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Zuck, 33 anni e sentirsene il doppio

Il volto magro, consunto. Le spalle più larghe di un tempo. Lo sguardo triste, spento, anche quando cerca di sorridere. Mark Zuckerberg, il ceo di Facebook, ha solo 33 anni. Ma è già un uomo vecchio. Pare che la voglia di vivere l’abbia persa per strada. Non che sia mai stato un campione di vitalità; ma il ragazzo statunitense dalla felpa con cappuccio aveva, se non altro, la freschezza dei 20 anni e dell’aver raggiunto il successo quando i coetanei finiscono l’università.

Dieci anni dopo, molta acqua è passata sotto i ponti. Il giovane un po’ naif è diventato un adulto, e ha scoperto che essere il terzo uomo più ricco del mondo  – ha di recente superato Warren Buffet – ha un prezzo salato: una vita sotto pressione, il fucile puntato addosso. E il non potersi fidare di nessuno, forse nemmeno della propria moglie, sposata non senza un corposo accordo prematrimoniale che prevede tutto, anche il “quality time” che la coppia deve passare assieme.

Viene da chiedersi, a guardarlo, se ne valga la pena. E se l’ex studente di Harvard non sia avviato sulla strada che fu di Bill Gates. Prima squalo, poi munifico benefattore, forse per restituire un po’ di quanto ricevuto in sorte. E cercare, dopo tanta fatica, un po’ di serenità.

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internet, politica, pubblicità

Pubblicità e politica: online è il far west

Lo suggerisce il Guardian con la solita intelligenza, e del resto il tema è attualissimo. Mentre la pubblicità elettorale sui media tradizionali (Tv, radio, manifesti) è ampiamente regolamenta, quella online è terra di nessuno e, in buona parte, inesplorata. Soprattutto dal legislatore. Il quotidiano inglese la paragona al “wild west” di Sergio Leone, dove gli sceriffi fanno tappezzeria e i conti si regolano con le pistole.

Dai sondaggi alla “par condicio” alla cosiddetta “pausa di riflessione” prima del voto, nelle democrazie moderne ogni aspetto sensibile è sottoposto a normativa. L’obiettivo, nobile, è evitare che chi è in grado di condizionare i media possa sfruttarli a proprio vantaggio. In Italia sappiamo che un modo per comprarsi il consenso si trova comunque: basta possedere tre reti nazionali, un quotidiano, quattro o cinque mensili, una casa editrice  e qualche amicizia che conta. Trump ha imparato la lezione così bene che, da palazzinaro e protagonista di reality, si è ritrovato a Washington in un battito di ciglia.

Ma c’è poco da stare allegri. I database di Facebook contengono migliaia di post per ogni utente e la creatura di Zuckerberg consente per definizione di inviare pubblicità profilata. Per capire a chi, ci sono società più piccole come Cambridge Analytica che sono in grado di creare profili elettorali bersaglio incrociando “big data and psychographics” (che tradurrei con “psicografiche”, sul modello delle ormai diffusissime infografiche). Significa che chi è sensibile  alla povertà e si commuove di fronte alle immagini shock, sarà bombardato da messaggi toccanti. Un tipo analitico, invece, riceverà reports a base di  numeri e istogrammi. Molto più persuasivo, no?

Le conseguenze possono essere pesanti. Nelle elezioni del 2015 i Conservatori in UK spesero 1,2 milioni di sterline in advertising online, il Labour solo 160mila. Il risultato fu l’inaspettata elezione di David Cameron che avrebbe condotto, l’anno seguente, al referendum sulla Brexit.
Già allora Politico.com si chiedeva se la tecnologia stesse rendendo inaffidabili i classici sondaggi.

Il problema oggi è dannatamente serio, e configura una delle sfide più interessanti per il diritto. La sfida per il legislatore è duplice. In primo luogo, capire come intervenire a livello nazionale senza ledere le libertà fondamentali. In secondo luogo obbligare le grandi corporation multinazionali come Facebook, che possono piazzare i server dove vogliono, ad adeguarsi.

Un’altra dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, di quanto sia essenziale l’Unione Europea. Siamo sicuri che l’Italia una partita del genere possa, non diciamo vincerla, ma semplicemente giocarla?

@apiemontese

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Twitter e Yahoo: fine di un ciclo

Settimana di notizie di un certo peso per il web. Dopo la conferma che sarebbero state rubate le password di 500 milioni di account Yahoo, arriva quella che Google e Salesforce sarebbero interessate a Twitter. Vediamo di capire qualcosa di più.

Il furto di dati è stato rivendicato da un hacker, a quanto pare russo, che si fa chiamare Peace. Il mago della tastiera ha messo in vendita sul deep web (il web non accessibile con i normali browser e motori di ricerca, dove è possibile comprare di tutto, da documenti falsi a organi e persino assoldare un killer) i dati all’equivalente di 1800 dollari in bitcoin, la moneta virtuale. La faccenda assume contorni grotteschi perché Yahoo, un tempo uno dei principali player online, non ha fatto immediatamente chiarezza. Un’altra macchia per Marissa Mayer, pagatissima e bionda Ceo che si vanta di lavorare 130 ore alla settimana. Tra i primi dipendenti di Google, talento indiscutibile sul lato tecnico, la Mayer non si è mai calata nei panni della manager, fallendo il rilancio del motore di ricerca che alla fine degli anni ’90 faceva concorrenza a Brin e Page. Il passaggio a un ruolo marcatamente business non può dirsi riuscito: ma se rianimare un cadavere non è impresa da poco, resta il dubbio che le sfide, in qualche caso, sia meglio rifiutarle. Come insegnava Lao Tzu, la strategia migliore è non combattere le battaglie che si è destinati a perdere.

Nel caso di Yahoo, il distacco dai concorrenti era già abissale ai tempi dell’entrata in gioco di Mayer. Anche Microsoft ha provato a entrare nel settore, con Bing, ma il colosso di Seattle ha dalla sua la proprietà del sistema operativo più diffuso al mondo, Windows: base d’appoggio di tutto rispetto. In Usa pare che il lavoro ai fianchi stia dando i suoi frutti: se fare concorrenza a Mountain View è impensabile, si può sempre pensare di tenere botta in attesa di tempi migliori.

La notizia dell’interesse di Google e Salesforce per Twitter ha scosso il mercato: il titolo è salito del 21% in Borsa. Premesso che parliamo di impressioni, la mia sensazione è che siamo alla fine di un ciclo.

Twitter va male, lo sanno tutti. Il 2016 non è stato, come si sperava, l’anno del rilancio. I ricavi sono sotto le attese, e l’aumento degli utenti pure.  Concorrenti come Instagram sono riusciti a fare di meglio.

Il problema, in questo caso, è strutturale. Twitter è un raro caso di prodotto (meglio sarebbe dire “servizio”) icona dei tempi. Un ruolo che, se conferisce enorme prestigio, non sempre si presta ad essere capitalizzato. Salito alla ribalta nel 2009, anno delle proteste in Iran, come strumento dei dissidenti per informare il mondo tramite flash brevi ed efficaci, è entrato nell’immaginario comune al punto che il cancelletto è diventato, per tutti e ovunque, hashtag: alla vecchia maniera, ormai, lo chiamano solo le voci registrate delle segreterie telefoniche.  Il linguaggio di una generazione è stato tematizzato da queste parole-chiave, che rappresentano un modo di pensare veloce, rapido e per immagini: quello dei millenials, i nati dopo il 2000.

Il problema è che Twitter è rimasto quello che era all’inizio: uno strumento utile ai  pochi eletti con milioni di followers, apprezzatissimo dai giornalisti che possono seguire rapidamente le storie di loro interesse grazie al limite dei 140 caratteri, ma assolutamente inutile per tutti gli altri. Le opinioni dell’uomo comune, le sentenze in formato ridotto che si postano sul social media, non interessano nessuno. E alla fine, le notizie dei “VIP” la gente preferisce ancora leggerle sui giornali, con un minimo di rielaborazione, e di contesto. A interpretare il narcisismo da selfie riesce meglio Instagram.  La pubblicità non è mai decollata, e anzi, ha persino rovinato l’immagine della piattaforma, da sempre pulita; né sono servite le innovazioni proposte col tempo, sempre lontane dalla natura di un medium nato per essere conciso.

Ecco perché, sinceramente, non comprerei le azioni di Twitter.  Dal mio  punto di vista, il passaggio di mano significherebbe che qualcuno ha deciso di gettare la spugna. Una delle strategie più usate negli ultimi tempi è quella di inglobare i concorrenti di cui non si riesce a sbarazzarsi. Così ha fatto Facebook con Whatsapp, con l’intento non troppo nascosto di portarne gli utenti su Messenger: una piattaforma su cui Zuckerberg immagina la gente vivrà un’esperienza a 360 gradi, usandola, ad esempio, anche per fare acquisti. Così fece Microsoft con Skype e, più di recente, con Linkedin.  Google potrebbe ragionare allo stesso modo e preparare sorprese: una nuova app?

Discorso diverso per Salesforce, piattaforma cloud usatissima nel settore del business development, la nuova frontiera dello sviluppo commerciale: consente, in sostanza, di gestire la propria forza di vendita in maniera coordinata, affidando obiettivi precisi a ogni agente e monitorandone la progressione e i risultati in tempo reale.

Forse in questo caso, l’utilizzo potrebbe essere quello di uno sviluppo del servizio, aggiungendo nuove funzioni a quelle esistenti  (ad esempio, una piattaforma megafono per le aziende che vogliono investire in pubblicità online).

Ribadisco: si tratta di impressioni a caldo, ma sulla fine della parabola di Twitter come lo conosciamo sarei pronto a scommettere. E’ entrato come pochi prodotti (pardon, servizi) nell’immaginario collettivo, plasmando il mondo e diventando il simbolo di un’epoca. Se sopravviverà (e se il nuovo management lo vorrà) manterrà intatto il suo charme. Ma è chiaro che, nella mente di chi lo ha fondato, si tratta di una scommessa persa. C’è un che di tragico in tutto ciò: creare una delle applicazioni più famose della storia, e perdere la sfida con l’ambizione. Se la realtà non smette di annoiarci, probabilmente questi chiaroscuri ne sono il motivo.

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