazione dei cittadini: prendono una mappa del territorio, cominciano a ragionarci, e si chiedono quali sono gli ostacoli che impediscono la trasformazione. Dobbiamo combinare visione strategica e partecipazione, e per questo occorre creare nuovi strumenti.

Come può aiutare la tecnologia?

Può aiutare a visualizzare i differenti stadi del progetto, per esempio a far vedere come diventerà l’area su cui oggi sorge la rotonda di piazzale Loreto dopo la trasformazione. Ci saranno fasi molto dure per gli abitanti durante i lavori: i trasporti saranno disturbati per più di un anno, per esempio. Le tecnologie potranno servire per spiegare quello che accade e monitorare, e avere in questo modo un ruolo pedagogico.

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ambiente

Vince Eni: per il Consiglio di Stato il diesel può essere “green”

Il Consiglio di Stato ha deciso: è possibile definire “green” anche un carburante. Il caso riguarda Eni, multinazionale italiana dell’oil and gas; la comunicazione della sentenza è arrivata l’altro giorno dopo una vicenda durata quattro anni, ed è stata accolta “con sodisfazione” dal cane a sei zampe.

La suprema corte amministrativa, afferma l’azienda, “ha accertato che nessuna pratica commerciale scorretta è stata messa in atto da Eni ai danni dei consumatori, e che gli addebiti a suo tempo mossi dall’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e il Mercato) sono da ritenersi infondati, disconoscendo il principio secondo cui termini quali ‘green’ e simili non possono mai essere associati a prodotti considerati, per loro natura, “non a impatto zero. Del resto, alle stazioni di rifornimento abbiamo da decenni la benzina “verde”. O no?

Così prosegue la multinazionale, che ultimamente appare come sponsor anche in Festival culturali come quello della letteratura di Mantova, in una nota diffusa a margine:

“Il Consiglio di Stato ha integralmente accolto il ricorso di Eni nel procedimento con il quale la società era stata condannata al pagamento di una sanzione di 5 milioni di euro. L’AGCM nel 2020 aveva contestato la valorizzazione in termini di beneficio ambientale della componente green costituita dalla percentuale di HVO (biocarburante idrogenato) miscelata nel diesel. Con la sentenza del Consiglio di Stato si chiude una vicenda che ha causato a Eni un rilevante danno economico nonché reputazionale, avvalorando ingiuste accuse di ‘greenwashing’ che ora si rivelano totalmente infondate“.

In realtà, la “benzina verde” cui siamo abituati è un reliquato degli anni Ottanta, quando era necessaria per utilizzare le prime marmitte catalitiche e distinguerla da quella classica, che di conseguenza prese a essere chiamata colloquialmente”rossa”.

Quasi mezzo secolo dopo, pare proprio che si tratti di una distinzione superata. E che sia, piuttosto, un grosso regalo alle società che estraggono idrocarburi.

Il fatto è che è acclarato dalla scienza che il riscaldamento globale cui stiamo assistendo è di origine antropica: e, per dirla in parole povere, non è il caso di alimentare dubbi al riguardo, accostando colorazioni e aggettivi che richiamano la sostenibilità ai combustibili fossili.

Ma, secondo il Consiglio di Stato, le cose non stanno così: “Non può dubitarsi – scrivono i magistrati – in linea di principio, della legittimità dell’impiego di claim ‘green’ anche in relazione a prodotti (come nel caso di specie un carburante diesel) che sono (e restano) in certa misura inquinanti ma che presentano, rispetto ad altri, un minore impatto sull’ambiente”. Insomma, liberi tutti. Eppure, cinque milioni sono una sanzione minuscola per i bilanci di Eni. E quanto alle accuse di greenwashing, si è già detto che sempre più spesso si vede l’azienda presenziare a eventi culturali di grande prestigio. Forse i magistrati intendevano suggerire che sarebbe più appropriato parlare di bookwashing.

Secondo il Guardian, negli ultimi sette anni l’80% delle emissioni carboniche è stato prodotto da sole 57 aziende globali, tra cui l’Eni. Il conteggio(effettuato dagli scienziati di Carbon major database, che tengono un archivio specializzato) è stato avviato nel 2016, all’indomani dell’accordo di Parigi sul clima. Petrolio, gas, cemento: alcune sono private, altre controllate dagli Stati o a capitale misto. E la quota di quelle in cui sono proprio i governi a investire (come il gigante italiano) è aumentata nel tempo, impennandosi tra il 2000 e il 2010 (all’indomani del protocollo di Kyoto) e, ancora, dopo il 2016.

Invece di diminuirla, dice Carbon Major, la maggior parte delle società ha espanso la produzione dopo l’accordo firmato nella capitale francese a metà del decennio passato, quello che ha segnato una svolta nelle politiche climatiche.

E intanto, mentre estraggono, raffinano e vendono carburanti “green”, le multinazionali del fossile provano a spostare il baricentro della responsabilità sui consumatoti. Così scrivono Greenpeace e ReCommon:

Nel 2004, racconta il giornalista Mark Kaufman su Mashable, la multinazionale britannica BP – attiva nel settore dell’oil&gas – promosse uno strumento di comunicazione che ha (purtroppo) avuto nel tempo uno straordinario successo. L’azienda, spiega Kaufman nella sua inchiesta, presentò in quell’anno ‘il suo ‘calcolatore dell’impronta di carbonio’, in modo che si potesse valutare come la normale vita quotidiana – andare al lavoro, comprare cibo e viaggiare – sia in gran parte responsabile per riscaldamento del pianeta’.”

In pratica, si è cominciato a cercare deliberatamente di convincere il cittadino che modificando il proprio stile di vita, per esempio usando i mezzi pubblici qualche volta in più, avrebbe dato un contributo decisivo a salvare il pianeta in fiamme. In parte è senz’altro vero; ma i tempi sono biblici, e non è quello di cui abbiamo bisogno. Non solo.

Diversi studi dimostrano che le simpatie ecologiste dei consumatori raramente si traducono in comportamenti di acquisto coerenti: la situazione pare stia migliorando, ma non c’è corrispondenza netta: in pratica, davanti al carrello della spesa o alla vacanza low cost dall’altra parte del mondo, siamo molto meno ecologisti di quanto ci piaccia credere. Inconsciamente, ci dimentichiamo dei nostri convincimenti. Su questa divergenza qualcuno ha anche costruito delle app, vendute ad aziende che vogliono rifarsi il belletto. Ma sono dettagli, e in fondo è business.

Sono le imprese, ed è qui il punto, ad avere la responsabilità di cambiare i propri modelli di business per trovarne di più sostenibili. Guidate come sono da consigli di amministrazione esperti, hanno gli strumenti per la transizione; invece, spingono al massimo finché è possibile, perché hanno compreso che il vento sta davvero cambiando.

lIl dibattito (anche quello, se mi perdondate la battuta) è inquinato. Non aiuta la poca chiarezza da parte dei policymaker. Come raccontavo su Wired, la Corte dei Conti europea ha recentemente bastonato i politici di destra e sinistra per le banalità – quando non proprio frottole – che raccontano agli elettori sul clima. Per esempio, il passaggio alla mobilità elettrica fosse a costo zero (dimenticano le infrastrutture necessarie e non ancora pronte, i costi ambientali dell’estrazione e molto altro, come l’indotto dell’auto a motore endotermico, fondamentale per tante persone); ma anche il fatto che i test sulle vetture elettriche sono condotti male. Quasi un electric gate,  per chi ricorda il tragicomico Dieselgate della Volkswagen, con le centraline taroccate perché le auto performassero meglio in termini di emissioni quando si accorgevano di essere sui banchi delle officine di valutazione.

A condire quest’insalata amara ci si mette, da par suo, il simpatico meloniano Pietro Fiocchi, erede dell’omonima famiglia di produttori di cartucce da caccia. Fiocchi ha riempito Milano di gigantografie sponsorizzando la propria candidatura al Parlamento europeo, e, nel farlo, se la prende con l’attivista Greta: “Miss Thunberg, go back to school” dice con aria da maestro e tanto di occhiali. Non avendo spiegato cosa intende fare in alternativa rispetto a chi ha avuto il merito di rendere comprensibile la crisi del clima, il consiglio che viene da dargli è che si metta a studiare lui.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

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cronaca, esteri

Ilaria Salis, se la rabbia non basta

Sul caso di Ilaria Salis resto ottimista. A patto di abbassare i toni. All’attivista monzese, che ieri è apparsa nuovamente in udienza in catene, sono stati negati i domiciliari in Ungheria. In che modo, dunque, se ne può dare una lettura positiva?

Ripercorrendo la vicenda e l’eco mediatica che l’ha – giustamente – circondata, anche se i detenuti italiani all’estero sono oltre duemila.

Quando, a gennaio, il caso è montato, a occuparsene sono state le opposizioni, a cominciare da Ilaria Cucchi. Altri hanno seguito, come Lia Quartapelle, Ivan Scalfarotto. Ma era veramente un caso solo della sinistra? No, e fu chi scrive ad andarlo a chiedere – per primo – ai parlamentari di maggioranza, tra cui la presidente leghista della commissione Diritti Umani del Senato Stefania Pucciarelli. Qualche giorno dopo, l’esecutivo incontrava la famiglia della detenuta. Poi ci fu la prima apparizione in aula, in ceppi.

Da quel momento, e per un paio di settimane, i fatti hanno preso una piega incontrollabile. Interviste, incontri, servizi di carta stampata, web e televisioni, la girandola degli inviati il cui numero cresceva di giorno in giorno. Il ministro degli Esteri Tajani incontrò l’omologo ungherese sul caso; persino la presidente del Consiglio Meloni ne parlò con il premier magiaro Orban.

In quei quindici, concitati giorni si è superata più di una linea rossa.

Dalla notte dei tempi, potenze piccole e medie usano i prigionieri come arma per ritagliarsi un ruolo da protagoniste sulla scena internazionale nei confronti di attori più quotati. Successe anche all’Italia, coi marò (che però avevano ammazzato due pescatori in India credendoli pirati) e con Cesare Battisti (in Brasile). Corre l’obbligo di ricordare che sul Cermis Roma chinò il capo senza fiatare consegnando gli accusati agli americani, ma questa è un’altra storia.

La diplomazia è stata inventata, per così dire, al fine di evitare che a parlarsi fossero le parti, troppo coinvolte e per questo accalorate. Non nascondiamoci dietro a un dito: le anticamere dei palazzi del potere sono il regno dell’ipocrisia, popolati come sono da uomini costretti a passare la vita ripetendo cose che spesso non pensano. Non sarà bello: però serve. Come sturare le fogne. L’alternativa, da Gaza all’Ucraina, è la guerra.

Arrivare praticamente a delegittimare la magistratura ungherese, come il governo tricolore tirato per la giacchetta dall’opinione pubblica ha dato l’impressione di fare a febbraio, non è stata una buona idea. Un conto sono le proteste di piazza; un altro è ciò che a rappresentanti dell’esecutivo è concesso di fare in casi del genere.

Non si fa un favore a Ilaria Salis politicizzando il suo caso per attaccare il governo, o strumentalizzandolo per rivendicare un presunto diritto all’antifascismo a ogni costo.

La si aiuta, piuttosto, tenendo viva la fiammella con i post sui social media, la raccolta di firme, le fiaccolate, le iniziative.

Spesso i processi di questo tipo si risolvono con una condanna, e una misura di grazia. Non  è detto che vada così, ma è una ipotesi, corroborata da svariati episodi noti nella galassia antagonista internazionale. Si vuole piegare il militante al cospetto dei compagni e del mondo.

E’ chiaro che, per chi si aspettava una risoluzione rapida, la giornata di ieri non può essere soddisfacente. Ma ricordiamoci che, all’inizio, l’ipotesi di chiedere i domiciliari in Ungheria (per poi averli in Italia) non era stata nemmeno presa in considerazione da difesa e famiglia; e quando, di fronte al secco no magiaro, si è addivenuti finalmente a questa risoluzione, è parsa la concessione che si fa al matto che pretende di avere ragione.

Le autocrazie (cioè le dittature moderate) vivono di immagine, rappresentanza, idoli: di brav’uomini soli al comando non ce n’è. Meno di tutto, bisogna attaccare il simulacro del leader, la sua capacità di guidare il Paese. Chiede un sacrificio in termini di libertà al popolo: la ricompensa è la sensazione di sicurezza che fornisce. “L’umanità ha sempre scambiato un po’ di libertà per un po’ di sicurezza” sintetizzava Freud. Tantopiù in un mondo confuso come quello di oggi, che passa di crisi in crisi.

Se si prende per il naso il governo, il giochino finisce. Questo lo sa bene Orban, lo sanno bene i diplomatici, ma se lo sono scordati in tanti. I cittadini non erano tenuti a conoscere queste prassi; chi regge un Paese, però, sì.

Il mondo, come sempre, non è bianco o nero. Lasciare intendere “con noi o contro” serve a fare proseliti, non a risolvere i problemi. Mi auguro che, da qui a maggio (quando è calendarizzata la prossima udienza) chi è interessato alla sorte di Ilaria Salis manifesti il proprio sostegno in maniera costante, ma composta. E che anche la famiglia riesca a trovare una lettura coerente nell’impegno a sostegno della figlia, ma fiduciosa. Anche perché quando Ilaria tornerà a casa, ed è sicuro che tornerà, avrà una vita davanti, e la partita più difficile resterà trasformare il male di questi anni in bene. Per se stessa. E per gli altri che non hanno la sua forza.

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economia, milano

Milano, un Longevity summit di 13 giorni è l’ennesima scelta inutile

Dopo le Olimpiadi invernali senza montagna (e pure senza la neve: la coltre bianca è sempre più rara sulle Alpi, ma questo è un altro discorso), dopo la Ocean week senza il mare, la città del marketing perenne si inventa la Milano Longevity Week. A me la presentazione pare delirante. Riporto testualmente quanto appare sul sito, a partire dalla domanda iniziale, di una banalità che sconfina nell’incoscienza.

Cito. “Si può ed è giusto rincorrere l’eterna giovinezza e prolungare le aspettative di vita? La ricerca scientifica più all’avanguardia risponde di sì. È una vera e propria rivoluzione nell’approccio all’invecchiamento, di cui Milano si fa portavoce con un summit di diversi giorni, un grande incontro scientifico internazionale policentrico, a carattere divulgativo e aperto al grande pubblico, agli operatori, agli studenti, che coinvolgerà le più importanti Istituzioni della città, sui temi “caldi” del momento, a livello di ricerca e di investimenti: l’invecchiamento sano (Healthy Aging) e il prolungamento della vita (Longevity).

Sessanta scienziati tra i più noti ed accreditati, vere e proprie star in questo settore, sveleranno le frontiere più avanzate della ricerca nel rallentamento del processo biologico dell’invecchiamento.

Il cambiamento demografico esige un approccio olistico, fondato su nuovi paradigmi sociali nel campo della politica assistenziale, dell’economia, del mondo del lavoro e dell’organizzazione delle città, ed anche una vera presa di coscienza politica e amministrativa. In quest’ottica il Summit ospiterà tavole rotonde con la partecipazione di demografi, investitori, imprenditori di startup e sindaci di alcune delle città che stanno già sperimentando nuovi modelli di organizzazione sociale ispirata ad una diversa composizione demografica.

Il Milan Longevity Summit si pone l’obiettivo di valorizzare Milano come centro scientifico all’avanguardia a livello internazionale e di produrre un documento in dieci punti, il Milan Longevity Program, per aiutare i legislatori, gli operatori del settore e il pubblico tutto a migliorare lo stile di vita della popolazione e contribuire ad una vecchiaia sana, attiva ed efficiente“.

Ora, l’allungamento della vita media (nei paesi del global north, cioè quelli i ricchi) è una realtà. Ma francamente è un problema grosso, e c’è poco da stare allegri. Nel longevity summit allo zafferano troviamo la solita accozzaglia di luoghi comuni, fondazioni e aziende, demografi e investitori (non è un errore: demografi accanto a investitori) senza arrivare a una chiara definizione della questione. Il risultato di questi 13 (tredici!) giorni di eventi sarà la solita dichiarazione inutile in dieci punti: la “Carta di Milano della longevità”, tento un titolo a naso. Nulla di più, e ci sarebbe molto da dire.

Quello che in questa visione da anni azzurri non sta scritto è che siamo in troppi; dovremo lavorare tutti fino a oltre 70 anni perché le patologie croniche pesano sul sistema sanitario e quindi su welfare; le pensioni pubbliche saranno sempre più basse, e quelle private non potranno permettersele quelli che guadagnano 900 euro; con la mobilità e flessibilità del lavoro, gli anziani con figli resteranno sempre più privi di appoggi e finiranno l’esistenza in struttura; ma molti non avranno prole (siamo al limite della denatalità) e finiranno anch’essi in struttura.

Quello che non viene detto è che la “silver economy” è una delle nuove frontiere del marketing: si vende agli anziani, dato che ci si è accorti che sono consumatori molto più a lungo di un tempo, e conviene tenerli attivi e curarseli.

Ma c’è un’altra questione, su cui forse davvero il sindaco di Palazzo Marino (quello vero pare sia un immobiliarista molto noto in città) dovrebbe insistere. Il lavoro ai cinquantenni che l’hanno perso. Perché hai voglia arrivare a 70 se quando ti licenziano a 50 non ti vuole più nessuno, e magari hai pure un figlio.

Ecco, degli Stati Generali per il lavoro ai cinquantenni, caro sindaco Sala, sarebbero utili e apprezzati. Il “modello Milano” potrebbe (dovrebbe?) diventare questo. E allora avrà finalmente legato il suo nome a qualcosa di utile.

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esteri

La potenza di un’immagine

Anche nel gorgo di una civiltà visuale, innegabilmente sovraccarica e banale, la potenza di un’immagine resta in grado di smuovere le coscienze. Ci sono  stati scatti in grado di cambiare la storia. La foto di Tommi Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico, nel 1968,  col braccio alzato sul podio per rivendicare i diritti dei neri americani. Quella di George Floyd con il ginocchio del poliziotto sulla gola, pochi istanti prima di morire.  Quella di Nelson Mandela liberato dopo ventisette anni di prigionia, che segnò la fine dell’apartheid. Da lunedì c’è anche quella di Ilaria Salis, attivista italiana detenuta in Ungheria, accusata di un’aggressione ai danni di due militanti neonazisti. Da un anno la donna è rinchiusa in un carcere di massima sicurezza a Budapest. Otto giorni la prognosi per le ferite riportate dai simpatizzanti neri: l’attivista, invece, rischia ventiquattro anni, con evidente sproporzione,

Si era raccontato, lo aveva fatto lei stessa in una lunga lettera agli avvocati, delle durissime condizioni di detenzione. Ma quando lunedì si è presentata al processo con i ceppi alle mani  e alle caviglie, una sorta di guinzaglio a legarla a una poliziotta e due omaccioni delle forze speciali in mimetica e passamontagna schierati ai lati, la potenza del fotogramma ha smosso anche le coscienze di chi faceva fatica a interessarsi al caso. Il sorriso dolce, appena abbozzato, dell’italiana spezzava la durezza di un’atmosfera irreale, aggiungendo un tocco di grazia al quadro desolante del tribunale magiaro.

Consumati dal martellamento incessante di immagini in cui siamo abituati a muoverci, le immagini giunte dall’Ungheria hanno avuto il potere di fermare per qualche istante il flusso di influencer, Ferragni, Fedez, shampi, Cracchi, reality, Amici, ballerini che intasa gli schermi dei nostri telefonini e televisioni.

Salis, suo malgrado, è diventata il simbolo di come si possa affrontare con garbo una prova difficile. Oggi ha alle spalle un Paese intero, e fortunatamente, pare, anche il governo. Ma la sua vicenda deve farci riflettere sulle condizioni del sistema carcerario. Anche italiano. Una battaglia di cui in pochi si ricordano, e che, con merito, come in tanti altri casi, va ascritta ai radicali.

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cronaca, politica

Ilaria Salis, se la pena (16 anni) è spropositata

Me la ricordo come una ragazza dolce, spesso silenziosa, un po’misteriosa. Ilaria Salis frequentava lo stesso liceo di chi scrive, il classico Zucchi di Monza. A differenza del sottoscritto, era un’ottima studentessa: se non ricordo male si diplomò col massimo dei voti, a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio. Poi la folgorazione con la sinistra e la militanza nel centro sociale Boccaccio, spazio autogestito attivo da vent’anni nel capoluogo brianzolo. Ilaria divenne un’attivista nella tante battaglie dei giovani monzesi, alcune più condivisibili (la lotta contro il precariato, che a inizio millennio era una novità appena introdotta dalle riforme del lavoro) altre meno, almeno per i moderati. Il collante era l’antifascismo, con Mussolini che  – allora – pareva uno spettro lontano, superato dalla storia. Coi postfascisti arrivati da poco al governo assieme a Berlusconi e alla Lega, il leader Gianfranco Fini si era affrettato a definire il movimento del dittatore romagnolo “male assoluto”.

Tanti di quella stagione, come spesso accade ai ragazzi, si sono dispersi. Altre vite, nuove esperienze, lavori, incontri, letture.

Non Ilaria, che proseguì la militanza, studiando nel frattempo per diventare maestra. Si dice si fosse avvicinata alla galassia anarchica.

Personalmente, ne ho perso le tracce. Fino a qualche settimana fa, quando si è diffusa la voce che la trentanovenne monzese è stata arrestata in Ungheria per aver aggredito alcuni militanti neonazisti, radunatisi a Budapest per la “Giornata dell’Onore” in ricordo di Wermacht e SS.

Un video, riportato dalla Bild, mostrerebbe l’italiana assalire, assieme ad altri, un uomo. L’agguato sembra brutale e gratuito; ma, in effetti, il malcapitato simpatizzante nero è in grado di rialzarsi in pochi istanti sulle proprie gambe. Pare che le lesioni siano state dichiarate guaribili in otto giorni, nulla, in termini medici: una formula che consente di tenere tutti al riparo e di prendere qualche spiccio dalle assicurazioni; ma anche di essere impiegata in un processo.

Per quell’azione, Salis rischia sedici anni di prigione, con il processo che si aprirà il 29  gennaio. Oggi è detenuta (da sette mesi) in un carcere di massima sicurezza, in condizioni durissime, trascinata in tribunale al guinzaglio, senza medicine per l’allergia, senza potersi cambiare i vestiti, priva di assorbenti. Nella cella, infestata da insetti, per mesi non è stato ammesso nessuno.

Ora, è chiaro che l’aggressione c’è stata, va sanzionata, e dovrebbe esserlo anche se per ipotesi fosse avvenuta in Italia. Ma è evidente la sproporzione. Date le conseguenze blande, difficile immaginare più di un anno di condanna. Il processo, però, è politico, in un’Ungheria come quella di Orban, con il baricentro spostato verso la destra estrema nonostante il Paese faccia parte a pieno titolo dell’Unione Europea. Vale la pena riflettere – e non è un dettaglio – sul perché una manifestazione neonazista che non avrebbe potuto avere luogo in alcun modo in Germania si sia svolta, invece, senza problemi nello stato orientale.

Del caso si è interessata la senatrice Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, ucciso dalle forze dell’ordine qualche anno fa. Cucchi è la persona giusta, pervicace, moderata.

Ma le lettere di Roberto Salis (padre di Ilaria) alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni non hanno ricevuto risposta.

Non è un mistero che la leader di Fratelli d’Italia e Orban siano legati da una certa simpatia, ed è lecito pensare che la presidente del Consiglio possa esercitare un ascendente. Ma, per il momento, ha scelto di non esporsi. Potrebbe anche essere una strategia diplomatica, considerato il carattere dell’ungherese. Budapest sta cercando di rendere chiaro che non è disposta ad accettare azioni di violenza politica sul proprio territorio, in particolare da parte della galassia anarchica, cui Ilaria sembra essere vicina. Il messaggio è chiaro, e può darsi che l’esecutivo italiano abbia scelto di attendere il processo per non delegittimare i giudici ungheresi e intervenire allora con maggiore forza negoziale.

Ma società civile e mezzi di informazione sono altra cosa. Ed è bene che di questa vicenda si parli, sui giornali, e sui social. Non per negare l’accaduto, ma per sottolineare la sproporzione tra il gesto e le conseguenze, che uno stato inserito nel contesto democratico europeo come l’Ungheria non può permettersi; la sorte di una ragazza costretta a subire un trattamento disumano e degradante; e il fatto che la protesta di Ilaria, per quanto estrema e senz’altro violenta, non ha avuto – fortunatamente – conseguenze. Sbagliati i paragoni con il caso Cospito: Salis non ha messo bombe. Se è chiaro che non si può tollerare l’aggressione di chi non la pensa come noi, per quanto si tratti di un neonazista (sono gli Stati ad avere il monopolio della forza, ceduto dai cittadini sulla base del cosiddetto contratto sociale), vale la pena di ricordare che, se proteste ci fossero state negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, ci saremmo risparmiati una guerra mondiale e sei milioni di ebrei morti. Forse è il caso di pensarci.  

Ps. c’è un gruppo Facebook del comitato per Ilaria Salis. Il link è qui.Qui, invece, il link alla petizione per chiedere il ritorno della Salis in Italia durante il processo.

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economia, libri, startup

Elon Musk: due biografie a confronto

E’ possibile fare innovazione senza vessare i propri dipendenti e mantenendo l’empatia?

Qualche settimana fa Wired mi ha chiesto di scrivere un pezzo sulla biografia di Elon Musk uscita a settembre per Mondadori; la commessa mi ha dato l’occasione per leggere finalmente l’altro volume sul miliardario sudafricano che posseggo, curata dal giornalista tecnologico Ashlee Vance e uscita nel 2015 (Hoepli).

Messi a confronto, o meglio sovrapposti, i due testi offrono uno spaccato abbastanza ampio del personaggio. Cominciamo dal più recente.

Pubblicato da Mondadori, quello di Walter Isaacson è un corposo tomo da 780 pagine. Giornalista, accademico, scrittore, Isaacson si era già dedicato a Steve Jobs e Leonardo da Vinci, personaggi, quindi, di un certo respiro, geniali. A Jobs si attaglia la patente di controverso.

La scrittura è piacevole, scarna, alla maniera di certi storici latini, con poche commenti e molti fatti. L’autore ha frequentato Musk per due anni, e per certi eventi è addirittura fonte diretta. Autopsìa, la chiamava Tucidide: secondo lo storico greco, la condizione migliore si ha quando chi scrive assiste in prima persona agli eventi che narra, ed è questo il caso. Ma Isaacson non lesina in interviste e dettagli, riuscendo a definire bene la psicologia di Musk con moltissime incursioni nel privato, dalla storia familiare dell’imprenditore al matrimonio. C’è anche, a far da sfondo, tutto il clan, così importante per il sudafricano: ogni personaggio appare ben definito e caratterizzato, e alla fine si ripone il tomo con la sensazione di aver letto un romanzo. Perché, in questo caso, parliamo proprio di una forma di letteratura, non solo di un testo storico: tecnica e maestria narrativa sono degne dei migliori autori,  pagine che sono destinate a restare un caposaldo del genere. Non solo. Isaacson si avventura anche in maniera piuttosto approfondita negli aspetti di management, per il piacere degli appassionati o di chi nel settore ci lavora. Proprio questi sono tra gli spunti più gustosi del volume: si racconta nel dettaglio la mentalità imprenditoriale di Musk, il suo metodo di lavoro ossessivo e sfiancante, fino a svelare l’algoritmo di lavoro che impone ai propri dirigenti. C’è, e questo completa il quadro, anche spazio per le ricorrenti crisi isteriche e l’assenza di empatia di un uomo difficile, capace di svelarsi meglio di fronte a platee esultati che ai propri dipendenti.

Quello di Vance (molto più giovane di Isaacson: ha 45 anni, dieci di meno ai tempi della pubblicazione) è un volume ben scritto, ma dallo stile molto più giornalistico. Con tutti i pro e i contro che questo comporta. Ha solo la metà delle pagine, uno stile meno rilassato, più sincopato, che non disdegna la ricerca della frase a effetto, quella che tiene avvinto il lettore, proprio come è d’uso sui giornali. Anche Vance ha incontrato parecchie volte Musk e condotto molte interviste di persona; ma scava meno in profondità nella psicologia dell’uomo. Il libro, però, è molto ben documentato sugli inizi di Tesla e Space X, dal momento che si colloca otto anni prima di quello di Isaacson, quando i fatti erano più vicini. Vance lavora meglio, inoltre, sul contesto della Silicon Valley e della California  (su cui aveva scritto, in precedenza, un altro libro), mettendo in evidenza i legami tra Musk e il territorio che lo ha accolto. Considerazioni non certo indulgenti, peraltro, soprattutto quando narra la storia della bolla delle dot com di inizio millennio.

L’uomo dietro Musk, ovvero: è necessario essere spietati per fare innovazione?

Elon Musk è uno dei più grandi capitalisti di sempre. Proprio nel senso di “capitale”. E’ ritenuto l’uomo più ricco del mondo; in realtà, in queste classifiche si valutano azioni e quote societarie, il cui valore oscilla nel tempo. Insomma, è improbabile, ma potrebbe finire tutto in un battito di ciglia, perché gli asset fisici e la liquidità a lui riconducibili non possono rivaleggiare in scala.  

Dalla lettura di queste due importanti biografie, emerge una considerazione: il problema di Musk è la sua visione. Mi spiego.

Partiamo dall’inizio. Innanzitutto, il sudafricano non è un imprenditore del software; ha cominciato con quello, e ci è tornato l’anno scorso acquistando Twitter, ma le sue cose migliori le ha fatte con industrie che producono oggetti fisici, che si tratti di razzi, auto o pannelli solari.

La meccanica ha limiti intrinseci che impediscono alle aziende di crescere in maniera verticale (“scalare”, dicono quelli che non sanno l’inglese ma a cui piace mostrare competenza linguistica e manageriale). Il problema del miliardario naturalizzato americano è sempre stato destreggiarsi sulla sottile linea di confine tra le aspettative (che, non meno di Steve Jobs, e anzi imparandone la lezione, riusciva a creare),  e le capacità industriali di consegnare i prodotti finiti.

In poche parole: Musk riusciva a costruire narrazioni e a vendere le auto sulla carta, ma poi si trovava alle prese con il problema di produrle sul serio.

Anche con i razzi è andata così: ci sono voluti quattro lanci e centinaia di milioni di dollari per arrivare a trovare la quadra che facesse funzionare tutto. Sia Tesla che SpaceX sono sempre state sull’orlo del fallimento, perché entrate in settori industriali in cui gli attori consolidati si muovevano con passo pachidermico, con investimenti da miliardi di dollari, e solo quando erano sicuri di quello che facevano.

Musk, invece, è partito da zero in tutto: non sapeva come si costruiva una macchina, men che meno aveva un’idea di come si costruisse un razzo.

Per non bruciare tutta la liquidità di cui disponeva, ha dovuto concentrarsi su una sfida sopra tutte le altre: creare processi efficaci, ma snelli fino all’osso. Gli schemi vengono prima delle persone, si direbbe nel calcio.

Le produzioni industriali sono esposte ai saliscendi delle materie prime (che costavano molto, quando Musk ha cominciato all’inizio del millennio); le fabbriche costano moltissimo (immaginate di costruire uno stabilimento grande come trenta campi da calcio, con tutti i macchinari del caso); il personale, invece, era a  buon mercato. Nel senso che la sua capacità di selezionare i migliori neolaureati dalle università gli ha consentito di attingere a capacità intellettuali di prima categoria pagandole la metà di quanto costavano professionisti con solo qualche anno di esperienza in più sulle spalle.

Non solo: Musk riusciva a motivare queste persone a non avere una vita per tutto il tempo in cui lavoravano per lui, a trascorrere weekend e serate in ufficio senza lamentarsi, e anzi, credendo di partecipare a uno sforzo per portare l’umanità al, almeno lui la pensa così, livello successivo.

Nella sua visione, tutti sono utili, nessuno indispensabile: licenziò senza mezzi termini, racconta Vance, la storica assistente Mary Beth Brown: colpevole, dopo dieci anni di abnegazione, di aver chiesto un aumento. Vale la pena di raccontare l’episodio così come lo ricostruisce il giornalista (senza conferme dell’interessata, che mai ha chiarito): Musk le diede due settimane di vacanza, durante le quali, disse, avrebbe provato in prima persona a sostituirla e fare il suo lavoro, per capire quanto fosse complesso ( e se meritasse davvero l’aumento).

Come in un film dell’orrore, al ritorno dalle ferie, la Brown fu fatta accomodare all’uscita: l’imprenditore aveva concluso che la sua presenza non era più necessaria.

Probabilmente la richiesta della Brown non era tanto legata alle responsabilità che pur aveva, ma alle lunghissime ore trascorse in ufficio; ma cedendo alle pressioni di una sola, pensava Musk, si sarebbe creato un precedente in grado di innescare una rivolta. Così fu spietato. Le sue sfuriate sono leggendarie, così come il trattamento umiliante a cui sottopone i dipendenti (del resto, è competente – o almeno non del tutto ignorante –  su molte questioni tecniche, ed è quindi in grado di valutare).

La scarsità di risorse si risolse nella scelta di non fare ricorso a fornitori esterni per le proprie aziende, sia perché riteneva che fare da sé fosse più economico (nel lungo periodo), sia perché non sempre i fornitori erano all’altezza delle aspettative dal punto di vista qualitativo.

In conclusione

Nei due tomi c’è molto altro, e, francamente, li ritengo complementari più che alternativi. Dalla lettura combinata esce un ritratto ricco del personaggio, e completo, almeno in attesa del prossimo capitolo della saga.

Musk ha sicuramente qualcosa di Henry Ford, alfiere della modalità produttiva che prese il suo nome. Ne è consapevole: e, del resto, così come Ford chiamò la sua auto più famosa semplicemente “Model T”, tutte le Tesla si chiamano “Model” seguito da una lettera. Ford abbassò i prezzi delle auto ottimizzando i processi a scapito di chi le costruiva: stessa idea di Musk, partito col sogno di democratizzare le vetture elettriche, che prima di lui erano riservate a pochissimi, e dotate di prestazioni basse. Insomma, uno status symbol. Le Tesla sono velocissime, iper tecnologiche, anche se gli interni non possono certo paragonarsi a una Mercedes di lusso. Idem per i razzi: dopo di lui, non sono più i governi a lanciarli. Ormai lo spazio è un affare per privati. Ma forse, e nelle biografie appare chiaro, per lui l’obiettivo non era imprenditoriale. Era di altra scala: portare l’umanità su Marte, e salvare il pianeta, anche da sé stesso.

Le domande, però, sono tante. Dal punto di vista della strategia nazionale degli Stati, per esempio, si può intravedere una perdita di capacità costruttiva da parte dei governi (che certo sprecavano molti soldi, ma almeno operavano nell’interesse pubblico). Alla lunga, appaltare la conoscenza ai privati espone i Paesi in una posizione di sudditanza rispetto a chi questo sapere lo detiene, un po’ come sta avvenendo con le società di consulenza e le burocrazie, di cui sempre più spesso prendono il posto.

Non è solo economia. Ci sono le posizioni forti, i sospetti di razzismo, la tutela della libertà di espressione che in una società complessa e dotata di megafoni come le grandi piattaforme non può certo essere totale, a pena di esporre le democrazie a rischi esistenziali.

E poi c’è la questione dell’uomo, che si lega a quella dell’imprenditore. E’ necessario essere spietati per produrre grandi risultati? Quanto conta l’empatia? Quanto il benessere dei dipendenti?

Dietro la patina dorata del marketing, dietro alla riservatezza sui segreti industriali, oltre alle narrazioni, e a giudicare dalle ricostruzioni,il personale di Tesla e SpaceX pare piuttosto infelice. Musk rischia di essere il campione di un modo vecchio di fare impresa, di un capitalismo ottocentesco. Sicuramente è capace di sfruttare le ambizioni sfrenate dei dipendenti per spingerli oltre il limite. La questione è fino a che punto questo sia lecito. Per il momento, ha vinto lui, in attesa di qualcuno capace di fare di superarlo con metodi più ortodossi.

Quello che è certo è che i due tomi sono interessanti, e utilissimi per conoscere il personaggio. Due letture interessanti e avvicenti, come poche altre, per descrivere la parabola di un uomo che, nel bene e nel male, più di ogni altro ha contribuito a definire gli ultimi dieci anni.

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Cop28: un accordo in cui il clima c’entra poco

Quello di Cop28 è un accordo che fotografa la situazione di un mondo che, oggi, ha altre priorità rispetto al clima, dalle guerre all’economia. L’abbraccio tra John Kerry e Xie Zehnua, anziani inviati speciali dei rispettivi governi, è una questione politica più che ambientale. Un esercizio di diplomazia in uno scenario alla ricerca di stabilità, che non favoriva scossono e che alla fine si è risolto nel “business as usual”. Vediamo perché.  

Lo scontro tra Usa e Cina e la diplomazia del clima

Il contesto è la fine del mondo unipolare seguito alla caduta del muro di Berlino. Tramontata l’era della globalizzazione con il sogno di un governo globale, il mondo di oggi ha diversi centri di gravità, sempre più lontani dal Nord America e più vicini all’Asia.

La contesa chiave è tra le due superpotenze: se gli Stati Uniti sono in declino, la Cina, dal canto suo, è in ascesa. Tra i due giganti c’è una partita aperta su tutti i fronti, da quello commerciale a quello geopolitico. Il clima è, forse, l’unica sponda rimasta ad alleggerire la tensione.  

Washington prova a stringere alleanze in Asia. Pechino risponde.

Una buona sintesi la dà Robert Ross, professore di Scienze politiche al Boston College. “La Cina vuole più sicurezza in Asia orientale – dice il politologo -,  ed è determinata a minare le alleanze americane nella zona vicino alle proprie coste” dice. “Gli Stati Uniti, invece, stanno resistendo, cercando di mantenere il proprio ruolo di grande potenza, anzi: di unica superpotenza globale. E per questo motivo hanno innescato una guerra commerciale e tecnologica e incrementato la cooperazione con l’Europa, Corea del Sud, Taiwan, Filippine: tutto per indebolire il sistema economico cinese, rallentarne la crescita di Pechino e restare numero uno”.

Ricordiamo alcuni episodi, per sottolineare come, per comprendere Dubai, occorre allargare lo sguardo oltre all’ambiente: il bando di Huawei da parte del governo statunitense, i palloni spia cinesi intercettati sul suolo americano, i dazi reciproci sulle importazioni, le leggi come l’Inflation Reduction Act che privilegiano le imprese locali, e a cui Pechino ha risposto. Non solo. Nei giorni scorsi il governo cinese ha ordinato ai dipendenti statali di non utilizzare iPhone e Samsung come dispositivi per il lavoro, escludendo i due marchi. Per Apple (la più grande azienda americana) un chiaro segnale e uno spauracchio di quanto potrebbe accadere in caso la tensione si alzasse, dal momento che lì produce anche la maggior parte dei propri cellulari e realizza un quinto del fatturato.  

La politica ondivaga degli Usa sul clima

La politica climatica statunitense non ha molto da insegnare: dal rifiuto di aderire al protocollo di Kyoto al ritiro dall’Accordo di Parigi, sono tante le contraddizioni tra parole e fatti. La dichiarazione di Sunylands, resa pubblica il 14 novembre (due settimane prima di Cop), segna l’accordo tra Usa e Cina per spingere le rinnovabili. Una dichiarazione di buone intenzioni: ma in realtà Washington non ha mai prodotto tanto petrolio quanto oggi (qui una statistica che parte dal 1920) e anzi: negli ultimi quindici anni ha praticamente triplicato il numero di barili pompati.

Contraddizioni che, dalla prospettiva del Sud globale, si vedono chiaramente.

Come scrive il Financial Times, non certo un giornale terzomondista:

[…]something profound is happening in the world — a kind of metaphysical detachment of the west from the rest. Where many people in the rest of the world once saw the west as the answer to their problems, they now realise that they will have to find their own way”.

Le agenzie di pubbliche relazioni aiutano l’Ovest con i media e il pubblico di casa a far passare per “storico” un accordo che è un compromesso al ribasso; ma tre quarti del mondo che prima vedeva nell’Occidente guidato dall’America il parente ricco che ce l’ha fatta, un esempio da imitare, ha acquisito autocoscienza e non gli riconosce più alcuna autorità morale. Dall’Africa al vicino Oriente, dal Medio Oriente al Sudamerica fino all’Asia, è molto più forte il ricordo del passato coloniale e dello sfruttamento.

La Cina e la corsa allo sviluppo

Dal canto proprio, nonostante la Cina sia il Paese con la maggior potenza rinnovabile installata, Pechino non ha alcuna intenzione di lasciare petrolio e carbone a breve. E non è neanche particolarmente interessata a chiarire il proprio status di Paese ormai sviluppato, col dovere – quindi – di essere in prima linea nella transizione e di contribuire in maniera importante dal punto di vista finanziario alle varie iniziative multilaterali. Soprattutto in un momento in cui l’economia nazionale sta rallentando, come quello presente.

L’Opec

Se i giganti non si muovono, non si sogna certo di farlo per prima l’Opec, l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio. Anzi. Capeggiata dall’Arabia Saudita, ha fatto di tutto per bloccare un accordo a Dubai. Il benessere dei Paesi che affacciano sul Golfo Persico riposa sugli idrocarburi, e per quanto la necessità della transizione energetica sia ormai un fatto acclarato, ogni anno guadagnato significa, per chi li vende, migliaia di miliardi di dollari in più per preparare il futuro. Ai prezzi attuali, poi. Comprensibile, quindi, il rifiuto di cedere. Immaginate i grattacieli di Dubai senza i denari necessari alla costosa manutenzione: una città fantasma. La missione è riuscita, e infatti il testo dell’articolo 28 sul Global Stocktake, il più atteso, è così vago da far sorridere gli sceicchi, che possono cantare vittoria. Sui media occidentali sono stati dipinti come cattivi, l’unico capro espiatorio. Ma è troppo facile.

L’Africa e le piccole isole

Alla fine, a perderci èl’Africa e, soprattutto, le piccole isole, che fra qualche anno rischiano di vedersi sommerse. Se la nascita nel 2022 del fondo per il loss and damage era sembrato l’alba di una nuova era in cui sarebbe stato il Sud globale a dettare l’agenda climatica, quest’anno le posizioni tra G77 (il gruppo negoziale che accoglie buona parte del global south) e Cina paiono essersi allontanate. Qualcosa non torna. Le piccole isole hanno protestato per un accordo che a molti è parso un golpe – approvato in fretta e furia con una procedura irrituale a meno di due minuti dall’apertura della plenaria finale – ma con un comunicato diffuso in quelle stesse ore l’hanno parzialmente appoggiato. Resta da chiedersi in cambio di quale contropartita. Al buio delle dark room, al riparo da microfoni e taccuini nelle ultime quarantotto ore di clausura assoluta, tante sono state le trame tessute. Ma meglio fermarsi qui.

Finanza

Infine, nell’accordo di Dubai manca la finanza. Ancora una volta, non ci sono i soldi per consentire agli stati poveri di fare la transizione. E i denari sono la chiave di volte di tutto: senza, parliamo di filosofia buona per fare titoli di giornale, ma priva di impatto sulla realtà. Ci sono voluti quindici anni per raggiungere la soglia di cento miliardi di dollari per l’adattamento climatico: in realtà, ne servirebbero tremila ogni dodici mesi, trenta volte tanto. Il fondo per il loss and damage reso operativo due settimane fa all’inizio della conferenza di Dubai ha raccolto circa ottocento milioni di euro: gli Usa, storicamente contrari,  ne hanno messi solo diciassette. Poniamo che servano a beneficiare 140 paesi:  il conto fa  5,7 milioni a testa, a cui togliere le commissioni per la Banca mondiale (mi dicono attorno al 15%, qualcuno sostiene di più). Secondo un amico, quattro chilometri di ferrovia per arrivare dall’aeroporto di Malpensa a  un paese vicino costano circa duecento milioni di euro. I commenti li lascio a chi legge.

In conclusione

Articolo troppo lungo, mi scuso. Quale sarebbe stato, allora,  un risultato ottimale per questa Cop che si è tenuta  in uno dei più grandi paesi esportatori di petrolio? Dal mio punto di vista: phase down con tabella di marcia meno vaga che consentisse di centrare la finestra del 2030; passi differenziati tra mondo occidentale e paesi in via di sviluppo; vera finanza climatica.

Cito di nuovo il Financial Times.

We have to talk to each other. But we must do so as equals. The condescension must end. The time has come for a dialogue based on mutual respect between the west and the rest”. Dopo la delusione iniziale, che – confesso – a Dubai mi ha preso, è il momento di tirare una linea e ricominciare a rimboccarsi le maniche, lavorare per il futuro. Per far sì che sia migliore del presente. Qualcuno lo chiama il dovere dell’ottimismo. E probabilmente ha ragione.

Foto di Travis Leery su Unsplash

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Troppi partecipanti: chi può permettersi di organizzare le Cop?

Dubai – Pare che nessuno voglia organizzare le prossime Cop. O possa permetterselo. La conferenza viene assegnata a turno, procedendo per macroaree , ma è necessario il consenso di tutti i paesi della zona per ottenere l’incarico. L’anno prossimo toccherebbe all’Europa dell’est, ma il veto della Russia, contraria a paesi Ue per via del sostegno all’Ucraina, rischia di bloccare tutto. Se l’accordo non arrivasse, le regole prevedono che tocchi all’ultimo organizzatore, cioè gli Emirati. Ma il presidente Sultan al Jaber ha già detto, in sostanza, che il Paese non è disponibile.  Si valuta l’idea di andare a Bonn, dove tutto cominciò negli anni Novanta. Ma anche la Germania non ci tiene. E nelle ultime ore ha preso quota l’ipotesei Azerbaijan. Come finirà lo vedremo.

Il fatto è che le conferenze stanno diventando sempre più grandi: quest’anno ci sono circa ottantamila partecipanti. Anche una città come Dubai e una struttura come quella del centro congressi costruito per l’Expo 2020 faticano a ospitarle. Il record precedente appartiene a Sharm el Sheikh l’anno scorso: praticamente un raddoppio in dodici mesi. Bonn, città di trecentomila abitanti, non potrebbe permetterselo. Anche per la difficoltà di alloggiarle: come si vide bene a Glasgow, con stanze affittate anche a cinquemila euro a notte dagli speculatori, e delegati che dormivano a due ore di treno.

A Dubai invece gli spazi ci sono, ma il problema sono le code dovute ai controlli che le procedure antiterrorismo impongono. I primi giorni servivano anche due ore per entrare. Il che pesa, e parecchio, sulla fatica dei delegati, le cui giornate cominciano molto presto e finiscono, al solito, molto tardi. La situazione è migliorata, ora che ci si avvia alla fine.

Insomma, per fare una battuta, a causa delle code pare che non ci sia la fila per organizzare le Cop. Il Brasile ha già prenotato quella del 2025 a Belem, in Amazzonia. Darebbe visibilità a un Paese che si trova ad affrontare una crisi dopo l’altra, l’ultima la siccità proprio nel polmone verde.

Ma se organizzare una conferenza delle parti è il modo per ottenere l’attenzione che molte tematiche richiedono e di cui molti Stati hanno bisogno, il problema è che non tutti sono in grado di gestire un impegno del genere a livello logistico. Da conferenze di nicchia, per esperti, come erano nate negli anni Novanta (la prima a Bonn fece registrare tremila delegati, tutti tecnici), le Cop si sono democratizzate di  pari passo con il ruolo che la crisi del clima ha assunto nel dibattito pubblico.

È il paradosso dell’inclusività – dice Jacopo Bencini, policy advisor della rete di scienziati Italian Climate Network -. Si è risposto sì alle richieste di incremento badge da parte delle delegazioni, che si sono costruite delle professionalità di cui nei primi anni non disponevano e le portano con sé per dare forza all’azione negoziale; ma si è risposto in maniera affermativa anche alle nuove richieste di rappresentanza da parte di media, osservatori e società civile”. Senza parlare dei lobbisti, un esercito che cresce di anno in anno e comprende molti grandi gruppi coinvolti nelle fonti fossili, in grado di mettere pressione ai governi e ai negoziatori. Quest’anno si è toccato il numero record di 2.456 persone con legami con l’industria del petrolio e delle fonti fossili, secondo la stima della rete Kick Big Polluter Out.

Non solo. L’attenzione internazionale può trasformarsi facilmente in un boomerang: tutto deve essere perfetto, nessuno può permettersi di sbagliare con il meglio della stampa internazionale radunato in massa per coprire l’evento. L’anno scorso a Sharm el Sheikh divenne virale il video di una perdita del sistema fognario: un odore nauseabondo per un paio di giorni si sparse sulla vasta area della conferenza, con liquami che scorrevano tra i viali. Non una bella fotografia. Per non parlare del fatto che la costruzione dei siti spesso viene portata a termine con l’impiego di manodopera a basso costo, e l’attenzione mediatica attira le inchieste.

Inoltre, il tema delle proteste: se gli Stati mediorientali negli ultimi due anni non si sono fatti problemi a vietarle nonostante le critiche a livello internazionale, in alcune realtà la faccenda può diventare più problematica, se non altro per una questione di reputazione: non sono molti i governi che ci tengono ad apparire come autoritari.

La somma porta alla difficoltà, per le Nazioni unite, di trovare un sito. L’Australia si è offerta per il 2026; il presidente indiano Modi ha proposto l’India per il 2028. La partita è aperta. Un altro dei nodi da sciogliere per i prossimi anni, e nemmeno il più semplice. In crisi c’è il criterio della turnazione: quello, cioè, che fornisce rappresentatività anche alle aree del mondo meno mediatiche.

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Gaza, tre punti fermi

“Per favore, basta con le donazioni in denaro” dice Maha Hussaini, giornalista e attivista palestinese. “Il soldi a Gaza sono inutili dal momento che non c’è niente da comprare nei supermercati” afferma postando la foto di uno scaffale vuoto. Intanto i medici locali rispondono ai colleghi israeliani che avevano affermato in una lettera che bombardare l’ospedale di al-Shifa, il più grande centro medico di Gaza, fosse un “diritto legittimo”. “Avete tradito la vostra nobile professione e ne portate la responsabilità” scrivono. “Come medici siamo ambasciatori di pace”.

A un mese dallo scoppio delle ostilità, la domanda è: come se ne esce? Forse le parole più sensate che ho letto finora sulla guerra Israele – Hamas sono di Stefano Mannoni (giurista dell’Università di Firenze), pubblicate da Milano Finanza.

Il conflitto ha già fatto oltre diecimila morti palestinesi (molte migliaia sono bambini, come sottolineava il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres). Croci che vanno aggiunte alle 1.400 vittime israeliane dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, e sommate ai feriti, alle devastazioni, ai traumi psicologici che ci porteremo dietro a lungo.

“[….] A mio parere – scrive Mannoni – ne discendono un certo numero di conseguenze. La prima è che gli abitanti di Gaza sono le prime vittime di Hamas e non possono pertanto diventarlo due volte – siamo arrivati a 10.000 morti dichiarati – per la sistematica violazione da parte delle forze armate israeliane dei più basici principi di necessità e proporzionalità sanciti dal diritto internazionale umanitario. La punizione collettiva inflitta ai civili, che comincia a innervosire anche gli americani, deve cessare. Si chiamino pure «pause umanitarie», ma esse devono essere implementate con tutto ciò che ne consegue in termini di approvvigionamento della popolazione. […]

In secondo luogo Benjamin Netanyahu, che aveva posto come punto programmatico del suo governo l’affermazione della sovranità israeliana su «Giudea e Samaria» (sic! Tradotto: Cisgiordania occupata) si deve dimettere insieme ai ministri etnoreligiosi che ha imbarcato nel gabinetto, Ben-Gvir e Smotrich.

Terzo, è necessario immaginare un mandato fiduciario delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea su Gaza e Cisgiordania, strettamente temporaneo, per realizzare quello che si chiama lo State building in aree nelle quali le inadeguate dirigenze palestinesi hanno dilapidato fiumi di denaro in corruzione e armi.

Solo a queste condizioni, la soluzione dei due Stati, rispolverata dal cassetto dopo due decenni di oblio, può sperare di piantare qualche radice profonda”.

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