Gli scontri in piazza a Parigi
esteri, politica, reportage

Quello che resta degli scontri di Parigi

Chissà che cosa deve aver pensato Emmanuele Macron quando il 24 marzo, assieme al vento e alla pioggia che dalla mattina si alternavano a squarci di sole, dal cielo di Parigi è scesa la grandine. Probabilmente, che se i chicchi fossero arrivati un giorno prima la capitale non sarebbe stata messa a ferro e fuoco. Che il destino di chi ha salvato la Francia per due volte da Marine Le Pen è ben triste, se la piazza gli si rivolta contro con una manifestazione da Sessantotto. E che quando ci si mette anche il meteo, c’è poco da fare. Meglio rassegnarsi.

Macron non è simpatico. Ho avuto l’occasione di vederlo da molto vicino a Sharm el Sheick, parliamo di istanti, ma la prima impressione – diceva qualcuno – si forma in dieci secondi, e passiamo tutta la vita solo a confermarla. Monsieur le President è un primo della classe, arrivato al potere giovanissimo, appoggiato da potentati economici i cui contorni non saranno mai del tutto chiari – come quelli di Renzi, per capirci – e, non ultimo, dall’Unione europea. E’ di sinistra perché non è di destra, non mi viene una definizione migliore. Certo, sui diritti civili il posizionamento è innegabile. Ma con la gauche, come è intesa in riva alla Senna, non ha niente a che spartire. E nemmeno con la rive gauche, quella degli intellettuali. L’inquilino dell’Eliseo è piuttosto un tipo pragmatico, metodico, uno che ama avere la situazione sotto controllo e che ha sempre la risposta pronta. Più maturo della sua età sin da quando era giovane, e ha sposato una donna che potrebbe essere sua madre.

Il problema dei tipi come Macron è che capiscono molto in fretta, baciati da una razionalità superiore. Non sono cattivi, ma mancano di empatia. Il presidente conosce la matematica abbastanza per sapere che, se l’età media si allunga, un sistema pensionistico pensato nell’Ottocento – quando si campava in media meno di sessant’anni – non può reggere.

Quindi, sicuro di non potersi ricandidare e senza più niente da perdere, all’inizio del secondo mandato ha fatto quello che un governante deve fare: la cosa giusta, anche se impopolare. In questo caso, alzare l’età del pensionamento di un paio d’anni, portandola da 62 a 64. Bastano un foglio e una matita per capire che ha ragione.

Il fatto è che nella piazza di giovedì, tre milioni di persone che hanno marciato da place de la Bastille all’Opera dopo dieci giorni di proteste, di razionalità ce n’era ben poca.

Abbiamo camminato coi manifestanti da place d’Italie fino al concentramento, e poi ancora verso i punti critici. Per strada c’erano persone comuni, gente di mezza età, studenti, pensionati – che la pensione, quindi, già la percepiscono – e poi, a guardare bene, tutti gli strati sociali. C’erano diplomi, lauree, elementari, licenze medie, senza che fosse possibile individuare un senso. Slogan comunisti misti a rivendicazioni più moderate. Qualcuno ha provato a prenderla con un sorriso: ma erano, francamente, pochi. Sguardi torvi, la rabbia si respirava a ogni passo, più forte assieme alle sirene, assordanti; e a ogni metro percorso, quando il serpente cominciava a raggomitolarsi e a mostrare la potenza delle proprie spire proprio in place de la Bastille, la psicologia dell’individuo cedeva il passo a quella, molto più pericolosa, delle folle. Risate. Qualcuno sparava bombe carta che spaventavano la gente, e rideva, per aver fatto paura a chi, in teoria, ne condivideva la lotta. I compagni a fianco, come da copione, assistevano. Sopportavano, in qualche caso scattavano persino foto ricordo.Non condividevano, forse, ma non protestavano, e questo è il prodromo delle escalation di piazza.

Si creava, insomma, quella sensazione di impunità per la quale esiste una zona franca dai limiti, una finestra temporale in cui tutto è permesso, in cui si arriva a concedersi atti da cui, in un contesto diverso, ci si asterrebbe per prudenza.

Probabilmente esisteva una componente organizzata e violenta che ha cercato lo scontro e la devastazione come unica ragione della propria presenza. Accanto a loro, però, e accanto alla gente normale, sfilava questa accozzaglia di codardi da branco. Quanti erano? Facciamo una stima, approssimativa perché basata sull’osservazione di chi ha esplorato un unico settore: uno ogni venticinque, trenta.

Quella di giovedì mi pare sia stata una manifestazione di pancia. Le rivendicazioni erano slegate dalla logica, anche chi aveva gli strumenti per capire si rifiutava di farlo. Mi sembra si possa inscrivere, piuttosto, in quel rifiuto più generale del sacrificio, della vita passata al lavoro, che caratterizza gli anni dopo la pandemia. La quale, dopo aver costretto a casa miliardi di persone, le ha abbandonate con la consapevolezza che passare due ore al giorno in automobile o sui mezzi per lavorarne altre otto – se va bene – è una follia. Che vivere in città dove uno stipendio basta a malapena a pagare un affitto è un controsenso in termini. Che le macchine, lontano dalla promessa di Keynes, ci hanno portato a lavorare di più e non di meno. E che questo surplus va sempre più a beneficio di pochi.

Ci si può chiedere come da questa logica stringente si possa passare alle devastazioni, e che cosa si possa salvare tra i cassonetti bruciati. Ma non dimentichiamo che in piazza c’erano tre milioni di persone – la polizia ne stimava centomila alla vigilia – , e sono tante, tantissime.

Qualcosa di simile era accaduto coi novax.

Si cerca un motivo per protestare, un pretesto, senza riuscire a tradurre le sensazioni in un pensiero coerente. Un tempo questo compito spettava a partiti e sindacati, i cosiddetti corpi intermedi: ma la gente non si fida più, e marcia da sola e alla mercé di minoranze organizzate che aspettano acquattate di intestarsi la protesta. Ironicamente, En marche è il nome del movimento che ha condotto al poter Macron.

Sono tempi duri, qualcosa si sta muovendo, non si capisce in che direzione. Se esprimere un disagio è corretto, e mettere a ferro e fuoco una città non lo è, cosa resta degli scontri di Parigi? L’umore della piazza è mutevole. Il presidente francese era stato acclamato a maggio, è ancora vivido il ricordo della folla radunata sotto la torre Eiffel per festeggiare la vittoria. Poi, però, quando ha assolto al compito per cui era stato chiamato – governare -, il botto. C’è rifiuto dell’autorità, della razionalità. Frustrazione, in una città dove i clochard sono ovunque, molto più che in qualunque altro posto, e dormono persino nei campetti da basket sotto i ponti della metropolitana dove i bambini giocano facendo attenzione a non lanciargli il pallone in testa. I ricchi da una parte, i poveri dall’altra. Le babysitter inglesi, le startup, la fisica quantistica e la potenza nucleare contro il destino di emarginazione già scritto a quattordici anni degli immigrati: li riconosci subito, girano in branco con cappelli di pelliccia e borse Gucci, calano in città dalle banlieu, e prendono tutto quello che possono perché sanno che, a loro, il domani non riserva niente. La grandeur, il ruolo della Francia, la scena mondiale e la ragione contano poco per chi non ha molto: e soprattutto non ha speranza. Confinati nei ghetti, lontani dagli edifici con le facciate dipinte da murales che mostrano il volto di una città moderna e fintamente inclusiva, non cercano altro che un’occasione per essere ascoltati. E se la prendono, come bambini che urlano, senza sapere perché, in attesa di un genitore che traduca il loro disagio in richieste. Sono loro, rimasti indietro nella corsa al futuro. E non c’è welfare, soccorso sociale che possa salvarli perché anche quello è già un ghetto. La Francia è un Paese costruito sulle colonie, quindi sullo sfruttamento. Ma ha marginalizzato i propri figli, che ora le si rivoltano contro, offrendo a chi sta dalla parte giusta l’occasione non per una riflessione, ma per l’ennesima condanna.

Non si possono condividere le bombe carta, ma chi ha gli strumenti per capire, deve accogliere la verità che siamo di fronte a un sistema che ha fallito e ha prodotto disuguaglianze ammantate dal marketing dei diritti. Il primo è quello al futuro. E per tanti è solo un miraggio.

[foto in alto: da Internazionale, le altre sono mie]  

Qui qualche video che ho girato a Parigi 1 | 2 | 3. Sono ospitati su Facebook. Per chi non l’avesse, qui su Instagram ci sono gli stessi video assieme a molte foto.

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economia, reportage, startup

Medellín, l’ex capitale dei narcos è diventata la casa delle startup

Questo articolo è stato pubblicato su Wired

Sei piani, porte a vetri, arredamento moderno. Dista un paio di chilometri dal centro, si chiama Ruta N e da dieci anni è l’acceleratore di startup di Medellín. Tra gli ampi corridoi si aggirano giovani che per sogni, speranze e preparazione sono simili a quelli delle città europee e nordamericane. Spesso hanno studiato all’estero, in molti casi sono tornati. Per restare. Sono loro l’avanguardia della rivoluzione digitale che sta portando la Colombia verso una modernità, per larghi versi, ancora lontana.

Medellín-Milano e ritorno

Era il regno dei narcos, con un tasso di omicidi da zona di guerra. La vita valeva poco a Medellín, quando Pablo Escobar dettava legge e, per sfidare le istituzioni, si faceva persino eleggere in Parlamento. Freddato dalla polizia nel 1991 nel corso di un rocambolesco inseguimento, quella che oggi è la capitale industriale della Colombia si è ritrovata a gestirne il lascito: un’eredità terrificante fatta di cocaina e violenza, un brand globale della paura che non temeva rivali.

Da allora sono trascorsi trent’anni, e le tracce di quel passato servono a spillare quattrini ai turisti sulle bancarelle che vendono souvenir. Medellìn oggi vive tutte le contraddizioni delle metropoli dell’America Latina. La droga non è sparita: si vedono spesso tossicodipendenti malridotti per le strade, ragazzi che sniffano colla.  Ma non è più solo questo. Gemellata con Milano e Bilbao, in tre decenni ha cambiato volto, grazie a un attento lavoro di ricostruzione.

L’ingresso di Ruta N a Medellin (foto dell’autore)

Felipe Vanegas ha una laurea in architettura, un passato a Milano e un presente ben saldo nella città colombiana. Dopo gli studi nell’ateneo locale, ha trascorso un anno alla Domus Academy per frequentare un corso di Business design prima di staccare il biglietto di ritorno. L’incontro avviene mentre discute con alcuni colleghi in uno dei tanti angoli dedicati al networking di Ruta N. Si offre di fare da guida all’interno del complesso. Insiste per parlare italiano. “Dopo l’esperienza da voi – racconta – sono tornato qui per aprire la mia azienda. Ci occupiamo di consulenza nel settore gastronomico e realizziamo anche workshop”. Perché a Medellín? “È il vero centro dell’innovazione del paese, ancora più della capitale Bogotà: in tanti vengono qui a cercare fortuna da tutto il Sudamerica”.

La “città dell’eterna primavera” strappata ai narcos con un’opera di riqualificazione ambiziosa, nel 2013 ha vinto il premo di Most Innovative City in the World, davanti a competitor molto più blasonati come New York e a Tel Aviv. E non ci sta a restare dietro alla capitale. “E perché dovremmo? Siamo probabilmente più avanti rispetto al resto del paese” rilancia Sergio Naranjo, responsabile della comunicazione di Ruta N. “La Colombia investe lo 0,69% del bilancio in innovazione: a Medellín ci attestiamo all’1,24%. Quasi il doppioBogotà è la capitale, il posto dove si prendono le decisioni politiche ed economiche: ma qui c’è integrazione tra l’ecosistema delle startup e il territorio, che si tratti di pubblica amministrazione o del tessuto universitario. Il futuro? Ci candidiamo a essere il prossimo hub dell’innovazione in Sudamerica”. D’altronde il Cile, per anni Mecca locale della tecnologia, è oggi attraversato da tensioni politiche. E il Brasile, con i suoi contrasti tra lusso e povertà estrema, resta un posto troppo pericoloso per gli affari.

La voce ha cominciato a spargersi. Diverse multinazionali hanno deciso di investire in Ruta N, attirate dal cambio estremamente favorevole e dagli stipendi bassi (il salario minimo in Colombia si aggira attorno all’equivalente di poco più di 200 euro). Le imprese occidentali “fanno la spesa” e cominciano a cercare qui le professionalità di cui hanno sempre più bisogno. Quelle che, oggi, in Europa, costano troppo: esperti di intelligenza artificiale, data analysts, ingegneri. La delocalizzazione ha trovato un’altra meta.

I numeri raccontano una storia che ha già diversi capitoli. Da quando è nato, l’acceleratore ha attratto oltre 400 milioni di dollari in private equity, e le oltre 200 aziende presenti nell’edificio provengono da 31 paesi differenti, Stati Uniti e UE in testa. Tra i big, nomi come UPS, Black&Decker, Accenture. Una scrivania o un ufficio nel palazzo, ha verificato Wired, costano poco meno che a Milano. Cifre che, da queste parti, possono permettersi in pochi. Ma le relazioni, si sa, contano: e, per fare affari con la modernità in Colombia, è questo il posto dove essere. A tutti i costi.

Viaggio nel passato

Lasciamo Ruta N, il suo acciaio e i suoi vetri.  Camminando verso il centro della città, la Colombia torna a essere un paese in cerca di futuro. Officine meccaniche, negozi di frutta, vestiti usati, elettronica di consumo si affastellano uno sopra l’altro. Bancarelle di mercato, giornalai coloratissimi. Vecchi col cappello che giocano a carte. Qualcuno che con una chitarra canta canzoni popolari, e subito si forma un capannello di gente. Bambini giocano per strada, venditori ambulanti offrono minutos, chiamate telefoniche acquistate in blocco e rivendute al dettaglio ai passanti. Scordatevi gli abbonamenti flat.

La presenza di un europeo si nota ancora, eccome, e conviene ricordarsi di non dare troppo nell’occhio. Nonostante questo, nella città simbolo del dramma colombiano ci si sente decisamente più sicuri che a Bogotà: nella capitale, ogni bar, albergo, persino ogni università si presenta agli occhi di chi arriva con un corredo nero di guardie torve armate fino ai denti.

Parcheggiati di fronte ai muri fanno bella mostra di sé i monopattini elettrici usati dai giovani per scorrazzare sui marciapiedi come accade Milano, Parigi, Varsavia. Ma non solo: Medellìn è l’unica città in Colombia ad avere una rete di metropolitana. E una delle due linee è completamente automatizzata e senza conducente.

Chitarre e canti popolari nel centro del Medellin (foto dell’autore)

Rappi, dal food delivery alla salute

Poblado è il quartiere alla moda, dove si concentra la vita notturna cittadina. Qua si trova ogni tipo di cucina, e quando si avvicina ora di cena anche qui sfrecciano veloci i ragazzi del food delivery.

Macchine occidentali al Poblado, quartiere della movida di Medellìn (foto dell’autore)

Il principale player colombiano (e di tutto il Sudamerica) si chiama Rappi: un unicorno da oltre 3 miliardi di dollari di valore. L’ultimo round (series E) chiuso dall’azienda di Felipe Villamarin, Sebastian Mejia e Simon Borrero risale al 30 aprile scorso, e ha portato circa un miliardo di dollari di liquidità nelle casse della compagnia fondata a Bogotà nel 2015, e oggi attiva in 35 città. Questa volta i soldi li ha messi (tra gli altri) il gigante SoftBank, che ha recentemente aperto un proprio Innovation Fund ed è decisa a investire in America Latina. I rumours raccontano di parecchi licenziamenti nelle ultime settimane, ma stiamo parlando di un player, Rappi, capace di diversificare, e che guarda già avanti.

Un rider di Rappi a Bogotà (ph: Antonio Piemontese)

Attualmente, infatti,  l’azienda fondata a Bogotà si occupa solo di food: ma l’idea è quella di aprire presto, prestissimo ad altri settori. Come l’healthcare.

Sarà per questo che anche la francese Sanofi ha messo nel mirino la scale-up colombiana: lo scorso marzo le due realtà hanno siglato un accordo per portare le medicine direttamente a casa dei pazienti. Per Juan Sebastian Ruales, direttore commerciale di Rappi, “non conta quello che le persone dicono di fare ma quello che mettono nel carrello. Se dici di essere in forma ma poi acquisti un mucchio di hamburger su Rappi, sappiamo che non lo sei poi tanto”. Non fa una piega. Il business è, ovviamente, quello dei dati. Per il momento, Sanofi avrebbe intenzione di utilizzare Rappi solo come veicolo pubblicitario. Ma nei piani della scale-up per il prossimo futuro ci sarebbero la consegna di farmaci da banco, prescrizioni, e persino la prenotazione di visite mediche domiciliari. Le sinergie sono tutte da creare.

Sudamerica 4.0

Il Sudamerica è un mercato da centinaia di milioni di persone in cerca di benessere. La gig economy è arrivata anche qui. Molti dei ragazzi che effettuano le consegne per Rappi fanno parte di quel milione e mezzo di venezuelani scappati dalla crisi del paese centro-americano. Il salario minimo in Colombia ammonta a poco più di 200 euro: loro lavorano per la metà. Facile immaginare che non siano ben visti dalla gente del posto.

Anche Uber ha piantato la propria bandiera. Nelle grandi città, a fianco dei taxi ufficiali – tantissimi e a buon mercato, almeno per il turista – c’è sempre l’opzione di prenotare una corsa con il gigante californiano della mobilità. “Non è del tutto legale” – confida Armando, nome di fantasia di un autista che preferisce non rivelare la propria identità – “Quando la vettura che hai prenotato arriva, ad esempio, non puoi fermarla e chiedere se si tratta di un Uber. Facile che chi è alla guida non ti risponda, perché, altrimenti, per la legge farebbe concorrenza ai taxi. Direi che, più che illegale, è a-legale. Una zona grigia in cui, comunque, si riesce a lavorare bene”.

Comuna 13: una scala verso il cielo

La mattina dopo con Armando si arriva alla Comuna 13, il barrio di Pablo Escobar. Qui il super boss regnava incontrastato, da qui governava il paese. Oggi all’interno di case dai muri poveri e tetti in lamiera ci sono computer e parabole. Tanti ragazzi hanno studiato l’inglese e si offrono come guide per i turisti alla ricerca di uno scorcio diverso di Medellín.

Medellin, vista dall’alto del barrio Comuna 13 (ph.: Antonio Piemontese)

Su tutto, domina un’enorme scala mobile che dalla base – il barrio si trova in collina – conduce fino in cima. Non è raro trovare persone che hanno visto morire parenti colpiti da sventagliate di mitra. Ma l’ascensore sociale rappresentato dalla scala è il simbolo della volontà di molti degli abitanti (e dell’amministrazione) di scrollarsi di dosso l’infamia del passato.

Nel quartiere le brutte compagnie sono ancora facili da trovare: tredicenni che hanno marinato la scuola sniffano a cielo aperto senza curarsi di noi. La salvezza è rappresentata da un computer. Anni fa, racconta Josè, venticinquenne che si è inventato un lavoro da guida, il laboratorio di informatica inaugurato nell’istituto locale ha permesso agli studenti di connettersi con il mondo e immaginarsi un futuro all’occidentale. Così, di video in video, si ritrova un inglese perfetto, con cui guadagna in pregiati dollari americani.

Adesso vuole aprire un ostello internazionale per ospitare coetanei nel quartiere dove è cresciuto, non prima di aver girato il mondo nelle case dei turisti che accompagna. Il networking, segno dei tempi. In realtà, Josè sa che senza lavoro la tentazione dei narcos è più allettante: e forse il turismo, come il digitale e le startup, possono davvero aiutare la Colombia a svoltare. Non sarà facile. L’anno scorso è stato un anno record per le esportazioni di cocaina, larghe zone del paese sono insicure e la violenza delle bande è reale. Ma qualcosa è cambiato dai tempi di Pablo. C’è voglia di riscrivere un futuro che pareva già segnato. E, anche questo, si respira nell’aria.

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