Questione di atmosfera, profumi, suoni, vociare: al viaggiatore giunto a Napoli, bastava scendere dal treno per capire di trovarsi all’ombra del Vesuvio. Ma l’altro giorno ho provato una sensazione diversa, di deja vu. In città per festeggiare lo scudetto – festa rimandata, peraltro – mi è sembrato, mai accaduto, di trovarmi in un posto simile a molti altri. Una Venezia, una Firenze, solo un po’ meno linda. Cosa accomuna queste città d’arte universali? Il sovraturismo, direi, che le ha rese quasi parodie, caricature di sé stesse.
Non è accaduto subito. Ci ho messo un po’ ad accorgermene, a decodificare quella sensazione. Ma camminando per le vie dei Quartieri Spagnoli invase da tifosi e bandiere, tra souvenir, chincaglieria e odore di fritto, mi è parso ci fosse meno spontaneità di una volta.
Intendiamoci, la gioia dei napoletani per la vittoria (quasi certa) dello scudetto è vera, viscerale. Nulla può spiegarla a chi non l’abbia avvicinata, magari a casa di amici di amici, dopo una conoscenza durata pochi minuti. Ci è accaduto al rione Sanità, “salvato”, dice un residente, “dalle telecamere a circuito chiuso”. Ma in questo caso siamo lontani dai riflettori.
In centro, tra i bassi, qualcosa non torna a chi conosce il capoluogo campano. Tutto è vero, eppure niente lo pare completamente. Come se l’anima pittoresca della città di Totò fosse stata colorata a tinte troppo brillanti; come dopo un filtro su Instagram, o in una foto dalla postproduzione eccessiva.
Coordinamento, forse è questa la parola giusta, quello che stona. Al posto della confusione che è il marchio di fabbrica di una città che ha saputo elevare il caos ad arte, i festoni si succedono seguendo linee dalle geometrie sin troppo regolari. Degli storici locali in cui si veniva presi a maleparole se non ci si affrettava a liberare posto, restano tanti ristorantini ordinati e pronti per accogliere i turisti, con tavolinetti disposti in bella fila sui lastroni e menu in inglese più o meno perfetto. Ogni tanto qualche anziana si affaccia a spiare da dietro le imposte questo flusso che ha una fisionomia diversa da quella delle passeggiate domenicali di chi abita nei comuni della cintura: è lo sciame dei turisti vestiti alla stessa maniera, da Milano a Santorini, da Amsterdam a Londra. Stesse scarpe, stessi giubbotti, stessi telefoni. Largo Maradona, un anfratto tra i vicoli dedicato al compianto numero dieci celeste, è un luogo troppo ingenuo per essere vero, sovraccarico com’è di memorabilia, bandiere, dediche.
Dove sta andando Napoli? Confesso di non avere una risposta.
Presto per parlare di gentrification, ma si tratta di fenomeni già visti altrove, che un amministratore deve tenere presenti.
Un amico, buon conoscitore della città, mi dice: si trova nel pieno di un vorticoso processo di sviluppo, non si può sapere ora dove e come finirà. In certi quartieri, aggiunge, prima era difficile anche pensare di mettere piede: bisogna ricordarselo, prima di giudicare.
Ha ragione, penso. Ma c’è qualcosa che ancora non mi convince, un dubbio che mi punge. Qualcosa di cui è difficile parlare, perché mancano il tempo e lo spazio per provare ad argomentare, e farlo espone alla replica – facile – di chi contrappone sviluppo turistico e povertà. Napoli non ha forse il diritto di promuoversi e provare ad attirare i viaggiatori come le altre?
Certo che sì, ma forse dovrebbe confrontarsi con qualche domanda, ora che va di moda e Mare fuori è la serie tv più vista tra le decine che affollano i palinsesti. Di chi sono le attività che sorgono come funghi tra i vicoli? In che maniera il denaro che arriva dai turisti si redistribuisce sul territorio e diventa un’opportunità per il futuro dei residenti?
E ancora: che ne sarà, di questi residenti? Si è visto a Venezia, svuotata negli anni, trasformata in un enorme albergo. Potrebbe accadere anche qui.
Non vorrei che la città, una delle poche ad averne ancora una, perdesse la proprie identità.
La questione, tutto sommato, è vecchia, e forse bisogna rassegnarsi al fatto che prima o poi anche le (poche) realtà che hanno resistito cadranno nel gorgo dei selfie stick, degli occhiali a specchio, dei viaggi con le Hogan (abbiamo anche avuto giornalisti che ci sono andati in Ucraina, con le Hogan, se è per questo). Eppure mi chiedo: possibile che non esista un modello diverso? Un modello di turismo che possa portare benessere senza sovraccaricare i quartieri, trasformandoli in luoghi da selfie, in fondo violentandoli? Pongo la domanda a chi ne sa più di me, perché mi è difficile rispondere.
Mi viene in mente Medellìn, in Colombia. Una città profondamente cambiata dai tempi di Pablo Escobar, che è diventata la più moderna del Paese, l’unica, ad esempio, ad avere una metropolitana. Ci sono aziende e un grande incubatore di startup per i giovani “talenti” che garantiscono copertine e articoli, uno dei quali vergato da chi scrive. E gli altri, i dimenticati? Agli angoli delle strade sono sdraiati i fumatori di crack, ombre senza speranza. Si può passeggiare – con una guida – per la Comuna 13, un sobborgo tra i più problematici; ma può facilmente capitare di essere rapinati, tranne nel lussuosissimo quartiere del Poblado, dove hamburgerie veg, cocktail bar e saloni di bellezza all’europea appartengono a individui poco raccomandabili. Alcuni dei quali, nostri connazionali.
Anche in Colombia emerge la contraddizione forse insanabile: il turismo, le carovane di turisti che sfilano tra le case della Comuna 13 sono mal sopportate dai residenti; ma rappresentano forse l’unica salvezza per i ragazzi che imparano le lingue su YouTube, hanno visto omicidi mentre andavano a scuola, e sognano un futuro in Europa quando si scambiano indirizzi e email con chi arriva. C’è la corruzione, il degrado, e la tensione verso il futuro, la modernità. Dove sta la verità?
Come si cambia – stavo per scrivere: si salva – una città senza snaturarla?
Certe scelte vanno fatte adesso che Napoli è di moda, e la sigla di Mare fuori la cantano anche a Milano sui tram.
Non vorrei che la città fosse svenduta alla speculazione di chi è sempre a caccia di nuove occasioni di investimento.
Non vorrei mai vedere, anche qui, i residenti storici cacciati dal centro perché i prezzi degli apppartamenti aumentano a causa degli affitti brevi, per finire in periferie destinate a restare ghetti. I riflettori accesi da una parte, le luci spente dall’altra. Fenomeni cui abbiamo già assistito. Non vorrei, insomma, che Napoli, che finora è rimasta un passo indietro, finisse per cedere e diventasse un’altra galleria di immagini da cartolina, che il turista si vede scorrere davanti, senza riuscire a coglierne l’anima e il dolore, che in quei vicoli è sempre esistito ed esiste. Insomma, che l’odore di un benessere improbabile proprio perché improvviso ne cancellasse l’umanità: ciò che da sempre la contraddistingue.