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Twitter, ecco i 46 super-account seguiti da Elon Musk

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su StartupItalia!.

Ha 20 milioni di follower, ma “ricambia il favore” solo 46 volte. Non si può dire che Elon Musk non sia selettivo. Del resto il 46 enne fondatore di Paypal, Tesla, Space X e diverse altre compagnie con il vizio di plasmare il futuro è un iperattivo, e ha bisogno di scegliere bene a chi dedicare la propria attenzione.

La biografia racconta che imparò a programmare a 10 anni;  già a 12 vendeva il suo primo videogioco – scritto in Basic – a una rivista di informatica; e che, come tanti appassionati, fu bullizzato dai compagni, che arrivarono a lanciarlo giù dalle scale e a picchiarlo tanto forte da fargli perdere conoscenza.

Una mente eclettica lo portò a studiare scienze e business in Canada, e ad abbandonare un dottorato in fisica a Stanford dopo soli due giorni di corso. Aveva deciso di inseguire le aspirazioni da imprenditore, non prima di aver affittato un appartamento da 10 persone per trasformarlo in un nightclub.

Tra scienza e business

Basterebbero queste poche righe per delineare il profilo dell’uomo del momento, da alcuni salutato come il miglior esempio di imprenditore illuminato, perfetta sintesi tra approccio scientifico e business.

Lontano anni luce da Steve Jobs, che probabilmente sarà ricordato per le capacità imprenditoriali e di marketing visionario, ma è percepito come avido; agli antipodi di Jeff Bezos, che ha superato il fondatore di Apple nell’incarnare lo stereotipo del tiranno.

Musk è di un’altra categoria. Si colloca in quella schiera di ingegni trasversali destinati a lasciare il segno. Novello Leonardo da Vinci, meno scienziato del toscano ma baciato dal talento per gli affari. Del resto, se il genio italiano avesse potuto brevettare le proprie invenzioni, molto probabilmente sarebbe diventato l’uomo più ricco del mondo.

Chi segue Elon Musk su Twitter?

Se la biografia dice molto di lui, i social possono essere utili per approfondirne personalità e carattere. Ma quali sono gli account seguiti da Elon Musk su Twitter?

Scienza, ma non solo. Così, tra pagine di matematica (Fermat’s library) e tecnologia (Slashdot, Gizmodo, The Verge), spunta a sorpresa quella creata da una docente universitaria di filosofia, la professoressa Rebecca Goldstein. Spinoziana di formazione –  e l’opera principale del filosofo olandese è l’Etica -. La pagina di Goldstein si chiama Plato on book e si propone di indagare come l’ateniese “reagirebbe nel 21mo secolo”. Interessante, non c’è che dire.

Un po’ di relax durante le lunghe giornate al pc arriva da Imgur (hosting che ospita immagini virali) e The Onion (magazine satirico); ma sorprende trovare un comedian come John Oliver. Sì, proprio lui, che ogni settimana sferza i politici a stelle e strisce e nei giorni scorsi se l’è presa con la politica italiana scatenando un vivace dibattito. Un posto lo trova anche Tim Urban,  del sito Wait but why: l’idea è quella del long form blog illustrato, cioè contenuti decisamente più lunghi rispetto agli standard del web, che per essere gustati hanno bisogno di tempo. Sarà per questo che Urban stesso si definisce un procrastinatore in una Ted  Talk. Il rapporto tra Musk e Urban è consolidato, tanto che quest’ultimo ha scritto di Tesla e della altre società del sudafricano in una serie di pezzi ospitati sul proprio sito.

La sezione culturale non lascia dubbi sull’orientamento politico di Musk: dalla New York Times Book Review al New Yorker, siamo ben piantati nel perimetro del radical (chic) che ha scritto una buona fetta di storia del giornalismo a stelle e strisce. Tocco di classe è History in pictures, che mostra immagini significative tratte dagli archivi fotografici, interessanti e decisamente  ben selezionate. La musica è, invece, rappresentata da Rolling Stone.

Veniamo alla filantropia: come ogni miliardario che si rispetti, anche il nostro ha le sue buone cause da sostenere. Follow, quindi, alla pagina della Khan Academy: la fondazione è stata creata da un ingegnere bengalese con il pallino di offrire tutorial gratuiti a chi non può permettersi la costosa istruzione anglosassone.

E poi, naturalmente, il futuro: Curiosity Rover (dedicata alle esplorazioni su Marte), Open AI (intelligenza artificiale), Neuroskeptic  (neuroscienze) rientrano tutte nella dieta social del miliardario. Simpatica How things work, che svela il funzionamento di molti oggetti  e procedure che plasmano la nostra vita quotidiana, mentre Atlas Obscura è più orientata – ci risiamo – verso la scienza.  Ci sono, naturalmente le sue compagnie più famose (Space X  e Tesla), ma anche The Boring company,  gioco di parole tra l’aggettivo boring e il verbo to bore. Curiosamente, il profilo è davvero “noioso”, tanto da non aver pubblicato alcun tweet. Con questa società Musk, però, si occupa di trovare modi per rendere dieci volte più economica la realizzazione di tunnel sotterranei, visti come la soluzione ai problemi di traffico urbano. Non potevano mancare la Nasa, la Stazione spaziale internazionale e un paio di siti di videogiochi e coding.

Siamo alla fine.  Che Musk sia un sentimentale forse, a questo punto,  si è capito. Oltre al fratello, a Oliver, a Urban e al divulgatore scientifico Phil Phait, c’è posto solo per un’altra persona in uno degli account più seguiti del mondo. Si tratta di Talulah Riley, attrice e imprenditrice. Ma soprattutto, ex fidanzata, ex moglie, e protagonista di una storia d’amore con infinite andate e ritorni. Lei, l’uomo più innovativo del pianeta, non ha avuto il coraggio di cancellarla.

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Twitter, ovvero come cambiare il mondo e non fare soldi

Erano due grandi scommesse: una è stata vinta, l’altra no. Entrambi hanno cambiato il mondo e il modo in cui lo intendiamo, ma uno fa soldi, l’altro li perde (fino ad ora). Parliamo, naturalmente, di Facebook e Twitter. Mentre Zuckerberg continua a macinare utili, trainato dalla crescita della pubblicità online e della base di utenti, la piattaforma d Jack Dorsey non decolla dal punto di vista economico.  Nei giorni scorsi la società  pare aver invertito la rotta: il fondatore ha presentato i ricavi del quarto trimestre 2017, che vedono un utile di 91 milioni di dollari. Tanto è bastato a far volare il titolo, che ha toccato in borsa il valore di 30 dollari per azione per la prima volta dal 2015: allora, però, le aspettative erano diverse.

Per arrivare a questo risultato,  è stata necessaria una cura da cavallo, con taglio dei costi per 150 milioni, e a farne le spese sono stati stipendi, marketing e una sforbiciata al reparto ricerca e sviluppo. Intanto la base degli utenti non aumenta. Gli analisti, in sostanza, temono si tratti di un fuoco di paglia.

Jack Dorsey, fondatore di Twittter

Jack Dorsey, fondatore di Twittter

E’ strano come una delle società che più ha improntato il nostro stile di vita – basti pensare al termine “hashtag” e all’uso del tasto cancelletto, che usavamo solo per ricaricare i cellulari  – non riesca a decollare. L’idea è stata geniale; ma monetizzare è un altro discorso. Twitter sfondò nel giugno 2009, quando fu ampiamente utilizzato da giornalisti e manifestanti per “coprire” la rivoluzione verde in Iran. Fu subito chiaro che si trattava di un formidabile strumento di comunicazione: senza fronzoli, costringeva alla sintesi. Con il tempo, è diventato il medium preferito dai personaggi in vista –  anche il Papa ha un account – e un termometro sensibile degli umori della gente. Ma il suo pubblico è più elitario, e quindi meno appetibile per le aziende che fabbricano prodotti di largo consumo, rispetto a quello di Facebook. Inoltre, il tempo passato sulla piattaforma è scarso.

La virata per cercare di portare per la prima volta in utile la compagnia comprende il passaggio da 140 a 280 caratteri e un incentivo all’uso dei video. L’esperienza di oggi è leggermente differente rispetto a quella degli esordi; sicuramente, più coinvolgente. Ma nel frattempo è arrivata la concorrenza, ed è difficile immaginare che gli utenti si dividano su più piattaforme di quante –  e sono molte – già ne usano. Più probabilmente, faranno una scelta. E la creatura di Jack Dorsey resterà quello che è sempre stata: uno strumento “posh”. I soldi, quelli veri, andranno da un’altra parte.

@apiemontese

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Twitter e Yahoo: fine di un ciclo

Settimana di notizie di un certo peso per il web. Dopo la conferma che sarebbero state rubate le password di 500 milioni di account Yahoo, arriva quella che Google e Salesforce sarebbero interessate a Twitter. Vediamo di capire qualcosa di più.

Il furto di dati è stato rivendicato da un hacker, a quanto pare russo, che si fa chiamare Peace. Il mago della tastiera ha messo in vendita sul deep web (il web non accessibile con i normali browser e motori di ricerca, dove è possibile comprare di tutto, da documenti falsi a organi e persino assoldare un killer) i dati all’equivalente di 1800 dollari in bitcoin, la moneta virtuale. La faccenda assume contorni grotteschi perché Yahoo, un tempo uno dei principali player online, non ha fatto immediatamente chiarezza. Un’altra macchia per Marissa Mayer, pagatissima e bionda Ceo che si vanta di lavorare 130 ore alla settimana. Tra i primi dipendenti di Google, talento indiscutibile sul lato tecnico, la Mayer non si è mai calata nei panni della manager, fallendo il rilancio del motore di ricerca che alla fine degli anni ’90 faceva concorrenza a Brin e Page. Il passaggio a un ruolo marcatamente business non può dirsi riuscito: ma se rianimare un cadavere non è impresa da poco, resta il dubbio che le sfide, in qualche caso, sia meglio rifiutarle. Come insegnava Lao Tzu, la strategia migliore è non combattere le battaglie che si è destinati a perdere.

Nel caso di Yahoo, il distacco dai concorrenti era già abissale ai tempi dell’entrata in gioco di Mayer. Anche Microsoft ha provato a entrare nel settore, con Bing, ma il colosso di Seattle ha dalla sua la proprietà del sistema operativo più diffuso al mondo, Windows: base d’appoggio di tutto rispetto. In Usa pare che il lavoro ai fianchi stia dando i suoi frutti: se fare concorrenza a Mountain View è impensabile, si può sempre pensare di tenere botta in attesa di tempi migliori.

La notizia dell’interesse di Google e Salesforce per Twitter ha scosso il mercato: il titolo è salito del 21% in Borsa. Premesso che parliamo di impressioni, la mia sensazione è che siamo alla fine di un ciclo.

Twitter va male, lo sanno tutti. Il 2016 non è stato, come si sperava, l’anno del rilancio. I ricavi sono sotto le attese, e l’aumento degli utenti pure.  Concorrenti come Instagram sono riusciti a fare di meglio.

Il problema, in questo caso, è strutturale. Twitter è un raro caso di prodotto (meglio sarebbe dire “servizio”) icona dei tempi. Un ruolo che, se conferisce enorme prestigio, non sempre si presta ad essere capitalizzato. Salito alla ribalta nel 2009, anno delle proteste in Iran, come strumento dei dissidenti per informare il mondo tramite flash brevi ed efficaci, è entrato nell’immaginario comune al punto che il cancelletto è diventato, per tutti e ovunque, hashtag: alla vecchia maniera, ormai, lo chiamano solo le voci registrate delle segreterie telefoniche.  Il linguaggio di una generazione è stato tematizzato da queste parole-chiave, che rappresentano un modo di pensare veloce, rapido e per immagini: quello dei millenials, i nati dopo il 2000.

Il problema è che Twitter è rimasto quello che era all’inizio: uno strumento utile ai  pochi eletti con milioni di followers, apprezzatissimo dai giornalisti che possono seguire rapidamente le storie di loro interesse grazie al limite dei 140 caratteri, ma assolutamente inutile per tutti gli altri. Le opinioni dell’uomo comune, le sentenze in formato ridotto che si postano sul social media, non interessano nessuno. E alla fine, le notizie dei “VIP” la gente preferisce ancora leggerle sui giornali, con un minimo di rielaborazione, e di contesto. A interpretare il narcisismo da selfie riesce meglio Instagram.  La pubblicità non è mai decollata, e anzi, ha persino rovinato l’immagine della piattaforma, da sempre pulita; né sono servite le innovazioni proposte col tempo, sempre lontane dalla natura di un medium nato per essere conciso.

Ecco perché, sinceramente, non comprerei le azioni di Twitter.  Dal mio  punto di vista, il passaggio di mano significherebbe che qualcuno ha deciso di gettare la spugna. Una delle strategie più usate negli ultimi tempi è quella di inglobare i concorrenti di cui non si riesce a sbarazzarsi. Così ha fatto Facebook con Whatsapp, con l’intento non troppo nascosto di portarne gli utenti su Messenger: una piattaforma su cui Zuckerberg immagina la gente vivrà un’esperienza a 360 gradi, usandola, ad esempio, anche per fare acquisti. Così fece Microsoft con Skype e, più di recente, con Linkedin.  Google potrebbe ragionare allo stesso modo e preparare sorprese: una nuova app?

Discorso diverso per Salesforce, piattaforma cloud usatissima nel settore del business development, la nuova frontiera dello sviluppo commerciale: consente, in sostanza, di gestire la propria forza di vendita in maniera coordinata, affidando obiettivi precisi a ogni agente e monitorandone la progressione e i risultati in tempo reale.

Forse in questo caso, l’utilizzo potrebbe essere quello di uno sviluppo del servizio, aggiungendo nuove funzioni a quelle esistenti  (ad esempio, una piattaforma megafono per le aziende che vogliono investire in pubblicità online).

Ribadisco: si tratta di impressioni a caldo, ma sulla fine della parabola di Twitter come lo conosciamo sarei pronto a scommettere. E’ entrato come pochi prodotti (pardon, servizi) nell’immaginario collettivo, plasmando il mondo e diventando il simbolo di un’epoca. Se sopravviverà (e se il nuovo management lo vorrà) manterrà intatto il suo charme. Ma è chiaro che, nella mente di chi lo ha fondato, si tratta di una scommessa persa. C’è un che di tragico in tutto ciò: creare una delle applicazioni più famose della storia, e perdere la sfida con l’ambizione. Se la realtà non smette di annoiarci, probabilmente questi chiaroscuri ne sono il motivo.

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#myNYPD: l’hashtag che imbarazza la polizia

Quando un hashtag si trasforma in un disastro. Alla polizia di New York hanno pensato bene di invitare i cittadini a condividere su Twitter le immagini più significative del proprio rapporto con gli agenti. L’intento era evidenziare il legame tra il corpo e la città: non è andata così. Come racconta questo articolo di VICE, l’hashtag #myNYPD ha catalizzato una gran quantità di scatti. Moltissimi però riguardavano comportamenti discutibili delle forze dell’ordine in occasione di manifestazioni. E l’operazione è diventata un clamoroso autogol.

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Tre mesi senza news online? Fatto

Quanto è affidabile ciò che si legge su Internet?  Poco, ormai è quasi un luogo comune.

Vi dico subito che lo spunto per questo post è nato da un piccolo esperimento che ho fatto nei mesi scorsi, per la verità abbastanza casualmente. In preda a una vera e propria crisi di rigetto da web, ho abbandonato le news online. All’inizio non è stato un fatto voluto, ma strada facendo ci ho preso gusto e ho cercato di allontanarmi quel tanto che mi consentisse di avere un punto di vista un po’ più distaccato. L’esperimento è durato tre mesi in tutto, e la conclusione si può riassumere così: la qualità, su Internet, non paga. Letteralmente. Vediamo perché.

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