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Vaccino Covid, cosa significa per Londra arrivare primi

L’approvazione del vaccino Pfizer-BioNTech da parte dell’ente di vigilanza britannico, primo al mondo, ha un impatto pratico (ovviamente, quello legato alla protezione della popolazione) ma anche un significato politico molto più ampio. Il vaccino sarà disponibile dalla prossima settimana. Da Europa e USA, invece, non ci sono notizie sui tempi.

Il Regno Unito è tra i paesi più colpiti dal coronavirus dal punto di vista economico, in parte anche per le scellerate decisioni del premier Boris Johnson nelle fasi iniziali. Johnson sottovalutò i rischi puntando a un’immunità di gregge molto costosa in termini di vite umane per garantirsi una ripresa precoce, salvo poi, ammalarsi egli stesso, e correggersi nel giro di qualche settimana. La pandemia ha toccato Londra nel momento peggiore: pochi mesi prima, il paese aveva sbattuto per l’ennesima volta la porta in faccia all’Unione Europea e chiuso la telenovela Brexit, che durava da oltre tre anni.

Un problema serio, perché l’economia non beneficerà del generoso Recovery Fund messo in piedi da Bruxelles.

Oggi il Regno Unito è un paese solo, con le mani libere, ma che viaggia in mare aperto senza scialuppe. Avere approvato per primi il vaccino significa cominciare a distribuirlo subito e poter, quindi, sperare in un recupero più rapido. Ma non solo: significa anche guadagnare le copertine dei notiziari, e soprattutto: siamo qui, non siamo morti. Siamo sempre uno dei paesi più avanzati al mondo dal punto di vista tecnologico. Venite da noi, ce la possiamo fare.
Oltre che di impatto per gli investitori esteri, l’annuncio rinvigorisce il morale sul fronte interno.

Che basti, non è detto. I prossimi anni saranno duri, e a Downing Street lo sanno bene. Inoltre, l’attendismo delle agenzie del farmaco europea e americana sull’approvazione è un segnale chiaro: meglio andare sul sicuro che rischiare un nuovo disastro, in termini di vite umane e di immagine internazionale. Ma la tentazione, per Londra, è stata troppo forte: dopo una serie di sconfitte a cui il paese non era abituato, quello di oggi è il primo colpo messo a segno da tempo. O l’ennesimo flop di un leader nato per stupire, forse non per governare.

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Milano, cronache dal fronte / 6

Accetta di raccontarmi la sua storia, ma prima mi dice di aspettare. Tira fuori un cracker e lo lancia ai piccioni di piazza Duomo. Gli uccelli, abituati ai chicchi di mais gettati dai turisti, si avventano tutti assieme sulle poche briciole da spartirsi.

L’immagine funziona. Vagano per le strade del centro, raccogliendo rifiuti dai bidoni della spazzatura, bevendo birra da lattine lasciate da chissà chi. Oppure restano seduti, aspettando offerte che non arriveranno. Sono i senzatetto di Milano, gli invisibili di una città che correva e, tutto sommato, aiutava.

Wilmer e sua moglie abitano qui, nel salotto buono della città, da quattro anni (guarda il video). Lei è disabile psichica al cento per cento, lui si è venduto il cellulare l’altro giorno per sfamarsi.

L’emergenza Covid è anche la loro, perché sono rimaste le briciole. Di solito ci pensano i volontari delle tante organizzazioni. Ma in questi giorni, mi spiega, l’attività di supporto si è ridotta. Probabilmente, a causa dei servizi attivati per distribuire pasti e medicinali a domicilio. Restare a casa, ma una casa non ce l’hanno. Immagino che qualcuno commenterà: cazzi loro. Resto dell’idea che sono anche cazzi nostri.

 



Che questa crisi abbia anche un risvolto sociale lo ha sottolineato ieri Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana.

“Esiste già un secondo fronte: accanto a quello sanitario ce n’è uno sociale. C’è anche chi ha già visto peggiorare la propria condizione economica già al limite della sussistenza – ha spiegato all’agenzia SIR – Ci sono colf e badanti, assunte in nero, che hanno perso i loro clienti e ci chiedono un aiuto maggiore”.

“Dobbiamo iniziare a prepararci sin da ora ad affrontare la crisi sociale che sta esplodendo dentro questa emergenza sanitaria – ha ripreso Gualzetti – Già adesso ci sono categorie più colpite: dai senzatetto a chi va avanti con lavori saltuari. Ma presto arriveranno ai nostri centri di ascolto tutte quelle persone che non potranno usufruire delle misure di protezione che il governo si appresta a mettere in campo, dalla cassa integrazione in deroga ai congedi familiari. Saranno loro a pagare il costo sociale più salato a questa crisi. Anche se fino ad ora se ne parla ancora poco”.

Ed è vero, se ne parla poco. Chi lavora nel silenzio sono gli avvoltoi, non solo quelli delle farmacie senza scrupoli. Dai “compro oro” che hanno riempito la città di pubblicità a chi rastrella case sul mercato immobiliare, che vive un brusco stop delle compravendite in quello che era diventato il paese dei balocchi. Il Movimento Cinque Stelle proponeva (sensatamente) di fermare le aste giudiziarie perché oggi, ad essere interessati agli acquisti, sono solo gli speculatori.

A Milano in centro non c’è nessuno o quasi per strada.
Il problema sono le periferie, gli anfratti. Viale Monza è deserto, ma basta infilarsi nelle stradine laterali e lo scenario cambia. Lungo la Martesana tra runners, passeggiate col cane, quattro passi con l’amica, il bimbo che deve uscire e i venti gradi primaverili oggi sembrava domenica pomeriggio. Pare che anche sul Monte Stella ci fosse il pienone.

Ci si è messa anche ATM, che ha improvvidamente ridotto le corse: risultato, sui primi treni del mattino, quelli dei pendolari, un affollamento da ora di punta.

Sta entrando in gioco il nemico più pericoloso. La frustrazione. Per ora Milano tiene, ma siamo all’inizio. È probabile che il tre aprile le misure siano prorogate. Oggi in città i casi sono 1.091, 127 in più di ieri. Il problema è che nelle statistiche finiscono solo i positivi sintomatici. Ma in casa c’è molta gente che il virus ce l’ha e non è conteggiata.

Nelle piazze si raccolgono tante persone, passatemi il termine, scazzate. Sole. Senza prospettive. La città sta diventando una grande galera. E la cosa peggiore che può capitare in carcere è una rivolta dei detenuti.

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Milano, cronache dal fronte / 5

C’è una mamma incinta al quinto mese ricoverata con sospetto Covid, e un marito che fa avanti e indietro dall’ospedale con un figlio di tre anni a casa. Gli servono delle mascherine per tutelarsi, finalmente le trova. Questo qui sotto è lo scontrino. Duecentoquaranta euro.

La foto mi è arrivata da un’amica che lavora nel settore sanitario, e conosce di persona l’acquirente. Siamo in centro a Milano, l’indirizzo l’ho cancellato perché non ho (volutamente) verificato di persona con la farmacia. Non ho tempo e voglia di farlo. Ci penseranno le autorità, a cui il caso è stato segnalato. Ma pare che si tratti di normali mascherine Ffp3 che di solito costano meno di 10 euro, e che siano proprio 4 pezzi (non quattro scatole).

Sembra che a Milano ci sia ancora chi specula sulla tragedia. Denunciate sempre (ripeto: sempre) certi comportamenti, qui e altrove. Non si può vendere a questi prezzi.

Oggi il Corriere ha scritto dell’allarme lanciato dai medici di base. I contagi sarebbero molti di più di quelli ufficiali. È così. I tamponi ormai vengono fatti solo a chi è sintomatico grave, quindi, sostanzialmente, a chi deve essere ricoverato in ospedale. Fino a che i sintomi non si aggravano, la linea è quella di provare con l’isolamento domiciliare. Non si puo fare diversamente, perché mancano i letti.

In Lombardia risultano 14.649 positivi: in realtà sono (almeno) cinque volte questa cifra. Chiunque può essere infetto. Quindi restate a casa, perché sarà ancora molto lunga. E fare attenzione quanto uscite: anche il carrello del supermercato può veicolare il contagio. Il gel per le mani si trova in molte farmacie, compratelo e fatene uso abbondante. Costa tra di cinque e i sette euro.

Chiudo con una informazione. Sul sito della Croce Rossa è possibile offrirsi come volontari temporanei (in tutta Italia). Se volete info, questo è il link

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…perché Milano non è la Cina


Perché a Wuhan hanno “chiuso” la città da subito e qui in Italia no? Risposta semplice, per chi non ha tempo: perché l’Italia non è la Cina, e gli italiani non sono cinesi. Neanche quelli di Milano, come insegnano Beppe Sala e i suoi #milanononsiferma. Non ci crede il sindaco, figuriamoci i cittadini.

I metodi autoritari di Pechino funzionano bene quando si tratta di mobilitare enormi quantità di persone e risorse in poco tempo. Coordinamento impeccabile, disciplina serrata, sanzioni dure. Ma dubito che molti di voi scambierebbero le libertà di una democrazia occidentale con quelle concesse nel paese che fu di Mao.

E poi ci siamo noi. Indisciplinati. Vigliacchi. Meschini. Un grande popolo…quando proprio non possiamo fare a meno di esserlo, cioè in piena emergenza.

Vengo al punto. Un governo che impone misure senza essere in grado di farle rispettare perde credibilità. Se ci riprova, è destinato ad essere deriso, e non è un lusso che, in questo momento, ci si può permettere.

Conte lo sapeva, e (mia opinione) ha scelto un atteggiamento graduale per evitare di perdere il controllo della situazione. Prima la Lombardia, il giorno dopo tutta Italia. Alle prime, seguiranno altre misure, più restrittive, e partiranno i controlli.

In Cina il sacrificio sarebbe stato imposto: ma, dicevamo prima, è un altro popolo.

Il governo ha fatto quello che ha potuto. Se non vi piace prendetevela con voi stessi. L’uomo forte, l’uomo solo al comando, avrebbe creato un disastro. Meglio mordere il freno, e portare a casa il risultato.

Ps. Milano ha risposto bene alle nuove norme (video). Per le strade pochissime persone, metropolitana deserta, tram vuoti. Mi dicono sia così anche a Cosenza. Buon segno, se dura. A Nord come a Sud. Sarà lunga, ma proviamoci.

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Assieme al virus, ci toccano i soloni da social

Scrivo da Milano, pochi minuti dopo essere stato in Duomo. Poca gente, pochi turisti, ma non il deserto. C’è persino una musicista che suona, e il Bob Dylan di “the asnwer, my friend, is blowin’ in the wind” ci starebbe proprio bene, sotto al cielo grigio di oggi. Detta onestamente, mi sembra che in città la paura stia lentamente cedendo il passo alla consapevolezza che questo virus c’è, e ce lo dobbiamo “sciroppare” fino alla fine. Punto. Fortunatamente, pare, non è grave nella maggior parte delle situazioni.

Ristoranti e bar chiusi, palestre, cinema e musei anche, la Scala!, alcuni per ordinanza, altri per scelta. E’ vero: al capoluogo lombardo e a Lodi è toccato il poco gradevole compito di rallentare la diffusione del contagio, in maniera che non si propagasse troppo velocemente perché il sistema sanitario potesse reggerlo. Il nostro sistema sanitario, e quello di molte altre regioni in cui il virus può fare danni seri, dato che si trovano in emergenza perenne anche in tempi normali. Un compito che stiamo assolvendo bene, con qualche sacrificio, certo; ma forse, soprattutto, una lezione che ci ricorda come, tutto sommato, restiamo umani. E, anche nel 2020, basta un’influenza a mettere fuori gioco i nostri algoritmi.

Poi ci sono i soloni. Quelli che irridono chi ha paura (ma probabilmente non hanno genitori anziani o amici immunodepressi). O i cretini che dileggiano chi ha svuotato i supermarket, trattandoli da cafoni. Li tranquillizziamo: la situazione tornerà presto alla normalità. Ma molti di quelli che hanno fatto la spesa monstre temevano la quarantena, che è ancora (ripeto: ancora) la misura di elezione se si è entrati in contatto con persone infette e si sviluppano sintomi da contagio. Viene da pensare che, a differenza di questi idioti, intendessero rispettarla, se ammalati.

E ancora, quelli che sciorinano statistiche, per cui ne muoiono di più per l’influenza, l’alcol, gli incidenti che per il virus.

Anziani, malati di cancro, pazienti con patologie croniche. Il timore, i timori, sono per loro. Ma a certi eterni Peter Pan basta poco per divertirsi. Quindi rassegniamoci: assieme al virus, siamo costretti a “sciropparci” anche loro.

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Mascherine coronavirus, occhio al prezzo. Anche in farmacia

Rastrellano mascherine e amuchina, nel migliore dei casi per amici e conoscenti. Nel peggiore, per rivenderle a prezzi esorbitanti sul web. La paura del coronavirus non ha scoraggiato gli sciacalli. Anzi, li ha stanati, come sempre accade in casi del genere.

Ma se la Rete è un far west, c’è anche chi, in barba a ogni deontologia, propone gli articoli del momento a prezzi incredibilmente alti nelle farmacie.

Fino a qualche giorno fa, i disinfettanti campeggiavano in bella vista tra le corsie dei supermercati. Pochi acquisti, la paura sembrava lontana.  Nella notte tra giovedì e venerdì cambia tutto. I primi casi in Italia, le prime vittime, soprattutto, hanno dato il via alla corsa al negozio. Nel giro di poche ore diventa impossibile trovare un flacone di disinfettante in tutta Milano, Lodi e provincia.

Le bottigliette sparite dagli scaffali riappaiono sul web, su siti di tutti i tipi, non esclusi eBay e Amazon. Quattro flaconi a 109 euro, quando di solito si pagherebbe attorno ai 20, tre a 150. Prezzi folli, che però qualcuno, in preda al panico, è disposto a pagare. La Procura di Milano ha aperto un’indagine.

Discorso analogo per le mascherine. Il passaparola (fondato) spiega che ne esiste una tipologia che offre un minimo di protezione: quelle con la sigla Ffp3, modello da lavoro che si utilizza in ambienti contaminati da polveri sottili. Non per niente sono vendute in ferramenta e colorifici. Meno utili le Ffp2.

I prezzi per una scatola da dieci variano tra i 40 ai 70 euro in ferramenta (4 o 7 euro l’una). Sabato era praticamente impossibile trovarle a Milano, dal centro alla periferia. Abbiamo percorso la città in lungo e in largo senza esito.

Il giorno dopo sono riapparse online. Dove, vendute singolarmente con la dicitura “ultimo esemplare”, erano (o meglio, sono) distribuite anche a 49 euro al pezzo, più 19 euro di spese di spedizione, persino da utenti con tanti feedback, e quindi ritenuti affidabili.

Nella nostra breve inchiesta abbiamo scoperto un altro fenomeno. Qualcuno racconta di come ai primi di gennaio ne abbia fatto incetta per spedirle in Cina. “Sì, ne ho prese circa 300 da spedire a Shanghai a mio fratello, dove sono introvabili” racconta una signora che incrociamo in una delle tante utensilerie milanesi prese d’assalto , alla ricerca (vana) di qualche altro pezzo per sé ora che il virus è arrivato in Italia.

Qualche commerciante spiega proprio con l’invio in Asia la scarsità di questi giorni. Così funziona il mercato, del resto.

Discorso diverso quando a cambiare i prezzi – al rialzo – sono le farmacie, dove chi serve dietro il bancone deve per legge essere iscritto a un ordine professionale, ed è vincolato a precisi obblighi deontologici. Come quella a Milano, città in preda all’ansia da giorni. Zona Wagner, uno dei salotti della città: sabato pomeriggio, prodotto già esaurito. Chiediamo quando arriveranno. “Lunedì”, la risposta. Il costo? La dottoressa, spilla ben appuntata sul camice bianco, abbassa lo sguardo per un attimo. “Quattordici euro”.

Qualcuno, sottovoce, dà la colpa ai grossisti per il rincaro. La  nostra verifica parrebbe dare esito differente.

Contattiamo un imprenditore che lavora nel settore. “Non mi risultano aumenti da parte loro”.  Proseguiamo il giro di chiamate. “Non posso certo confermare i rincari – spiega una farmacista brianzola che preferisce non essere citata – . Dal mio punto di vista, e per quello che ne so lavorando quotidianamente con grossisti e aziende, si tratta semplicemente di speculazione. Nessuno di questi soggetti aumenterebbe mai i prezzi delle mascherine in un momento come questo: troppo grande il danno di immagine, e poi ci sono i controlli. Ad aumentare sono i singoli esercenti”.

Idem dicasi per il gel disinfettante. “Abbiamo venduto 400 pezzi da venerdì a oggi, un record. Finite le scorte, abbiamo ordinato le materie prime per cominciare a prepararlo noi, in negozio, cosa che di solito non facciamo, dopo aver visto l’escalation dei prezzi. Per una farmacia dotata di laboratorio è piuttosto semplice” assicura.  Sicura che i prezzi non siano cambiati? “Si, le mascherine con filtro Ffp2 costano 6 euro al pezzo, le altre qualcosa in più. Non sono più disponibili, ma credo che dalla prossima consegna le venderemo a prezzo ridotto”. Addirittura? “A dirla tutta, oltre, alla deontologia, anche da un punto di vista commerciale  non modificare i prezzi è la cosa più intelligente. Si guasterebbe il rapporto di fiducia con i nostri clienti”.

Discorso che, probabilmente, non vale per le zone di passaggio, dove non c’è fidelizzazione.  Stazioni, piazze di grandi città, luoghi di transito dove le persone temono di poter essere contagiate, ma anche centri commerciali. In caso di dubbio, la nevrosi spinge ad apire il portafogli senza fiatare contando sulla serietà di chi c’è dietro il bancone.  Non sempre la fiducia è ben riposta.

Le notizie deprimenti si rincorrono. E non sono, purtroppo, solo quelle relative al contagio. Non bastassero la paura e il dolore per le vittime, gli sciacialli del coronavirus hanno cominciato a citofonare agli anziani, presentandosi a nome delle Asl per effettuare test diagnostici. Tutto finto,  avvertono le autorità: i sanitari arrivano solo se chiamati. Bisognerebbe rivolgersi al 112, se le linee del numero unico – utilizzato per segnalare i casi di sospetto contagio – non fossero già intasate.

I malviventi, bontà loro, sono arrivati persino in ospedale. Pare che in un nosocomio del comasco siano sparite intere confezioni di mascherine. Un fenomeno, quello dei furti, non nuovo, raccontano i medici. Coinvolgerebbe anche attrezzature ben più costose, come le testine degli ecografi, valore svariate migliaia di euro. Destinazione? Questa volta preziosi device non riapparirebbero sul web. E dove, allora? Sorpresa: nelle stanze di insospettabili studi privati.

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Da Harvard a Palermo, storia degli occhiali che aiutano chi soffre di ictus e dislessia

Questo articolo è stato pubblicato su StartupItalia.

Fare ricerca, fare impresa, farlo al Sud. La storia di Massimilano Oliveri, neuroscienziato specializzato ad Harvard, comincia nella città natale, Palermo. Oliveri ha sviluppato un protocollo riabilitativo in grado di potenziare la plasticità cerebrale del paziente con metodi non invasivi e innovativi. “L’idea nasce dalla ricerca scientifica nell’ambito delle neuroscienze – racconta a StartupItalia – Se indossiamo degli occhiali con lenti prismatiche, cioè lenti che deviano il campo visivo verso destra o verso sinistra, gli oggetti non vengono percepiti nella reale posizione, ma spostati. Noi abbiamo scoperto che questo errore viene rilevato dal cervello, che poi mette in atto dei meccanismi di compensazione: dopo poche prove il soggetto si adatta e non commette più l’errore”.

“Questo processo – continua il medico, che è professore ordinario all’Università di Palermo – porta ad attivare delle specifiche aree cerebrali e a potenziarne la plasticità. Abbiamo, quindi, provato a verificare se ciò  si traduceva in un beneficio per i pazienti con patologie neurologiche, o condizioni meno gravi come le dislessie: se si aveva, cioè, un beneficio cognitivo. E abbiamo riscontrato, ad esempio, miglioramenti dei disturbi spaziali e del linguaggio nei pazienti con ictus, mentre i bambini con dislessia e difficoltà di lettura potevano diventare più veloci a leggere. Ma migliorava anche chi soffre di deficit di attenzione”.

Il risultato si ottiene ruotando le lenti in modo tale da andare a potenziare l’attivazione delle aree del cervello coinvolte nel disturbo. “Gli occhiali restano gli stessi, modifichiamo solo l’inclinazione delle lenti; con il nostro programmatore abbiamo, inoltre, costruito un software di esercizi – quelli che chiamiamo serious games –  da svolgere mentre si indossa il device per ottenere il beneficio clinico”.

 

 

Rivolto a un pubblico professionale

Il prodotto si chiama MindLenses ed è rivolto a un pubblico professionale di psicologi, psichiatri, logopedisti, neurologi ma anche a strutture come ospedali e cliniche. Il trattamento prevede 10 sessioni da 30-40 minuti ciascuna da svolgersi in due settimane sotto la guida di un operatore. Sia la scelta degli esercizi che quella delle lenti avvengono sulla base della tipologia di danno che il cervello ha subito: sarà il medico o lo psicologo a prescrivere.

Restorative Neurotechnologies è nata a dicembre 2018 dopo una lunga fase di ricerca scientifica. E’ una costola di Neuroteam, società spin off dell’Università di Palermo, che ha ricevuto 110 mila euro da SocialFare Seed ed è stata selezionata per un percorso di accelerazione. Cominciato a settembre, il percorso è terminato il 24 gennaio con la presentazione della società agli investitori. I prossimi passi prevedono l’ottenimento la certificazione ministeriale di dispositivo medico di classe 1 e l’ingresso sul mercato. A giugno partirà un nuovo studio clinico su pazienti colpiti da ictus; saranno coinvolti diversi ospedali italiani, e l’obiettivo è ottenere dati spendibili per accedere al mercato estero e cominciare un iter che potrebbe portare alla mutuabilità del trattamento.

La società, si diceva, ha sede a Palermo, con un ufficio operativo a Torino, città di adozione. Che effetto fa fare impresa al Sud, Oliveri? “Le startup hanno rivoluzionato il concetto di impresa, che ormai non è legato al classico capannone, ma sempre più spesso alla conoscenza. Non è solo possibile, ma ormai anche frequente creare un’azienda innovativa qui. Ma se il terreno per la ricerca, la costruzione e l’implementazione si trova anche al Sud, per gli investimenti bisogna essere disposti a cercare in giro per l’Europa”.

 

Sicilia: un’isola in fermento

La Sicilia, prosegue Oliveri, è terra vivace anche dal punto di vista dell’innovazione. “C’è fermento in diversi settori. Chiaramente molte aziende gravitano attorno all’agroalimentare, ma negli ultimi tempi si sta diffondendo anche il biomedicale. Ha cominciato la zona orientale, dove più forte è la tradizione imprenditoriale, ma negli ultimi anni anche la Sicilia occidentale ha ottenuto un track record di tutto rispetto grazie all’incubatore dell’Università di Palermo”.

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Ha contato specializzarsi all’estero per avviarsi sulla strada del trasferimento tecnologico? “L’esperienza statunitense ha influito, certo.  Il trasferimento tecnologico comincia ad essere diffuso anche in Italia, ma siamo lontani da certi livelli. I ricercatori che cercano di entrare sul mercato sono visti – non dico con diffidenza – ma come soggetti un po’strani, quasi facciano un altro lavoro. In realtà si resta studiosi anche quando si fa impresa, perché per sviluppare certi prodotti bisogna continuare a rimanere sul campo. Oltre, naturalmente, a trovare collaboratori in grado di fare business”.

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“Stai bene”. Dimessa a Londra, la operano d’urgenza in Italia. NHS sotto accusa

Questo articolo è stato pubblicato sul magazine Londra, Italia.

Una lettera a Repubblica apre uno squarcio inedito – almeno per chi vive in Italia –  sulla sanità londinese. A scrivere al quotidiano romano è Laura Biondi, di Pisa. La figlia, che per ragioni di privacy chiameremo M., si trovava a Londra nei giorni scorsi per frequentare un corso di lingue. Il 17 luglio la ragazza accusa mal di testa, dolori al collo e vomito. Si reca al pronto soccorso, chiede di essere visitata. I medici la mandano a casa senza effettuare esami.

Due giorni dopo, il 19 luglio, la studentessa raggiunge di nuovo in ospedale su consiglio della famiglia. La diagnosi è banale: dolori cervicali e disidratazione. Vengono prescritti degli antidolorifici. Il 20 la situazione non migliora; i genitori decidono di raggiungerla col primo aereo.  “Una pena infinita vederla a letto dolorante, fotofobica, cercava solo il contatto con le nostre mani” racconta Biondi.

“Ha avuto, tecnicamente, un’assenza – prosegue la signora – Corsa in ambulanza, esami e diagnosi riconfermata per la terza volta. ‘Sei sana come un pesce’. Ci hanno negato come non necessaria una flebo per idratarla”.

Inevitabile, a quel punto, il rientro in Italia. “A fatica l’abbiamo trasferita in hotel, nutrita, consci di doverla portare via ma all’oscuro dell’elevatissimo rischio: solo la diagnosi pisana, immediata al rientro, ha rivelato emorragia cerebrale per lesione di malformazione arterovenosa congenita”. Ennesima corsa in ospedale, TAC, diagnosi immediata. Ma questa volta, le porte della sala operatoria si aprono subito. L’intervento viene eseguito nel reparto di Neurochirurgia del nosocomio di Cisanello. Sullo sfondo i dubbi sulla gestione dell’emergenza da parte dei medici londinesi.

BUROCRAZIA, TEMPI STRETTI E TAGLIO AI COSTI – “Perché l’ospedale londinese non ha suggerito ulteriori esami per lei che trascinava le gambe a stento? – si domanda la madre – Perché non ha pensato necessarie per lei altre verifiche, diritto umano e dovere primo nella deontologia medica? Forse perché si entrava in una fascia di controlli a pagamento (nessuno ce lo ha detto)? Perché comunque non ha voluto effettuare una TAC di approfondimento, come è stato subito predisposto dai medici pisani che hanno mostrato la risolutezza necessaria per interpretare la situazione di chi gli si affida?”.

L’accaduto getta luce sulla quotidianità del sistema sanitario britannico (NHS), dove vertici di assoluta eccellenza si sposano a storie di superficialità.  Un sistema in crisi, piegato dalla mancanza di fondi e dalle strategie impiegate per gestire il buco nei conti. Soluzioni spesso sbrigative, che a Londra, metropoli da 8,5 milioni di abitanti dove convivono più di 100 nazionalità, mostrano limiti.

L’efficienza è misurata coi tempi di attesa. L’approssimazione dovuta a volumi elevati, l’attenzione ai target imposti dal governo più che al quadro clinico del paziente ed un sistema altamente congestionato dalla burocrazia dedita al risparmio del centesimo rendono purtroppo questo scenario più la norma che l’eccezione” racconta a Londra, Italia un operatore del settore, che preferisce mantenere l’anonimato.  “Purtroppo non è un caso isolato”.

La babele di lingue e nazionalità e la scarsità di professionisti locali non semplificano il quadro. Spesso i medici stranieri – moltissimi e provenienti da tutto il mondo –  sono mandati in prima linea privi delle necessarie competenze linguistiche. Un esame di inglese è stato introdotto solo nel 2014. Può capitare che un camice coreano visiti un paziente spagnolo assistito da un’infermiera polacca: intervenire, soprattutto in un contesto di emergenza, diventa estremamente difficile, e il rischio di sbagliare diagnosi è concreto. Una situazione che ha dato nuova linfa al settore privato, incoraggiando, soprattutto a Londra, la nascita di studi  specializzati nel fornire servizi medici in lingua (tra questi non mancano quelli italiani): poter usufruire di una prestazione nel proprio idioma nativo permette di spiegare meglio i sintomi,  ma anche di avere una sorta di “ponte” con logiche di gestione del paziente spesso profondamente diverse da quelle nostrane.

La cronica mancanza di dottori locali è in parte dovuta ai costi di formazione e agli stipendi migliori che altri paesi – ad esempio l’Australia e gli USA – sono in grado di garantire ai laureati britannici. La mobilità intereuropea ha reso conveniente assumere stranieri, ma il risultato del referendum, e il nuovo “hostile environment” introdotto da Theresa May hanno cambiato il clima, frenando gli arrivi. A risentirne sono soprattutto i giovani medici dell’NHS, arrivati a scioperare per porre l’attenzione sui turni massacranti a cui sono sottoposti.

RICORSO AL PRIVATO – Nel Regno Unito la sanità è pubblica; ma vedere un medico di base (GP) nella capitale non è sempre facile. L’attesa può durare settimane; per chi ha urgenza esistono, naturalmente, soluzioni, anche in questo caso a pagamento, che promettono prestazioni in giornata e si confrontano sul web a colpi di SEO e campagne pay-per-click. Le tariffe sono esorbitanti. Una “under the weather consultation” di massimo 15 minuti può costare 100 pounds. Una “full consultation” di mezz’ora ne costa 120, mentre per una “unlimited consultation” senza guardare le lancette la tariffa sale a 150 sterline. Dettaglio: le prime due opzioni devono essere prenotate, ed è necessario presentarsi in ambulatorio cartella clinica alla mano. Per essere visitati raccontando a voce la propria storia bisogna usufruire dell’ultima, la più cara.

Le cliniche private stanno registrando un incremento del numero dei pazienti solventi, che nel 2017  si aggiravano tra il 15% e il 25% del totale (fonte Intuition Communications, società specializzata nella diffusione di notizie in ambito sanitario). I tempi di attesa spesso superano le 18 settimane previste dal sistema sanitario nazionale come limite per avere accesso a una prestazione, e l’ossessione dei manager di rientrare nelle statistiche spesso conduce a dimissioni frettolose. La situazione è diventata così drammatica per alcune fasce sociali che, nei mesi scorsi, quattro società specializzate in gioco d’azzardo  hanno fatto circolare una fake news secondo cui un marito disperato avrebbe potuto pagare le terapie solo grazie a una vincita al tavolo verde. L’authority è intervenuta, ma il marketing ha cercato di sfruttare cinicamente quello che, con tutta evidenza, è un tema sentito.

QUESTIONE POLITICA – Come accade anche a latitudini più mediterranee, i costi dell’NHS sono diventati terreno di scontro per la politica. I sostenitori della Brexit promettevano condizioni migliori dopo l’uscita; a due anni dal referendum, la situazione non è cambiata.

Quel che è certo è che la sanità britannica sta affrontando sfide ormai comuni a tutti i governi dei principali paesi europei. Londra e il suo cosmopolitismo pongono problemi che cominciano ad avvertirsi anche nelle città italiane. I fallimenti, e le soluzioni, che arrivano dal Regno Unito possono diventare spunto per una riflessione strutturale sulla sostenibilità del welfare che cerchi di contemperare esigenze di bilancio e tutela delle fasce svantaggiate della popolazione. Un’idea che in Europa, a differenza di quanto accade altrove, non suona blasfema.

Antonio Piemontese
@apiemontese

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cultura, salute

Padiglione cancro, di Aleksander Solgenitzin

Aleksander Solgenitzin vinse il premio Nobel negli anni ’70, ma non, come molti credono, per “Arcipelago gulag”, la sua opera più famosa. Gli accademici di Svezia lo incoronarono per un’opera poco conosciuta,  il romanzo “Padiglione Cancro”.

Ne avevo sentito parlare e mi incuriosiva, così quando l’ho trovato sullo scaffale di un negozio di libri usati l’ho comprato subito. Di Solgenitzin non avevo mai letto nulla.

Mi aspettavo un autore pesante e un libro noioso, insomma ero rassegnato e pronto ad abbandonarlo.  Mi sbagliavo. Ho scoperto che il nostro è un grandissimo scrittore, capace di rendere con tratti rapidi ed efficaci uno spaccato della quotidianità in un ospedale sovietico, senza rinunciare, in più di una circostanza, a toni persino umoristici.

Siamo nell’Uzbekistan degli anni Cinquanta.  Nelle corsie del padiglione 13, quello riservato ai malati oncologici,  si intrecciano le storie dei protagonisti: paure, ansie, infatuazioni, piccole e grandi meschinità. Medici e pazienti vengono descritti con una profondità di sguardo e una conoscenza dell’animo umano che a tratti meraviglia.

L’autore, che negli anni Cinquanta aveva ricevuto una diagnosi di cancro ed era stato ricoverato proprio come i personaggi del libro, riversa nelle pagine parte della propria esperienza; del resto, la terminologia ricca di dettagli lascia pochi dubbi sulla sua padronanza della materia.

Ma Padiglione cancro è almeno altre due cose. In primis uno spaccato su una malattia, e relative terapie, per come era percepita quando ancora lasciava poche speranze. Allora si moriva molto più di oggi; ma è interessante vedere come gran parte delle tecniche di cura fossero già impiegate (chirurgia, radioterapia, chemio, ormonoterapia; per chi fosse interessato al tema, consiglio anche “L’imperatore del male – una biografia del cancro” di Siddharta Mukherjee).

L’altro profilo per cui si tratta di un romanzo da scoprire (o da rileggere) è che la vita di corsia e l’intrecciarsi dei destini offrono uno visione estremamente realistica e particolare della società sovietica. Lontano dall’inferno dei gulag, Solgenitzin racconta la quotidianità di un paese dove per fare la spesa serve la tessera e per spostarsi da una città all’altra bisogna chiedere il permesso alla polizia. Il comunismo ne esce per quello che fu, un gigantesco esperimento sociale capace, in nome dell’ideologia, di sacrificare milioni di esistenze; ma, al di là della valutazione storica, mi sembra che questo lungo romanzo possa essere considerato come l’antesignano di tutto il filone di “medical tv” che, da ER in poi, ha spopolato in Occidente. Scritto trent’anni prima. Insomma, leggetelo.

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Informatori o venditori? Viaggio nel lato oscuro del marketing farmaceutico
inchieste, salute

Informatori o venditori? Il lato oscuro del marketing farmaceutico

“Proibiamo rigorosamente tangenti, bustarelle, pagamenti illegali e qualsiasi altra offerta di oggetti di valore che possano influenzare o premiare in modo inappropriato un cliente per aver ordinato, acquistato o utilizzato i nostri prodotti e servizi, siano essi forniti direttamente o tramite una terza parte come un distributore, uno spedizioniere doganale o altro agente”. La dichiarazione di intenti è tratta dal Codice di comportamento di Jonhson&Johnson, multinazionale coinvolta nella vicenda che ha condotto all’arresto del primario di Ortopedia del Gaetano Pini di Milano Norberto Confalonieri.

Il noto chirurgo, spesso ospite di trasmissioni televisive, è accusato di aver ricevuto compensi per impiantare i prodotti di due aziende, la stessa Johnson e la B.Braun, in cambio di viaggi per sé e gli accompagnatori, ospitate in televisione e lucrose consulenze. Tutto pagato, secondo l’accusa, dalle aziende. Ma le intercettazioni condotte dai pm di Milano mostrano un Confalonieri spregiudicato, che si vantava al telefono di aver rotto un femore a un’anziana paziente “per allenarsi” e in qualche caso avrebbe cercato di rimediare in regime pubblico ai danni arrecati durante operazioni effettuate in regime privato. Allo studio dei magistrati ci sono 62 cartelle cliniche: la misura cautelare è stata irrogata per corruzione e turbativa d’asta, ma potrebbe configurarsi anche il reato di lesioni. Il primario, dal canto suo, rifiuta in toto le accuse.

Si ripropone il problema dei rapporti tra case farmaceutiche, produttrici di apparecchiature medicali e protesi e i medici che questi prodotti sono chiamati a impiegare o prescrivere. Il tema sale periodicamente alla ribalta in corrispondenza delle inchieste della magistratura o dell’intervento delle authority. Una questione complicata, perché a cavallo tra la ragion d’essere di ogni azienda – l’utile – e le implicazioni etiche derivanti dal particolare settore affrontato: quello della salute.

Ricostruiamo il rapporto tra queste entità così diverse.

L’attività professionale, condotta in studio o in ospedale non sempre consente di aggiornarsi costantemente sul complicato mondo delle molecole o delle protesi. Certo, esistono le riviste di settore, anche online: ma gli informatori scientifici (spesso laureati) conoscono meglio di chiunque le interazioni dei propri farmaci, gli studi effettuati e le nuove indicazioni terapeutiche. Riceverli è un modo per sopperire alla necessaria attività di aggiornamento. Ed è questo anche il fine che assegna loro il legislatore, diffondere l’aggiornamento sui farmaci o i presidi chirurgici. Ai medici il compito di valutare, facendo uso della propria competenza, e conformandosi ai principi della miglior cura per il paziente, le affermazioni.

Il legislatore interviene per la prima volta sulle “chiacchierate” tra informatori e medici nel 1934 con il Testo Unico delle leggi sanitarie, in cui si fa esplicito riferimento al “comparaggio” tra prodotti di aziende concorrenti e si vieta il commercio, sotto qualsiasi forma, dei campioni gratuiti dei medicinali. Nel 1972, quarant’anni dopo, un secondo intervento legislativo richiede, per l’assunzione della posizione di informatore scientifico, la laurea in discipline biomediche o chimico-farmaceutiche; i campioni omaggio possono ora essere consegnati solo su richiesta, e presso il Ministero si istituisce un elenco dei professionisti dell’informazione scientifica con l’indicazione del loro titolo. Non solo: il numero di informatori che è possibile impiegare in azienda dipende da popolazione medica, dal volume di produzione e della ricerca della compagnia e deve in ogni caso essere contenuto entro le 160 unità. Ma, come spesso accade, a Roma si fanno le leggi; per i controlli, rivolgersi altrove. Il testo nella prassi viene costantemente disapplicato.

Nel 1978 viene istituito il Servizio Sanitario Nazionale, che si assume l’onere dell’informazione scientifica sui farmaci in concorso con le aziende. A Roma restano poteri di vigilanza sull’attività aziendale. Il decreto 23 giugno 1981 entra nello specifico. Il testo fa esplicito riferimento a un “contenimento dei consumi” di medicinali tra gli obiettivi. Lo Stato si avvale dell’informazione scientifica aziendale come strumento per raggiungere anche quei medici che, di loro spontanea volontà, sarebbero troppo pigri per aggiornarsi. In realtà, come fa notare Inforquadri, la Federazione nazionale dei Quadri di Informazione Scientifica e ricerca, le case farmaceutiche (e più in generale quelle che gravitano nel mercato della salute) interpretano l’informazione scientifica esattamente al contrario: essenzialmente, uno strumento per aumentare le vendite. Del resto, queste figure hanno un costo: e poco importa che, sul finire degli anni Ottanta, il costo degli IFS sia scaricato sul prezzo finale delle medicine (sostenuto, quindi, dal Sistema Sanitario Nazionale).

Nel 1992 interviene la comunità europea: la direttiva 92/28 della CEE delinea la figura dell’informatore scientifico, ponendolo come figura degerarchizzata alle dipendenze del Responsabile scientifico dell’azienda. Anche questa volta i controlli scarseggiano: in molte compagnie queste figure dipendono invece, esplicitamente o de facto, dall’ufficio marketing o vendite.

Dalla ricostruzione normativa emerge il fatto che, se l’idea è buona, l’applicazione diventa problematica. Del resto, un tempo non esisteva internet, e l’aggiornamento poteva essere molto lento. Anche oggi i professionisti (non solo i medici) sono spesso pigri dopo gli anni dell’Università, e spedire personale competente direttamente in studio appariva una soluzione pragmatica. In un certo senso, si è ceduto in appalto al privato una parte dell’onere ingombrante e difficile da gestire della formazione continua. In questo varco le aziende si sono infilate, dilatandone progressivamente le maglie. Gli informatori sono stati caricati di pressioni difficili da gestire e dotati di budget sempre più consistenti da spendere nell’esercizio dell’attività. I maghi delle note spese e gli artisti della consulenza hanno gioco facile, soprattutto quando si tratta di evitare guai e raggiungere gli obiettivi: c’è sempre qualcuno disposto a non fare troppe domande in cambio di vantaggi personali. Del resto, questo ci si aspetta dagli informatori: coefficienti di vendita (o, per meglio dire, di “penetrazione” del prodotto) in continuo aumento nelle aree di competenza. Numeri che significano quattrini.

Il codice di autodisciplina di Farmindustria datato 2014, è un corposo documento di 40 pagine che affronta nel dettaglio tutte le questioni che potrebbero gettare discredito su un’industria spesso al centro di polemiche infuocate come quella dei medicinali.

Il codice affronta tutti gli aspetti che il legislatore non aveva considerato, ma che ormai ricorono frequentemente nella prassi e nelle cronache giudiziarie, che ormai chiama Big Pharma le maggiori realtà di settore, percepite come un cartello. Consente, ad esempio, di offrire solamente omaggi di valore trascurabile (massimo 25 euro) come biro, agende, portapenne, a patto di indicare chiaramente sull’oggetto il nome dell’azienda e la specialità medicinale pubblicizzata. Sono permesse anche le confezioni di prova di medicinali, nel limite complessivo di 8 per ogni dosaggio, e comunque da distribuire non oltre i 18 mesi dalla data di prima commercializzazione.

Scorrendo le pagine, un capitolo ad hoc è dedicato ai congressi. È esplicitamente vietata – e questo la dice lunga – l’organizzazione di incontri di aggiornamento in località di richiamo. Recita testualmente l’articolo 3: “Sono tassativamente escluse località a carattere turistico nel periodo 1° giugno – 30 settembre per le località di mare e 1° dicembre – 31 marzo e 1° luglio – 31 agosto per le località di montagna“. Fanno eccezione le città, come Barcellona, sede di importanti istituzioni di rilievo scientifico, purché la sistemazione in albergo (non più di quattro stelle) offerta ai partecipanti non preveda accesso al mare. Anche gli spostamenti, se pagati dalle compagnie, devono avvenire in classe economica – tranne per i relatori dei convegni – mentre i pasti devono restare sotto la cifra di 60 euro. Insomma, niente vacanze organizzate in cambio di prescrizioni facili, almeno in linea di principio.

Nel caso di Milano, gli atti dell’inchiesta parlano diversamente. Partecipazione a congressi con volo scelto direttamente da Confalonieri, accusano i magistrati, soggiorno in hotel a cinque stelle dotato di piscina e spa a Barcellona e Tokio per lui e un’accompagnatrice: si arriva facilmente a superare i cinquemila euro a persona. E nessuna compagnia investirebbe una cifra simile se il ritorno atteso non fosse molto più alto.

La carta deontologica di Federfarma torna poi sull’attività in studio degli informatori, che per legge hanno diritto di essere ricevuti ogni tre pazienti, e solo se il medico gradisce. Vietato, durante la conversazione, fare ricorso a iperboli e affermazioni universali (“perfetta tollerabilità”, “assolutamente innocuo”, “farmaco di elezione”) per perorare la propria causa. Ottimo impegno. Controllare che questo comportamento venga rispettato è tutt’altro paio di maniche.

Il terzo livello a tutela dei consumatori è quello delle aziende. Tutte sono libere di dotarsi di strumenti propri, integrativi rispetto al documento dell’associazione di categoria. Si sa, serve a fare bella figura.

Spesso le multinazionali, soprattutto americane, rendono disponibili al pubblico questi strumenti, che fanno bella mostra di sé sul sito aziendale. È il caso di Johnson&Johnson: un corposo paper di una quarantina di pagine scaricabile da tutti che affronta le principali questioni etiche che si pongono davanti a chi fa business con la salute. Una guida per i dipendenti, con le modalità di comportamento da seguire in caso di, e un consiglio: far sempre riferimento ai dirigenti o all’ufficio legale. In altre aziende, come B.Braun, sul sito italiano non è possibile rintracciare una vera e propria policy: non si va oltre alle dichiarazioni generiche di rispetto del buonsenso.

Abbiamo contattato sia Johnson&Johnson che B.Braun per capire che cosa pensassero della vicenda di Milano. Entrambe le aziende hanno preferito non rilasciare dichiarazioni. “Stiamo collaborando con i magistrati”, informano i portavoce praticamente all’unisono, mentre parlano di un’indagine interna per accertare le responsabilità. Risposte di prammatica.

Se le accuse fossero confermate, il problema, in entrambi i casi, è che qualcosa non ha funzionato nella catena di controllo di cui ogni corporation deve essere dotata. Ma resta da capire a che livello: se, cioè, sia stata la dirigenza a favorire l’utilizzo di determinate pratiche scorrette – e in questo caso si configurerebbe una colpa pesante per la compagnia – oppure l’iniziativa è stata presa spontaneamente da figure di basso profilo – ad esempio gli agenti di vendita – : una pratica, quindi, perpetrata all’insaputa dei superiori, per gonfiare i numeri e fare bella figura durante le presentazioni con i dirigenti. La differenza è sostanziale.

Le aziende farmaceutiche e del comparto sanitario vivono di obiettivi di vendita come qualunque altra realtà, dai concessionari di automobili ai produttori di salumi. Sono, però, coinvolte in un settore molto più delicato, il cui giro d’affari è ampio: il 70% circa dei bilanci delle Regioni è destinato alla sanità che, per come è configurata in Italia, è legata a doppio filo alla politica. Facile che solletichi appetiti poco limpidi. A tutti i livelli.

Del resto, lavorare per un’azienda impegnata nell’healthcare significa, tecnicamente, avere un impiego come un altro. Business is business, e le cosiddette prassi diffuse, a meno di inchieste clamorose, raramente vengono alla luce: sono difficili da provare in assenza di intercettazioni, richieste, però, solo in presenza di sospetti gravi come quella di Milano. Nessuno, come abbiamo visto, troverà mai documenti che giustificano il ricorso a bustarelle o benefit: troppo banale.

Piuttosto, ci si imbatterà in carte deontologiche titolate con intestazioni alla moda come “corporate responsibility. In attesa che i magistrati compiano il proprio lavoro, abbiamo perciò provato a leggere tra le righe. “Noi crediamo che la nostra prima responsabilità sia verso i medici, gli infermieri e i pazienti, verso le madri, i padri e tutte le altre persone che usano i nostri prodotti e i nostri servizi” si legge nella carta di responsabilità di Johnson. I medici prima dei pazienti? Invertendo l’ordine degli addendi, la somma, a volte, cambia.

Antonio Piemontese
@apiemontese

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