ambiente, cronaca, sostenibilità

Alluvione in Romagna, non sempre c’è un colpevole

Proviamo a fare il punto a mente un po’ più lucida su questi giorni di alluvioni e disastri in Romagna. Tanti – e anche molti giornali – parlano di urbanistica, consumo di suolo, di responsabilità delle amministrazioni: ma è solo una parte del problema, un altro modo per buttarla in politica, o in caciara.

Le alluvioni ci sono sempre state; l’aumento della frequenza è attribuibile al riscaldamento globale. Ciò premesso, certamente le politiche di gestione del territorio possono aiutare a controllarne gli effetti; ma non si può impedire agli eventi di verificarsi, lasciando passare il concetto (tristemente giornalistico) del “mai più”, come qualcuno si fosse dimenticato di spegnere l’interruttore. La natura non funziona così. Ha sempre colpito con violenza, e di fronte alla potenza degli elementi siamo stati – e restiamo – piccoli. Anche quando crediamo di poterla dominare. Anche se a una società senza dolore piacerebbe che esistesse una leva da tirare per potersi liberare di questi fastidiosi imprevisti.

Non solo. Occorre un po’ di onestà intellettuale. L’agricoltura, come quella praticata in Romagna, consente al nostro Paese di avere grande disponibilità di prodotti di qualità a prezzi accettabili; fatevi un giro all’estero per capire cosa significa mangiare melanzane che non sanno di nulla, o seguire, per una vita, una dieta a base di carne e patate. Prendersela con la coltivazione intensiva senza sapere di cosa si sta parlando non rende onore all’intelligenza di chi pontifica. Il nostro stile di vita, quello che amiamo perché così piacevole, passa innanzitutto dal cibo. Senza agricoltura intensiva, ci troveremmo pomodori a 15 euro, e a poterseli permettere sarebbero solo i ricchi. Il fatto che a Milano e Londra già accada non significa che sia un buon esempio. Ragionare così è una mancanza di rispetto per chi di agricoltura vive, senza guadagni spropositati, e nelle ultime settimane ha perso molto. Certo, il suolo può essere usato meglio di oggi; ma serve tempo per rompere gli schemi consolidati, per insegnare nuove tecniche, insomma, per imparare. E la storia dell’umanità insegna che un solo grande evento avverso vale più di mille ragionamenti, di migliaia di pagine e discorsi.

Terzo punto. Mi pare di aver letto – ma potrei sbagliare – che solo il 5% delle abitazioni in Italia sia provvisto di un’assicurazione contro i rischi di questo tipo. Forse converrebbe cominciare a pensarci. Anche perché, in maniera tutto sommato controintuitiva, le compagnie hanno tutto l’interesse a lottare contro il cambiamento climatico: liquidano danni per decine di miliardi l’anno a causa degli eventi estremi, e la cosa inizia a pesare sui conti. Con la massa di capitali di cui dispongono, sono un ottimo alleato per portare avanti le negoziazioni dove conta, cioè a livello internazionale, dove si decidono le sorti delle nostre economie, e del futuro, anche climatico. Sia chiaro: le assicurazioni non agiscono e non agiranno mai per filantropia: è mero interesse, che però andrebbe sfruttato. Anche pungolandole quando fanno greenwashing, come non di rado accade.

In definitiva, migliorare l’adattamento si può, ma nessuno – nessuno – potrà garantire che tragedie del genere non accadano più. Meglio prepararsi al futuro tenendo conto dei vincoli, economici e non solo, che abbiamo. Vogliamo andare su Marte, ma restiamo sempre piccoli rispetto all’universo. I giornali non aiutano a ristabilire le proporzioni. Per me il consiglio resta il solito: disintossichiamoci dalle news. Soprattutto quelle online.

(foto Lapresse, a dispozione per rimuoverla)

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cronaca, reportage, sostenibilità

Quale futuro per Napoli?

Questione di atmosfera, profumi, suoni, vociare: al viaggiatore giunto a Napoli, bastava scendere dal treno per capire di trovarsi all’ombra del Vesuvio. Ma l’altro giorno ho provato una sensazione diversa, di deja vu. In città per festeggiare lo scudetto – festa rimandata, peraltro – mi è sembrato, mai accaduto, di trovarmi in un posto simile a molti altri. Una Venezia, una Firenze, solo un po’ meno linda. Cosa accomuna queste città d’arte universali? Il sovraturismo, direi, che le ha rese quasi parodie, caricature di sé stesse.

Non è accaduto subito. Ci ho messo un po’ ad accorgermene, a decodificare quella sensazione. Ma camminando per le vie dei Quartieri Spagnoli invase da tifosi e bandiere, tra souvenir, chincaglieria e odore di fritto, mi è parso ci fosse meno spontaneità di una volta.

Intendiamoci, la gioia dei napoletani per la vittoria (quasi certa) dello scudetto è vera, viscerale. Nulla può spiegarla a chi non l’abbia avvicinata, magari a casa di amici di amici, dopo una conoscenza durata pochi minuti. Ci è accaduto al rione Sanità, “salvato”, dice un residente, “dalle telecamere a circuito chiuso”. Ma in questo caso siamo lontani dai riflettori.

In centro, tra i bassi, qualcosa non torna a chi conosce il capoluogo campano. Tutto è vero, eppure niente lo pare completamente. Come se l’anima pittoresca della città di Totò fosse stata colorata a tinte troppo brillanti; come dopo un filtro su Instagram, o in una foto dalla postproduzione eccessiva.  

Coordinamento, forse è questa la parola giusta, quello che stona. Al posto della confusione che è il marchio di fabbrica di una città che ha saputo elevare il caos ad arte, i festoni si succedono seguendo linee dalle geometrie sin troppo regolari. Degli storici locali in cui si veniva presi a maleparole se non ci si affrettava a liberare posto, restano tanti ristorantini ordinati e pronti per accogliere i turisti, con tavolinetti disposti in bella fila sui lastroni e menu in inglese più o meno perfetto. Ogni tanto qualche anziana si affaccia a spiare da dietro le imposte questo flusso che ha una fisionomia diversa da quella delle passeggiate domenicali di chi abita nei comuni della cintura: è lo sciame dei turisti vestiti alla stessa maniera, da Milano a Santorini, da Amsterdam a Londra. Stesse scarpe, stessi giubbotti, stessi telefoni. Largo Maradona, un anfratto tra i vicoli dedicato al compianto numero dieci celeste, è un luogo troppo ingenuo per essere vero, sovraccarico com’è di memorabilia, bandiere, dediche.  

Dove sta andando Napoli? Confesso di non avere una risposta.

Presto per parlare di gentrification, ma si tratta di fenomeni già visti altrove, che un amministratore deve tenere presenti.

Un amico, buon conoscitore della città, mi dice: si trova nel pieno di un vorticoso processo di sviluppo, non si può sapere ora dove e come finirà. In certi quartieri, aggiunge, prima era difficile anche pensare di mettere piede: bisogna ricordarselo, prima di giudicare.

Ha ragione, penso. Ma c’è qualcosa che ancora non mi convince, un dubbio che mi punge. Qualcosa di cui è difficile parlare, perché mancano il tempo e lo spazio per provare ad argomentare, e farlo espone alla replica – facile –  di chi contrappone sviluppo turistico e povertà. Napoli non ha forse il diritto di promuoversi e provare ad attirare i viaggiatori come le altre?

Certo che sì, ma forse dovrebbe confrontarsi con qualche domanda, ora che va di moda e Mare fuori è la serie tv più vista tra le decine che affollano i palinsesti. Di chi sono le attività che sorgono come funghi tra i vicoli? In che maniera il denaro che arriva dai turisti si redistribuisce sul territorio e diventa un’opportunità per il futuro dei residenti?

E ancora: che ne sarà, di questi residenti? Si è visto a Venezia, svuotata negli anni, trasformata in un enorme albergo. Potrebbe accadere anche qui.

Non vorrei che la città, una delle poche ad averne ancora una, perdesse la proprie identità.

La questione, tutto sommato, è vecchia, e forse bisogna rassegnarsi al fatto che prima o poi anche le (poche) realtà che hanno resistito cadranno nel gorgo dei selfie stick, degli occhiali a specchio, dei viaggi con le Hogan (abbiamo anche avuto giornalisti che ci sono andati in Ucraina, con le Hogan, se è per questo).  Eppure mi chiedo: possibile che non esista un modello diverso? Un modello di turismo che possa portare benessere senza sovraccaricare i quartieri, trasformandoli in luoghi da selfie, in fondo violentandoli? Pongo la domanda a chi ne sa più di me, perché mi è difficile rispondere.

Mi viene in mente Medellìn, in Colombia. Una città profondamente cambiata dai tempi di Pablo Escobar, che è diventata la più moderna del Paese, l’unica, ad esempio, ad avere una metropolitana. Ci sono aziende e un grande incubatore di startup per i giovani “talenti” che garantiscono copertine e articoli, uno dei quali vergato da chi scrive. E gli altri, i dimenticati? Agli angoli delle strade sono sdraiati i fumatori di crack, ombre senza speranza. Si può passeggiare – con una guida – per la Comuna 13, un sobborgo tra i più problematici; ma può facilmente capitare di essere rapinati, tranne nel lussuosissimo quartiere del Poblado, dove hamburgerie veg, cocktail bar e saloni di bellezza all’europea appartengono a individui poco raccomandabili. Alcuni dei quali, nostri connazionali.

Anche in Colombia emerge la contraddizione forse insanabile: il turismo, le carovane di turisti che sfilano tra le case della Comuna 13 sono mal sopportate dai residenti; ma rappresentano forse l’unica salvezza per i ragazzi che imparano le lingue su YouTube, hanno visto omicidi mentre andavano a scuola, e sognano un futuro in Europa quando si scambiano indirizzi e email con chi arriva. C’è la corruzione, il degrado, e la tensione verso il futuro, la modernità. Dove sta la verità?

Come si cambia – stavo per scrivere: si salva – una città senza snaturarla?

Certe scelte vanno fatte adesso che Napoli è di moda, e la sigla di Mare fuori la cantano anche a Milano sui tram.

Non vorrei che la città fosse svenduta alla speculazione di chi è sempre a caccia di nuove occasioni di investimento.

Non vorrei mai vedere, anche qui, i residenti storici cacciati dal centro perché i prezzi degli apppartamenti aumentano a causa degli affitti brevi, per finire in periferie destinate a restare ghetti. I riflettori accesi da una parte, le luci spente dall’altra. Fenomeni cui abbiamo già assistito. Non vorrei, insomma, che Napoli, che finora è rimasta un passo indietro, finisse per cedere e diventasse un’altra galleria di immagini da cartolina, che il turista si vede scorrere davanti, senza riuscire a coglierne l’anima e il dolore, che in quei vicoli è sempre esistito ed esiste. Insomma, che l’odore di un benessere improbabile proprio perché improvviso ne cancellasse l’umanità: ciò che da sempre la contraddistingue.

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cronaca, cultura

Qualche ragione per essere ottimisti

Siamo abituati a guardare il brutto di questi anni, e ce n’è tanto: la guerra, il covid, l’inflazione, le disuguaglianze. Tempi difficili, ma è dalle crisi che nascono le cose migliori. Viviamo in un mondo in cui, alla fine e dolorosamente, gli stranieri si stanno integrando nella nostra società, che, non avendo avuto praticamente colonie, è sempre stata chiusa. Si parla liberamente di esprimere la propria sessualità in pubblico, a volte uscendo dal seminato, ma si fa, finalmente; anche le battaglie sulle desinenze dei nomi (che spesso non condivido) sono comunque il segno che ci siamo evoluti da quando ci si scannava pressoché esclusivamente su veline, calcio e governi ladri.

Passi avanti sono stati fatti sulla parità, e oggi sognare un bel lavoro per una ragazza non è più vietato. Il fine vita è sulle prime pagine dei giornali, e, forse, per restarci. Anche l’ambiente ci è arrivato: si mettono in discussione le politiche delle aziende, si chiede loro conto di quello che fanno, si vanno a verificare gli impegni, ci si organizza per fare contro-lobby. Pensiamo solo a vent’anni fa. E’ cambiata, grazie alla pandemia e in larga misura, la cultura del lavoro: lavorare da casa non è piu richiesta da scansafatiche in grado di garantire il “le faremo sapere” in qualunque colloquio, ma una conquista per molti. E poi, ognuno si regoli come vuole. Non si guarda più al fatturato come unico indicatore, si comincia a valorizzare chi è capace di far cadere la penna alle sei come persona di carattere, e non un lazzarone; fermo restando che, se a uno piace quello che fa, le ore difficilmente si contano. C’è stato un dibattito sui sovranismi, nazionalismi, populismi che ci hanno condotto a governi difficili anche solo da immaginare: ma era latente. Finalmente si è esplicitato, e si sono prodotti gli anticorpi per digerire le posizioni più estreme, che continuano a poter essere espresse. Vengono solo prese per quello che sono.

Tanto, tanto, tanto resta ancora da fare. Ma siamo fortunati, più liberi di esprimerci, di vivere la vita che sognavamo. Molte di queste cose sono accadute negli ultimi vent’anni, quelli che, se ci pensiamo, associamo all’11 settembre, alla crisi del 2008, quella del 2012, al covid, alla guerra. Non sarà facile, ma tutto sommato qualche ragione per essere ottimisti, credo, ci sia.

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L'apertura del New York Times relega la sparatoria in secondo piano.
cronaca, esteri, giornalismo, media

La (solita) corsa al clic

Giornalismo è dare delle priorità. Un uomo spara in metro a New York: tutti i media italiani ci fanno le aperture. Capisco poco, forse ci hanno capito poco pure loro. Pare non sia terrorismo. Vado sul sito del New York Times: apre con la guerra in Ucraina. La notizia della sparatoria devo cercarla scrollando.

Ognuno tragga le conclusioni che vuole. La mia è che la corsa al clic, quella che abbiamo conosciuto col Covid e i vari, irrinunciabili casi di cronaca, ha colpito ancora.

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cronaca, esteri, guerra

Una notte a Lodz, Polonia, tra paura della guerra e voglia di vivere

Una bandiera ucraina, come un lungo serpente da oltre cento metri, sfila per Piotrkovska, la strada pedonale più lunga d’Europa. Siamo a Lodz, terza città della Polonia. I quattro chilometri dell’ampia arteria tagliano in due l’abitato; ai tempi del comunismo, segnavano lo spartiacque tra il Vecchio Mondo, con la mesta sede del partito, e il Nuovo, con le prime luci al neon. Oggi sono il cuore di una città postindustriale che si sta lasciando alle spalle il passato e non ha niente da invidiare a quelle europee. Stessi negozi, stessi bar alla moda, stesse pettinature.

Il corteo si allunga sotto la neve. Sfilano polacchi e tanti ucraini (nel Paese sono due milioni). Per le strade chiedono pace, e una no fly zone. Qualcuno chiede cibo e indumenti; qualcuno, senza troppi giri di parole, raccoglie fondi per l’esercito del presidente Zelensky.

Poco più in là, i giovani locali escono agghindati per il weekend. Capelli impomatati, trucchi, scollature, gli approcci impacciati dei ventenni. Sorprende il contrasto. A quattrocento chilometri fischiano le bombe, c’è la guerra, quella vera; qui si prova a vivere. Basta una frontiera, per segnare, ancora una volta, il confine tra il Vecchio e il Nuovo Mondo: di là la morte, di qui la vita. Ma anche questa è normalità. C’è bisogno di non pensare.

Siamo andati a letto con il miraggio di un cessate il fuoco, ci svegliamo con la notizia dell’attacco russo a una centrale nucleare, finita in fiamme. Pericolo radiazioni. Le farmacie hanno già esaurito le pastiglie di iodio. “Sono tutte nell’est, anche i fornitori hanno terminato le scorte. Provi a ordinarle online” risponde, costernato, il dottore al bancone. Segno che la paura si è fatta largo da giorni, per non dire settimane. Da queste parti, Chernobyl è ancora un ricordo vivido. E dei russi non si fidano. “Sono matti”, dice una volontaria.

Camere sospese

A Varsavia, l’ottanta per cento delle camere d’albergo è occupato: a turisti e uomini d’affari si è sommata la frazione di rifugiati che può permettersi queste sistemazioni. La città accoglie i profughi con un abbraccio caldo, per il momento; si organizzano servizi di telemedicina gratuiti in lingua, i cinema proiettano film per bambini in ucraino, si distribuiscono schede sim e caricatori per cellulari, per consentire a chi arriva di tenersi in contatto con i propri cari.

Negli hotel della capitale, al caldo, non è raro vedere macchine di grossa cilindrata con la targa gialla e blu, borsette griffate, valigie curate.

Sono i ricchi in fuga dal conflitto.

Ma, ammassati alla stazione centrale e in quella ovest, ci sono gli altri, i disperati, materassi estemporanei gettati a terra e buste della spesa. Senza una mascherina, con il rischio che uno starnuto si trasformi nell’ennesima emergenza sanitaria.

Si dice che, soprattutto alla frontiera, siano parecchie le camere pagate da clienti che poi non si sono presentati, “sospese”, come i caffè a Napoli.

E mentre in Polonia è atteso un milione di migranti, Matteo Salvini, il leader sovranista amico di Putin, noto alle cronache internazionali per i respingimenti in mare, annuncia che lunedì verrà al confine. Magari a favore di telecamere, per postare un selfie con una felpa ad hoc, come quelle con la scritta “Berghem”. Qualcuno, per favore, gli dica che non è un videogioco.

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La copertina di Panorama
cronaca, milano

NoLo, NaPA e la Vanity Milano

Dopo NoLo, provincialismo newyorchese per North of Loreto (una volta scassatissimo quartiere a ridosso della Stazione Centrale e oggi nuova Mecca radical chic), state attenti a NaPa, Naviglio Pavese. Se avete quattrini da investire, e nebbia invernale e zanzare d’estate non vi spaventano, sia chiaro. Che la situazione di Milano sia fotografata con obiettività da un giornale di destra si deve senz’altro al fatto che al governo, in città, c’è la sinistra. Ma ciò non toglie valore all’inchiesta di Panorama di questa settimana, la cui copertina riporto qui sotto. Che, con belle fotografie, mostra ciò che, a chi vive in città, è noto. Si sa, siamo in epoca di narrazioni. Sono le parole a creare il mondo che vediamo. E tra fashion week, food week, wine week cinquantadue volte all’anno, il capoluogo lombardo rischia di restare sempre più weak. Con la a. Cioè debole.

Un bilocale in affitto a millecinquecento euro al mese (in vendita a cinquecentomila), un monolocale a mille. E intanto ci sono duemila sentatetto che dormono in quello scempio a cielo aperto che è il sottopasso tra viale Lunigiana e viale Brianza, sempre Stazione Centrale. Si svegliano, mangiano e dormono in mezzo allo smog puzzolente delle colonne di macchine. Una cappa irrespirabile, che si somma a quella delle sigarette, agli effluvi del vino in busta consumato dal mattino al posto del caffè.

Agenzie immobiliari spuntano come funghi nelle zone di prossima urbanizzazione, come Porta Romana, dove troverà sede il nuovo complesso al posto dello Scalo ferroviario. Centinaia di migliaia di metri quadri di vetro e acciaio, in tutto e per tutto simili agli altri progetti di “sviluppo” che disegneranno la città del futuro. A pochi passi da lì, come sottolineato da Francesca Mannocchi in un recente podcast (e no, lei non è di destra) c’è la Bocconi, che ha appena organizzato un servizio per accompagnare a casa le studentesse: hanno paura di essere aggredite nel vicino Parco Ravizza. Ma a un tiro di schioppo – o un minuto in monopattino – c’è anche il Pane Quotidiano di viale Toscana, che da cent’anni distribuisce viveri agli indigenti. Che sono sempre più italiani. Perché non tutti hanno una laurea, non tutti hanno digital skills da lucidare nel cv, non tutti sanno l’inglese e fanno networking discettando di Amarone e Barolo.

Ma giustamente, chi non vive qui queste cose non le sa. È colpito dallo storytelling, dai “Milano non si ferma”, storica gaffe del sindaco all’indomani del Covid, marzo 2020. Certo: perché c’è anche chi, se i valori salgono e la città si trasforma sempre più in un monopoli, con quotazioni che lasciano immaginare soldi di carta, brinda a champagne. Sono gli speculatori immobiliari, i fondi, i piccoli proprietari, per cui quattro mura non sono un ammasso di cemento e tubi, ma numeri su un atto di proprietà. E rendite potenziali. Plusvalenze. I report di settore trasudano entusiasmo: e con le Olimpiadi invernali – a Milano! dove ci sono nebbia, inversione termica, ma la montagna, la montagna proprio no – come ipoteca su un altro quinquennio di bicchieri tintinnanti.

Le ultime elezioni, a settembre, sono andate deserte: 40% dei votanti. Detto in altri termini: tre su cinque sono rimasti a casa. Tre su cinque. Sala, che ha vinto per mancanza di avversari, in campagna elettorale aveva dichiarato che non è peccato avere degli amici. I suoi sicuramente non sono quelli del bar sotto casa, ma frequentano i migliori salotti. Sarebbe bello sapere chi sono.
“La situazione è complessa” ripete spesso il primo cittadino. Si può capire. Non dev’essere facile fare il sindaco di sinistra quando a sostenerti c’è il mondo della finanza. Così, ci si rifugia, come sempre, nel territorio del politicamente corretto. Chiudo prendendo in prestito il finale dell’articolo di Panorama (autore, Giorgio Gandola). “Il primo gesto della responsabile ai Servizi Civici Gaia Romani (25 anni, piddina) è stato cambiare la targa sulla porta dell’ufficio. Ha voluto ‘assessora’ invece di ‘assessore’ e ha spiegato che ‘il cambiamento parte dalle piccole azioni’. Quando ha avvitato la placchetta nuova ha chiamato i fotografi. Della Vanity Milano ha capito tutto”.

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cronaca

Pece che si scioglie

Ieri sera ho riguardato i filmati che avevo girato a marzo a Milano, durante il primo lockdown. Ricordavo con angoscia una città deserta, come sopravvissuta a una bomba nucleare, tanto da tenerli nascosti per nove lunghi mesi senza trovare il coraggio di tirarli fuori. E invece.

Non lo avrei creduto, ma i fotogrammi di piazza Duomo vuota, dei Navigli puntellati da rarissimi passanti non mi hanno fatto un grosso effetto.

Mi è sembrato normale.

Ecco la forza dell’abitudine, dello spirito di adattamento, la potenza che ci portiamo dentro. A volte ci incarta; altre, invece, ci aiuta a sopravvivere. Ciò che pochi mesi fa appariva impensabile è diventato una seccatura: fastidiosa, certo, ma tutto sommato accettabile. Passerà, ci diciamo, e andiamo avanti un altro giorno.

Il virus ci ha colpiti, scioccati, ha liberato le ansie che nel nostro vivere di corsa riuscivamo, con fatica, a tenere a bada; e ci ha costretti a confrontarci col buio che ci portiamo dentro, con il lato oscuro delle nostre vite, relazioni, con quello dei nostri lavori.

Ma guardare in faccia l’abisso rende tutto un po’ meno pauroso. E la pece si diluisce e si dilegua poco alla volta, come allungata dall’acqua del tempo. Buon Natale, ovviamente. Ma, soprattutto, buon anno a tutti.

 

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coronavirus, cronaca, giornalismo

Milano, cronache dal fronte / 14

Le voci dei bambini per strada, il rumore delle auto, la fila di fronte alla banca, i duecento scontrini in un giorno del panettiere sotto casa, gli anziani stanchi che trascinano le membra intorpidite sulle panchine per godersi un raggio di sole, i runner in mascherina, la mamma che disegna una campana sul marciapiede con i gessetti e insegna al figlio di tre anni a giocarci mentre mi affaccio in balcone. L’odore del caffè di fronte a un bar, girarsi e sorprendersi di trovarlo aperto, la bellezza delle vetrine di un antiquario – ebanista – mobili antichi che non avevo mai notato. L’edicola che è rimasta aperta tutto questo tempo. La pila di giornali e libri sulla scrivania, le serie che abbiamo consumato, le birre che abbiamo ingollato, le cene luculliane che abbiamo preparato. L’ora di fila per fare la spesa, e la sera che non scorderò mai: domenica 23 febbraio, supermercato, negli occhi il terrore, la paura, la diffidenza, l’aria pesante, lunare, sembrava un film. Ed era tutto vero. I risvegli la mattina, aprire gli occhi come hai fatto per una vita, pensare alla colazione, all’acqua fredda, e poi ricordarsi, dopo un minuto, di cosa c’è là fuori. Le strade deserte, il duomo, l’odore di disinfettante ovunque, il terrore nella metro. I poveri per strada, scheletri che vagavano da un cestino all’altro alla ricerca di cibo. Le liti, la frustrazione, le riconciliazioni. L’ammasso di notizie che ripetono sempre le stesse stronzate, lo schifo dell’informazione che cerca di far quattrini pure sulle tragedie, gli sciacalli che vendono mascherine, test e notizie senza riguardo per chi sta dall’altra parte. I libri che ho letto, i giornali che ho conosciuto, i rapporti che si sono stretti – paradossale – quando non era possibile vedersi, e quelli che si sono allentati e si perderanno – e andrà come doveva andare. I matrimoni rimandati, le feste saltate, gli aperitivi in video. Le notizie da Bergamo, i volti degli anziani, le immagini strazianti delle bare portate via dai camion militari. Gli infermieri, i medici, il personale sanitario.

Non so se ci sarà una ricaduta, se il virus tornerà a far male come a marzo. Ma so che una fase si è chiusa, ed è giusto . Le “cronache dal fronte” finiscono qui. Non c’è più bisogno di un cronista che vi racconti come va là fuori. E’ stato bello farlo, confrontarci, dividere le ore e le emozioni di questi giorni. Ma adesso il faut vivre, bisogna tornare a vivere.

( vi lascio con il pezzo migliore che ho letto su questi due mesi di virus in Lombardia. Lo ha scritto, con raro equilibrio, il Post).

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coronavirus, cronaca

Milano, cronache dal fronte / 13

Sono uscito qualche volta per documentare il disastro del Covid, forse invidiato da qualcuno per il lasciapassare giornalistico. Si sbagliava. Ciò che si mostrava agli occhi del cronista era l’anticamera della morte. Dov’è finita tutta quella gente, mi chiedevo, aggirandomi nelle vie spazzate dal vento, in certe giornate uggiose come Milano sa regalare. Non dentro ai palazzi, non è possibile siano tutti lì, alle finestre non c’è nessuno. Sembrava l’indomani di un disastro nucleare. E invece erano dentro, i compagni di sventura, rintanati al chiuso di appartamenti stretti e pensieri circolari.
Povera mente umana che si abitua a tutto, anche al dolore, fino a farne dimora. Si diventa avvezzi persino alla mancanza di piacere, come creature che per sopravvivere si mimetizzano e imparano a rallentare impulsi vitali e battiti del cuore. Quanto sembrava lontana la città che si specchiata negli aperitivi.


Se mi giro indietro, mi sembra incredibile ciò che abbiamo vissuto. E un po’ – lo confesso – mi spaventa. Lo spettro della morte in ogni telegiornale, ambulanze a sirene spiegate come sveglia, sguardi terrorizzati in fila al supermercato, che col passare delle settimane si sono spenti in occhi rassegnati, stanchi.


Qualcosa è cambiato. Oggi, per strada, si sente di nuovo sbuffare il motore delle macchine. L’ottico non venderà nulla, con tutta probabilità, ma prende posto ugualmente nel laboratorio sotto casa. I rider scorrazzano pacchi e pizze legandosi le casse alla bici e sparando musica a tutto volume (pare sia questa la nuova moda). Ma quello che mi colpisce sono le voci dei bambini. Sono loro che stanno riportando una parvenza di normalità e colore in un mondo rattrappito, in cui la linfa ricomincia a scorrere. I genitori li accompagnano negli scarni cortili di città per godersi, finalmente, qualche sprazzo di gioco e caldo. E le voci cristalline si mischiano come se nulla fosse accaduto. Magari è un’impressione, in fondo non sono esperto di poppanti. Chissà se ricorderanno questo periodo strano, se la memoria conserverà traccia della clausura forzata, o il tempo scorrerà e sciacquerà i panni. E chissà cosa rimarrà a noi adulti. Di certo, mi ripeto, dobbiamo sforzarci di uscire dal letargo. Tornare a prenderci il rischio di vivere davvero. Al di là delle videochiamate, con la consapevolezza che una generazione che non ha avuto guerre dovrà combattere ancora una volta. Contro il nemico invisibile della recessione.

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coronavirus, cronaca

Milano, cronache dal fronte /12

Un’app per tracciare il contagio. L’ha sviluppata Bending Spoons, software house milanese di livello mondiale, in collaborazione con il Centro Medico Santagostino, noto per aver martellato sin dall’inizio dell’epidemia sull’utilizo dei test sierologici. Che però, non sono validati. Ma sorvoliamo, non vorrei ripetermi.

Personalmente, non sono incline a scaricarla, e mi pongo alcune domande. Quali sono stati i criteri utilizzati per decidere la proposta vincitrice? Non sono riuscito a trovarli, ma magari è colpa mia. La seconda: ho parecchie perplessità lato privacy. Le avrei a prescindere: ma cosa c’entra esattamente un centro diagnostico il cui business è, per definizione, la salute con un’applicazione che della riservatezza dovrebbe fare la priorità, peraltro realizzata da gente che le app le sa fare anche da sola? Terzo: non si può obbligare a scaricarla, ma si propone di limitare la mobilità di chi non ce l’ha. A me non piace, e non sono neanche sicuro che sia legale.

L’articolo del Fatto Quotidiano che riporto qui dà conto di una mossa che mi sembra più una trovata pubblicitaria che altro. Spiace che il Governo ci metta la firma. E peccato che quasi nessuno si sia posto queste domande sulla stampa

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