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Milano, cronache dal fronte / 8

In questi giorni di donazioni e donatori, mi viene da pensare che è facile – certo, anche costoso, quando l’assegno staccato è da dieci milioni– sentirsi più buoni. Ma, come dice il proverbio, se dai un pesce a un uomo mangerà un giorno, se gli insegni a pescare lo sfamerai tutta la vita.

Finita l’emergenza l’economia dovrà ripartire. Ma credo che la generosità nei confronti del Paese debba manifestarsi in un lasso di tempo più lungo, e, soprattutto, che allo sforzo debbano partecipare tutti. Piaccia o meno.

I soldi non può metterceli solamente lo Stato, indebitandosi e scaricando il peso della crisi sulle generazioni future. Toccherà a tutti rinunciare a qualcosa, in proporzione a quanto posseggono, e darsi da fare per ripartire.

Vanno incentivate le attività produttive, non patrimoni e rendite. Se anche ci fosse un prelievo forzoso dello “zero virgola” e una tassa di emergenza su seconde, terze e quarte case non ci vedrei nulla di male. La vita e il sistema economico distribuiscono senza equità, spetta ai governi correggere le storture.

Dubito che un pensionato con la minima si lamenterebbe se gli prelevassero cinque euro (l’uno per cento) dal conto corrente per aiutare chi ha ancora meno. Forse perché conosce la fame. Perché lo stesso discorso fa storcere il naso a parecchi che poveri non sono? Su certa stampa sento parlare di “furto”. Rimango basito.

I denari raccolti, naturalmente, non vanno sprecati. Dovranno servire a investire in ricerca, istruzione, riqualificazione professionale, infrastrutture: roba che fa crescere sul lungo periodo, e non certo solo a dare sussidi, pur sacrosanti in certuni casi.

Un po’ di aggiornamento professionale farà bene a tutti, e serve anche al Paese. Linea dura: chi si tira indietro è fuori da tutto.
Vi piace questo discorso? Bene. Ricordatevene quando il prossimo venditore di tappeti proverà convincervi che esistono soluzioni semplici a problemi complessi. Ripartire non sarà facile, ma certo non è impossibile sfoderando un’arma preziosa a tutte le latitudini, il senso della comunità a cui tutti, nessuno escluso, apparteniamo.


A Milano, intanto, i contagi non diminuiscono ed è arrivato il caldo.
La primavera prende a mostrarsi sugli alberi, le nuove spiagge sono i balconi.

Alle spalle c’è un inverno che non è stato inverno, di fronte c’è un’estate che non sarà estate. Poco male, anche questa è vita. Ma il valore di un giorno dipende da quanti ne hai davanti. Non è lo stesso per gli anziani, non è lo stesso per i malati. Ho letto di sei pensionati beccati a giocare a carte in un bosco nel Varesotto. Non è la cosa giusta da fare, ma vanno compresi. Cerchiamo di essere indulgenti con le debolezze altrui: la ruota, prima o poi, gira. Per tutti.

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Sierologico o tampone? La guerra sotterranea della lobby delle analisi

Sempre più scienziati chiedono di effettuare tamponi a tappeto per imprimere una svolta alla lotta al coronavirus. La situazione è al limite soprattutto al Nord, dove i reparti sono pieni, i medici si ammalano uno dopo l’altro e gli ospedali sono diventati bombe biologiche. Ma, anche nel mezzo di un’emergenza di portata storica, conviene tenere gli occhi aperti.

Nei giorni scorsi le agenzie hanno battuto la notizia di un laboratorio di Afragola (Campania) che prometteva test per il Covid19 alla modica cifra di 120 euro. L’annuncio, postato su Facebook, parlava non di tamponi, ma di test sierologici. Non è un dettaglio, e vedremo perché.

Grazie a quest’ultima tecnica, è possibile individuare gli anticorpi eventualmente presenti nel sangue del paziente: una “traccia”, per così dire, che il virus è passato e l’organismo ha cercato di combattere l’infezione. Seguiva numero di telefono per appuntamenti.

Il cronista (precario, tra l’altro) che ha scoperchiato il caso ha passato la notizia all’ANSA. Pochi giorni dopo è stato sentito dai carabinieri: i test sierologici per il coronavirus ,infatti, non sono validati, non hanno ottenuto, in parole povere, dagli organi competenti il via libera che ne certifica l’affidabilità. Proporli alla popolazione sotto l’onda emotiva di una pandemia potrebbe comportare profili di illiceità, nonostante i distinguo per tutelarsi da azioni legali. Oggi solo poche strutture sono autorizzate a condurre analisi del genere. C’è poi il tema del prezzo: esiste una quota di persone disposta a pagare molto denaro per sapere con certezza se è positiva o meno. L’affare è dietro l’angolo.

Meglio monitorare la situazione, dicevamo. In attesa di accertare se ci siano state violazioni, riporta il “Fatto Quotidiano”, il centro diagnostico campano è stato diffidato dall’Asl dal continuare la “promozione” delle analisi sui social media.

La materia è tanto tecnica che persino molti medici non specializzati in immunologia hanno difficoltà a orientarsi. Proviamo a spiegare.

Le mani sui rimborsi regionali

L’unica metodica attendibile per fare diagnosi, fino a oggi, risulta essere il tampone, divenuto tristemente noto nelle ultime settimane. Si tratta di un test molecolare con cui, in sostanza, si va alla ricerca dell’RNA del virus. Più lungo nelle tempistiche, più costoso, ma decisamente più affidabile del test sierologico; e, soprattutto, validato dall’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità). Per chi non credesse ai “burocrati” di Ginevra, aggiungiamo che così la pensa anche il noto virologo Roberto Burioni, che ne ha parlato sul proprio sito Medical Facts.

Insomma, sembra una storia di quelle tipiche del nostro Sud. E lo è, infatti.  A Milano, come da copione, le cose si fanno in grande.

La diagnostica medica è un settore attorno a cui ruotano denari e interessi, tra vendita di prestazioni specialistiche e, soprattutto, rimborsi regionali. Per il momento, sono pochi i soggetti autorizzati a eseguire i tamponi necessari per cercare il Sars-Cov-2, tutti pubblici.

I laboratori privati di analisi grandi e piccoli si dichiarano pronti da settimane, ma non hanno ancora ottenuto il via libera dalla politica.

Per aprire la serratura, rimasta chiusa fino a questo momento, senza rischiare di incappare in profili penali (come potrebbe accadere nel caso campano) bisogna  procedere per gradi e passare da Palazzo. Significa disporre di risorse non comuni. Capitali economici e relazionali, impiegati con strategia.

Si può cominciare, ad esempio, mettendo assieme un parterre di imprenditori del ramo, startupper e soggetti con conoscenze a diversi livelli, dalla politica alla finanza all’editoria.

Si prosegue, poi, creando gruppi Whatsapp per giornalisti, fornendo presunte anteprime, e annunciando interviste già concordate con importanti testate. Basta ottenerne una per innescare la reazione a catena. Se sono di più, e al codazzo si aggiungono le televisioni, tanto meglio.

A questo punto, si può procedere a diffondere le paginate pubblicate da un importante quotidiano nazionale per convincere i cronisti scettici di essere rimasti indietro. Si sa, il terrore delle redazioni è “prendere un buco”. Qualcuno, nella fretta, ci casca sempre, e riprende la notizia.

Non può mancare la petizione. Siamo pur sempre nell’era degli influencer. Per preparare il terreno e guadagnare credibilità grazie a uno dei numerosi strumenti disponibili online basta  far sottoscrivere a importanti (e ignari) nomi della scienza una raccolta firme in cui si parla, genericamente, della necessità di eseguire test a tappeto per combattere la diffusione del contagio. Senza specificare, in quella sede, se si tratta di tamponi o di sierologici.

Da giorni sul web circolano appelli dai toni enfatici, a prima vista condivisibili. Le petizioni, rivolte al Governo e al Comitato tecnico scientifico creato nelle scorse settimane, chiedono screening di massa per arginare il contagio. Leggiamo l’elenco dei firmatari: molti sono noti, altri lo sono diventati in questi giorni. Professori, personaggi della cultura, imprenditori. E, ovviamente, direttori di centri diagnostici, che hanno tutto l’interesse a “liberalizzare” gli esami. Ma attenzione: nessuno degli appelli specifica che tipo di analisi si chieda di effettuare sulla popolazione.

Ottenuto l’appoggio dei grandi sponsor, il più è fatto: non resta, a questo punto, che usare la petizione per supportare l’offerta alle autorità politiche… di collaborazione disinteressata. E di test sierologici estensivi, ovviamente.

Test contro test: una guerra tra laboratori

Ecco come si crea nuovo business ai tempi del coronavirus, partendo da un’idea semplice: se la politica non apre le porte spontaneamente, e in fretta, la strada buona è metterla sotto pressione sfruttando l’onda emotiva e creando un movimento di opinione. Se poi i giornali si inseguono l’un l’altro convinti di perdere lo scoop del momento, c’è il rischio che la mossa riesca. Anche se in gioco c’è la salute pubblica, e l’operazione potrebbe rivelarsi del tutto inutile dal punto di vista della lotta al virus, dato che gli esami sono inaffidabili. Ma tant’è.

Così, sottotraccia e lontano dai riflettori, si sta combattendo una guerra tra laboratori: quelli disposti ad assumersi il rischio di proporre un esame non ancora validato con un’operazione spericolata, e quelli che si limitano a suggerire il “vecchio” tampone. Più costoso, ma più attendibile, nonostante un percentuale di falsi negativi che può sfiorare il 30%.

Ma vediamo meglio la differenza.  “I test sierologici – spiega ai colleghi in una chat riservata un medico e professore universitario esperto nelle materie di riferimento – non hanno valenza diagnostica, ma di solo accertamento della positività anticorpale. Il che, in corso di epidemia, serve a poco o a nullla“. Sapere che una persona si è infettata senza conoscere se è ancora contagiosa può avere una valenza statistica a posteriori, insomma, ma non certo preventiva.

L’isolamento dei soggettiprosegue infatti il medicosi basa sull’infettività, non sul fatto che in qualche momento della loro vita abbiano incontrato il virus e generato anticorpi (che, per quel che ne sappiamo finora, possono essere rivolti contro qualsiasi coronavirus)”. Cioè: oggi come oggi, il test potrebbe confondere il Sars-CoV-2 con un’infezione diversa.

L’OMS aggiunge: “Alla data odierna, i test basati sull’identificazione di anticorpi (sia di tipo IgM che IgG) diretti contro il virus Sars-CoV-2 non sono in grado di fornire risultati sufficientemente affidabili e certi per la diagnosi rapida in pazienti che sviluppano il Covid 19” scrive in una nota. Insomma, “non possono sostituire il classico test basato sull’identificazione dell’RNA virale” anche se l’organizzazione avverte di stare conducendo studi su oltre 200 test rapidi. I risultati saranno disponibili nelle prossime settimane.

Pressione sui decision maker

Sull’affare dei test sierologici si sono fiondati in tanti. In Toscana, secondo quanto riportato dall’agenzia Impress, il presidente della Regione Enrico Rossi avrebbe firmato un’ordinanza per effettuare test sierologici su 7.800 sanitari. I casi positivi dovranno poi essere confermati con tampone. Ma l’inaffidabilità del primo esame rende il meccanismo traballante.

Inutile negarlo, il morale è allo stremo. Ma la domanda è se abbia senso, per un ente pubblico, inseguire gli umori della popolazione, e farlo battendo una strada la cui efficacia non è stata ancora riconosciuta nemmeno dal Comitato Tecnico Scientifico creato ad hoc dal Governo per fronteggiare l’emergenza.

Nel gioco delle parti, anche in piena crisi, ognuno agisce pro domo sua. Ma la politica dovrebbe fare gli interessi di tutti. Difficile immaginare che decisioni – operative e di spesa – tanto delicate siano prese sulla base della semplice emotività. E, magari, di campagne stampa martellanti che soffiano sul fuoco della paura.

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Milano, cronache dal fronte / 7

È successo anche stavolta. Fatta la legge, trovato l’inganno, recita il detto. E si sa, la saggezza popolare spesso ci prende.

La storia è più o meno questa. Il governo emana una norma. Chi ha scritto il testo sa benissimo che contiene alcune scappatoie (permesso di fare la spesa, jogging), utili a renderla applicabile. Risultato? Milioni di podisti improvvisati e spesaioli compulsivi mai visti prima si ritrovano in strada.

Il governo, visto l’andazzo, riduce progressivamente lo spazio lasciato al buonsenso ed emana un nuovo testo, più ricco di casi, eccezioni, deroghe e sanzioni.

Non basta. I parchi, complice il caldo, restano pieni. Intanto la gente negli ospedali muore. Si decide che bisogna correre ai ripari.

Nuovo decreto. I testi diventano tre, con riferimenti incrociati, richiami a codici e codicilli, tutto scritto, naturalmente, in linguaggio da azzeccagarbugli. Chi non ha seguito la vicenda dall’inizio prendendo appunti e facendo tabelle può rassegnarsi: ci sarà sempre un modo per avere torto, o una scappatoia per provare ad avere ragione.

Mi viene da pensare, in questi giorni di clausura in cui la mente può spaziare, che lo stesso accade con le normative fiscali, edilizie, commerciali: quelle, insomma, che regolano la vita quotidiana del nostro paese. Tranne per il fatto che, al posto di sessanta milioni di dilettanti del diritto, esistono eserciti di consulenti iper-specializzati e pagati profumatamente al solo fine di eludere le regole. Ovviamente, senza essere punibili, e mantenendo la fedina penale pulita.

Insomma: la burocratizzazione che ci tomenta è conseguenza dei furbetti che abbiamo attorno e tolleriamo. Che saranno pure la minor parte, come i runners improvvisati di questi giorni, ma producono effetti in grado di peggiorare la vita di tutti. Ricordiamocelo, quando, finalmente, il Covid sarà alle spalle.

Riflessione numero due. Qui, ovviamente, siamo nel campo delle opinioni.

Sui social, schiere di soloni hanno ridicolizzato chi si è recato a far la spesa temendo scarsità di rifornimenti, prendendolo – nel migliore dei casi – per provinciale. Peccato che lo stesso sia accaduto in ogni paese colpito dal virus, perché la psiche umana ragiona per archetipi universali. Ma non è questo il punto.

Paragonavo le code al supermercato al turismo di massa di questi anni.

Tutti in Asia, tutti in America, tutti ai Tropici, tutti in una capitale diversa ogni weekend, ogni festa comandata, ogni giorno rosso sul calendario. Non è anche questo un assalto da parvenu? Viaggiare così tanto, con tutto il corollario di costi ambientali dovuti ai voli intercontinentali, viaggiare così tanto, dicevamo, e di devastazioni durante il soggiorno, è veramente un diritto? O risponde solo al bisogno di fuga da un quotidiano vissuto come scadente?

Per fare cosa, poi. Gigabyte di foto che nella maggior parte dei casi nessuno guarderà più, in attesa di due-settimane-tutto-compreso nella prossima meta, oppure, per i più avventurosi, quindici-giorni-pieni-pieni-ma-abbiamo-visto-tutto. E tornare più stanchi di prima, ad arrancare fino alla prossima vacanza. Un’abbuffata compulsiva di cui poco resta, se non chiacchiere vanagloriose, e che nulla muta nello spirito di chi parte.

“Per viaggiare non è necessario vedere nuovi posti, ma avere nuovi occhi” scriveva, più o meno, Proust. Sarà questo virus, con le sue abitudini forzate, a cambiarci? Si profila una crisi economica simile (se non peggiore) a quella del 2008. C’è una generazione, quella nata negli anni Ottanta, cresciuta nel mito del posto fisso, ma che non ha fatto in tempo a finire gli studi e si è ritrovata nel caos di una recessione globale.

La lezione non è servita: in dieci anni le disuguaglianze sono aumentate, non certo diminuite. È sparita la classe media. Chi a fatica si era ripreso, è di nuovo a rischio. Forse, mi viene da pensare, è anche colpa nostra.

Finita l’epoca dei sindacati e delle lotte di massa – e delle loro esagerazioni –  ci siamo convinti che il successo fosse dietro l’angolo, per tutti, o almeno per quelli che lo meritavano. Se sei bravo ce la fai, e via col mito di Steve Jobs. Sii affamato, sii folle. Fotti il prossimo, aggiungerei, e vendigli la tua merce al doppio del valore, se sei capace. Poi viene fuori che a non farcela siamo noi. E giù lacrime amare.

Le belle giornate aiutano il morale, ma ieri – nuvoloso – per strada e in metropolitana la sensazione era che la gente abbia cominciato ad avere davvero paura. Gli sfortunati sprovvisti di mascherina camminano a passo svelto lanciando sguardi fugaci. Tanti vengono a sapere di parenti o amici contagiati. La battaglia, anche a Milano, è cominciata.

Il capoluogo per il momento tiene. I numeri sono in forte crescita, ma c’era da aspettarselo. La progressione non è esponenziale e fotografa le infezioni di due settimane fa. Monza, invece, preoccupa: ha avuto un raddoppio dei contagi acclarati (i pazienti, cioè, a cui è stato fatto il tampone) nel giro di sole 24 ore. Potrebbe essere il risultato del sabato al Parco due settimane fa.

La verità, ormai si dice apertamente, è che gli infetti sono molti più di quanto dichiarato. La nostra stima è tra le quattro e le cinque volte le cifre ufficiali. Molti in ospedale non ci arrivano mai perché non gravi, una quota di loro muore in casa.

Aumentano i medici contagiati. Croce Rossa e Comune di Milano hanno lanciato appelli per reclutare volontari tra la popolazione non sanitaria, e sembra siano stati in molti a rispondere. Non è dato sapere se siano stati arruolati.

E mentre pare che a Bergamo sia proibito al personale sanitario di avere contatti con i cronisti (a rischio di una denuncia penale), qualcuno inizia a ragionare su potenziali business legati al virus. La paura è una potente leva di marketing, in grado di condizionare le opinioni di pubblico, stampa e policy makers, soprattutto quando si dispone degli strumenti finanziari e relazionali per smuoverle. Manovre sono in corso, sfruttando il climax di queste settimane. Si gioca sul filo del rasoio, tra mercato e salute pubblica. Ma ne riparleremo, se sarà il caso, nei prossimi giorni.

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Milano, cronache dal fronte / 6

Accetta di raccontarmi la sua storia, ma prima mi dice di aspettare. Tira fuori un cracker e lo lancia ai piccioni di piazza Duomo. Gli uccelli, abituati ai chicchi di mais gettati dai turisti, si avventano tutti assieme sulle poche briciole da spartirsi.

L’immagine funziona. Vagano per le strade del centro, raccogliendo rifiuti dai bidoni della spazzatura, bevendo birra da lattine lasciate da chissà chi. Oppure restano seduti, aspettando offerte che non arriveranno. Sono i senzatetto di Milano, gli invisibili di una città che correva e, tutto sommato, aiutava.

Wilmer e sua moglie abitano qui, nel salotto buono della città, da quattro anni (guarda il video). Lei è disabile psichica al cento per cento, lui si è venduto il cellulare l’altro giorno per sfamarsi.

L’emergenza Covid è anche la loro, perché sono rimaste le briciole. Di solito ci pensano i volontari delle tante organizzazioni. Ma in questi giorni, mi spiega, l’attività di supporto si è ridotta. Probabilmente, a causa dei servizi attivati per distribuire pasti e medicinali a domicilio. Restare a casa, ma una casa non ce l’hanno. Immagino che qualcuno commenterà: cazzi loro. Resto dell’idea che sono anche cazzi nostri.

 



Che questa crisi abbia anche un risvolto sociale lo ha sottolineato ieri Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana.

“Esiste già un secondo fronte: accanto a quello sanitario ce n’è uno sociale. C’è anche chi ha già visto peggiorare la propria condizione economica già al limite della sussistenza – ha spiegato all’agenzia SIR – Ci sono colf e badanti, assunte in nero, che hanno perso i loro clienti e ci chiedono un aiuto maggiore”.

“Dobbiamo iniziare a prepararci sin da ora ad affrontare la crisi sociale che sta esplodendo dentro questa emergenza sanitaria – ha ripreso Gualzetti – Già adesso ci sono categorie più colpite: dai senzatetto a chi va avanti con lavori saltuari. Ma presto arriveranno ai nostri centri di ascolto tutte quelle persone che non potranno usufruire delle misure di protezione che il governo si appresta a mettere in campo, dalla cassa integrazione in deroga ai congedi familiari. Saranno loro a pagare il costo sociale più salato a questa crisi. Anche se fino ad ora se ne parla ancora poco”.

Ed è vero, se ne parla poco. Chi lavora nel silenzio sono gli avvoltoi, non solo quelli delle farmacie senza scrupoli. Dai “compro oro” che hanno riempito la città di pubblicità a chi rastrella case sul mercato immobiliare, che vive un brusco stop delle compravendite in quello che era diventato il paese dei balocchi. Il Movimento Cinque Stelle proponeva (sensatamente) di fermare le aste giudiziarie perché oggi, ad essere interessati agli acquisti, sono solo gli speculatori.

A Milano in centro non c’è nessuno o quasi per strada.
Il problema sono le periferie, gli anfratti. Viale Monza è deserto, ma basta infilarsi nelle stradine laterali e lo scenario cambia. Lungo la Martesana tra runners, passeggiate col cane, quattro passi con l’amica, il bimbo che deve uscire e i venti gradi primaverili oggi sembrava domenica pomeriggio. Pare che anche sul Monte Stella ci fosse il pienone.

Ci si è messa anche ATM, che ha improvvidamente ridotto le corse: risultato, sui primi treni del mattino, quelli dei pendolari, un affollamento da ora di punta.

Sta entrando in gioco il nemico più pericoloso. La frustrazione. Per ora Milano tiene, ma siamo all’inizio. È probabile che il tre aprile le misure siano prorogate. Oggi in città i casi sono 1.091, 127 in più di ieri. Il problema è che nelle statistiche finiscono solo i positivi sintomatici. Ma in casa c’è molta gente che il virus ce l’ha e non è conteggiata.

Nelle piazze si raccolgono tante persone, passatemi il termine, scazzate. Sole. Senza prospettive. La città sta diventando una grande galera. E la cosa peggiore che può capitare in carcere è una rivolta dei detenuti.

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Milano, cronache dal fronte / 5

C’è una mamma incinta al quinto mese ricoverata con sospetto Covid, e un marito che fa avanti e indietro dall’ospedale con un figlio di tre anni a casa. Gli servono delle mascherine per tutelarsi, finalmente le trova. Questo qui sotto è lo scontrino. Duecentoquaranta euro.

La foto mi è arrivata da un’amica che lavora nel settore sanitario, e conosce di persona l’acquirente. Siamo in centro a Milano, l’indirizzo l’ho cancellato perché non ho (volutamente) verificato di persona con la farmacia. Non ho tempo e voglia di farlo. Ci penseranno le autorità, a cui il caso è stato segnalato. Ma pare che si tratti di normali mascherine Ffp3 che di solito costano meno di 10 euro, e che siano proprio 4 pezzi (non quattro scatole).

Sembra che a Milano ci sia ancora chi specula sulla tragedia. Denunciate sempre (ripeto: sempre) certi comportamenti, qui e altrove. Non si può vendere a questi prezzi.

Oggi il Corriere ha scritto dell’allarme lanciato dai medici di base. I contagi sarebbero molti di più di quelli ufficiali. È così. I tamponi ormai vengono fatti solo a chi è sintomatico grave, quindi, sostanzialmente, a chi deve essere ricoverato in ospedale. Fino a che i sintomi non si aggravano, la linea è quella di provare con l’isolamento domiciliare. Non si puo fare diversamente, perché mancano i letti.

In Lombardia risultano 14.649 positivi: in realtà sono (almeno) cinque volte questa cifra. Chiunque può essere infetto. Quindi restate a casa, perché sarà ancora molto lunga. E fare attenzione quanto uscite: anche il carrello del supermercato può veicolare il contagio. Il gel per le mani si trova in molte farmacie, compratelo e fatene uso abbondante. Costa tra di cinque e i sette euro.

Chiudo con una informazione. Sul sito della Croce Rossa è possibile offrirsi come volontari temporanei (in tutta Italia). Se volete info, questo è il link

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Milano, cronache dal fronte / 4

Milano, notizia dal fronte / 4 (domenica 15 marzo). Fuori per la solita ricognizione. Sarà la domenica, il fatto che manca il traffico dei lavoratori, ma oggi la desolazione ha preso il posto del silenzio.

Il tram numero 9, quello della movida, corre dalla stazione Centrale a Porta Genova. Un solo passeggero, oltre a chi scrive. Scendiamo entrambi vicino all’Università Bocconi, simbolo della città rampante che sembra così lontana.

Mi chiedo se in questi anni non abbiamo corso troppo, peccato di vanità. Non c’entra col virus, ovviamente, il contagio non è la punizione divina per l’hybris. Ma accosto queste vie deserte allo spirito competitivo che vi si respirava fino a pochi giorni fa, e non riesco a scrollarmi la sensazione di una gigantesca giostrina che ha smesso di girare. L’onnipotenza del business ridicolizzata da un virus grande qualche milionesimo di millimetro. Che contrasto stridente.

Chissà come sarà la città d.C., dopo il Covid. Chissà se esiste un modo per salvare il lato umano (che stiamo riscoprendo) e coniugarlo allo sviluppo economico (di cui abbiamo bisogno).

Mi incammino a piedi verso la Darsena e i Navigli. Spettrali  (video). Qui, con 15 gradi e un cielo che alterna nuvoloni e schiarite, oggi sarebbe stato un brulicare di persone. Invece non c’è nessuno. Risalgo corso di porta Ticinese: solo clochard, mai visti così sconsolati, senza nessuno che dia loro una moneta.

Via Torino, strada dello shopping: pochi passanti. Oltre alle farmacie e agli alimentari, l’unico negozio aperto è quello di Iliad, la compagnia telefonica. Quattro o cinque commessi, in piedi, nelle loro divise rosse. Mi sembrano imbarazzati quando getto lo sguardo oltre l’ingresso. A ragione. C’è da chiedersi per quale motivo stiano lavorando, con che tipo di autorizzazione siano stati mandati qui a rischiare di ammalarsi, dato che gli esercizi commerciali sono tutti chiusi.

Torno a casa in metropolitana. Una persona per vagone, in media. Avverto un senso di sporcizia. Confermato: qualcuno ha defecato nei corridoi.

Chi è qui vorrebbe essere altrove. Non c’è gioia nei volti che incrocio, neanche l’ombra di un sorriso. Ci studiamo da dietro le mascherine. Milano oggi sembra una città abbandonata dopo un disastro atomico. Compro i giornali, e non vedo l’ora di risalire in superficie, chiudermi il portone dietro le spalle, e aspettare che venga domani.

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Milano, cronache dal fronte / 3

Il telefono vibra, il segnale è quello. L’amicizia ai tempi del Covid è fare la spesa nello stesso momento, appuntamento all’Esselunga, e la coda assieme per raccontarsi che cosa significa stare in casa, tutto il giorno. Per una volta, di persona, non via Skype.

C’è da augurarsi che la tempesta perfetta dovuta al virus ci renda più capaci di apprezzare il piacere di uno sguardo, il calore di una stretta di mano, e non finisca per rinchiuderci, quando finalmente sarà alle spalle, ancor di più in uno scafandro inodore, con la complicità dell’ultima tecnologia disponibile.

Il cronista, per mestiere, ha facoltà di raccontare. Ma chi scrive queste righe non sfugge al senso di colpa quando si aggira per i vicoli deserti, che sfumano nella luce di un tramonto primaverile che tanti vorrebbero godersi.

Come una grande ora d’aria, le strade di Milano sembrano il cortile di un carcere abbellito dagli intarsi dei palazzi, dai portoni colorati, dai manifesti sui muri. Alle finestre, i detenuti-cittadini, gli stessi che fino a ieri giravano liberi per lavoro, per amore, o solo per piacere, cercano il profumo della libertà nella fragranza dei ciliegi in fiore. Per le vie, i fortunati cui è concesso il turno.

Alle diciotto, il web si è dato appuntamento in balcone. Via Colletta, a quattro passi da Porta Romana. Due ragazzi escono, tirano fuori un bongo. Lui suona, lei canta. Qualche decina di metri più in là, una chitarra elettrica tiene il ritmo con un giro sincopato. I galeotti a passeggio si accrocchiano col naso all’insù, per godersi l’inaspettato concerto. Pochi istanti, e anche i palazzi di fianco, quelli di fronte, si riempiono di famiglie alle finestre: chi fuma, chi prende un caffè, chi semplicemente si gode brandelli di vita guardando quella degli altri.

Università Statale, altra jam session improvvisata. Questa volta le note sono quelle di Ligabue. Qui, fra un mese, avrebbe dovuto esserci uno dei rendez-vous più frequentati del Salone del Mobile, la kermesse dove le fabbriche dello Stivale raccolgono commesse per tutto l’anno. Un evento di portata globale che la sera si trasferisce in città, dai Navigli a Lambrate, dal centro a via Tortona all’Isola.

Oggi, notizia di poche ore fa, nei padiglioni della Fiera si pensa invece di farci un lazzaretto, per curare i malati che non trovano più posto nei nosocomi. Tutto rimandato, forse, di qualche mese. Ma c’è da scommettere che la prossima edizione sarà molto diversa dal solito, tra mascherine protettive e saluti col gomito.

Fa uno strano effetto restare in casa, e pensare che il tempo è l’unica medicina che, per ora, funzioni. Il tempo che cura, il tempo che guarisce, il tempo che stiamo faticosamente riconquistando compressi nei pochi metri quadri delle abitazioni cittadine.

I medici lottano alla ricerca di una terapia che appare lontana. Nelle chat riservate, lontano da occhi indiscreti, si raccontano casi, procedure, tentativi di soluzione. Qualcuno avanza ipotesi, rispolvera i libri dell’università per provare a interpretare i sintomi e dar loro un senso. Altri sono preoccupati per i familiari, esposti al contagio come ci fossero loro, in corsia. Tanti hanno paura.

Nella calma irreale della metropoli deserta, sono le sirene delle ambulanze a ricordare che i numeri del contagio continuano ad aumentare. Oggi in Lombardia dicono 9.820. Probabilmente sono almeno cinque volte tanto (ma la stima è nostra), dal momento che il tampone viene fatto, ormai, solo al personale sanitario e a chi manifesta sintomi gravi. Chiunque può essere infetto, vale la pena di ricordarlo. E le cifre sono destinate a crescere, fino a che la quarantena imposta dal governo non manifesterà gli effetti sperati, fra un paio di settimane. Secondo un’analisi dell’Istituto Superiore di Sanità di qualche giorno fa, il 22% dei pazienti avrebbe tra i 19 e i 50 anni, il 37,4% tra i 51 e i 70, il 39,2% più di 70 anni. Rende l’idea.
Quando finirà? Secondo il virologo Fabrizio Pregliasco (Università di Milano) il picco arriverà fra 14 giorni, con il Sud Italia che potrebbe ottenere risultati migliori perché lì la diffusione è minore, e quindi ci sono meno difficoltà di contenimento.

Fortunatamente, l’impressione è che la mente si stia abituando, che stia gradualmente imparando a convivere con l’emergenza. La rassegnazione è un’arma potente. Non sopravvive la specie più forte, ma quella che sa adattarsi meglio. Nella clausura involontaria, tutto serve a tirar su il morale. Un fiore, un bacio, il disegno di un bambino. Un bicchiere di birra. Un film stupido.

Col calare della sera, esce dalle case il popolo dei runner. Violano la quarantena. Ma sono gli unici, se ti affacci alla finestra, a restituire un senso di pur precaria normalità. Che continuino a correre. E a ricordarci come torneremo ad essere.

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…perché Milano non è la Cina


Perché a Wuhan hanno “chiuso” la città da subito e qui in Italia no? Risposta semplice, per chi non ha tempo: perché l’Italia non è la Cina, e gli italiani non sono cinesi. Neanche quelli di Milano, come insegnano Beppe Sala e i suoi #milanononsiferma. Non ci crede il sindaco, figuriamoci i cittadini.

I metodi autoritari di Pechino funzionano bene quando si tratta di mobilitare enormi quantità di persone e risorse in poco tempo. Coordinamento impeccabile, disciplina serrata, sanzioni dure. Ma dubito che molti di voi scambierebbero le libertà di una democrazia occidentale con quelle concesse nel paese che fu di Mao.

E poi ci siamo noi. Indisciplinati. Vigliacchi. Meschini. Un grande popolo…quando proprio non possiamo fare a meno di esserlo, cioè in piena emergenza.

Vengo al punto. Un governo che impone misure senza essere in grado di farle rispettare perde credibilità. Se ci riprova, è destinato ad essere deriso, e non è un lusso che, in questo momento, ci si può permettere.

Conte lo sapeva, e (mia opinione) ha scelto un atteggiamento graduale per evitare di perdere il controllo della situazione. Prima la Lombardia, il giorno dopo tutta Italia. Alle prime, seguiranno altre misure, più restrittive, e partiranno i controlli.

In Cina il sacrificio sarebbe stato imposto: ma, dicevamo prima, è un altro popolo.

Il governo ha fatto quello che ha potuto. Se non vi piace prendetevela con voi stessi. L’uomo forte, l’uomo solo al comando, avrebbe creato un disastro. Meglio mordere il freno, e portare a casa il risultato.

Ps. Milano ha risposto bene alle nuove norme (video). Per le strade pochissime persone, metropolitana deserta, tram vuoti. Mi dicono sia così anche a Cosenza. Buon segno, se dura. A Nord come a Sud. Sarà lunga, ma proviamoci.

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Milano, cronache dal fronte /2

(Premessa. Se non credete ai media, credete a uno che conoscete)


Il suono delle ambulanze spezza il silenzio ogni quarto d’ora. Milano è vuota, strade deserte, parcheggi liberi. Si potrebbe giocare a pallone in circonvallazione, unico pensiero schivare uno dei pochi rider che ogni tanto passano senza carico. I semafori segnano lunghi, interminabili istanti in attesa che nessuno attraversi. Gli infermieri che scendono quando le sirene si fermano non raccolgono superstiti di incidenti, ma pazienti da ricoverare per polmoniti da Covid. Uno dopo l’altro, casa per casa, in una processione senza sosta diretta ai tanti nosocomi della città. Tutti allo stremo.

Chi scrive ha creduto, come tanti, di poter abbassare la guardia per qualche giorno. Si sbagliava.
La zona rossa è a Codogno, si pensava, basta uscire un po’ meno. Giorno per giorno siamo tornati a condurre più o meno la solita vita. Le ordinanze e lo smart working avevano limitato il flusso di pendolari, gli studenti erano a casa; per il resto, la città aveva ripreso a vivere, a un ritmo più umano, senza la frenesia immotivata che caratterizza il capoluogo.
Intanto le cifre del contagio crescevano.

Oggi i malati in Lombardia sono più di 5mila, mille più di ieri, il 33% degli intubati ha tra i 50 e i 65 anni. Sospesi tra la vita e la morte ci sono ventenni e trentenni in buona salute. Chiunque potrebbe essere infetto. Ma mezza Italia non lo sa, e non crede ai resoconti. Il virus lavora nell’ombra, e la piena, al Sud, è attesa tra due settimane. A Palermo stanno preparando i letti. Ma quello che è chiaro ai dottori non lo è alla popolazione.

A Bergamo, Lecco, Como, medici e infermieri con 20 anni di esperienza piangono per quello a cui assistono in corsia, piangono perché sono costretti a scegliere a chi fornire l’ossigeno. Il criterio è l’aspettativa di vita, a pagare sono i più anziani. Che può voler dire sacrificare un 50 enne, se in attesa c’è un universitario che magari è andato a correre con la maglia dell’ateneo, come è accaduto stasera, porta Venezia, ore 19 e 30.

Metà delle insegne sono chiuse, l’altra è accesa. E viene da ringraziare chi, pur sapendo che non venderà un bottone, sceglie di scendere in strada e tenere aperto. La luce delle vetrine scalda il gelo di una notte che ricorda l’oscuramento bellico. Una chiesa di mattoni rossi, illuminata, le scritte in latino che si stagliano verso il cielo, e torno al Medioevo, quando l’uomo non si illudeva di aver imparato a dominare le forze della natura, e il giorno era giorno, la notte notte. Quando si guardava a questi altari urbani non come a belle suppellettili da studiare in mezzo ai grattacieli, ma come estrema invocazione verso la divinità: che fosse clemente, consapevoli che niente avrebbe potuto salvare l’umanità in caso d’ira.
Sabato sera la fiumana ha preso le vie del Sud, ma molti lombardi hanno lasciato il territorio e si sono rifugiati in Liguria, dove i piazzali della Riviera sono pieno di camper di finti turisti in fuga dal lazzaretto.
E mentre nelle carceri del paese infuria la rivolta, a Foggia un’evasione di massa rende le strade della città simili alla Baghdad dei tempi di guerra. Gruppuscoli di delinquenti fermano le auto, rapinano persone alla ricerca dei primi quattrini e di cellulari, in attesa di riallacciare i contatti con la malavita. La gente si chiude in casa. Per strada ci sono, letterlmente, i carri armati.

Si narra che circolino già soggetti che offrono passaggi in uscita verso il Meridione per qualche centinaio di euro. “Offerte speciali” rivolte a chi non possiede un’auto e non può prendere i treni a causa delle misure del governo. Magari per tornare a far festa, e far finta che basti non pensarci. Un modo di far soldi si trova sempre. E anche qualche stupido che ci casca.

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Effetti collaterali

Virale. Nell’oceano (rosso) del marketing, oltre le colonne d’Ercole che separano vita offline e online, non si registra aggettivo più usato da almeno un paio di lustri. Virale è il contenuto, virali sono il video, lo sketch, la gaffe. Sono bastati dieci giorni e, invece, di virale è rimasto solo il Covid. Persino sui giornali. Sulle testate non si vedono più mici che giocano teneramente, koala che si abbracciano, bimbi che imitano Frank Sinatra stonando. E, soprattutto, nessuno osa più accompagnarli con l’infausta parolina, pena il pubblico ludibrio. Beh, se può esserci un effetto collaterale positivo del coronavirus, direi che è proprio questo.

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