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Coworking, fine di un’era?

Il vento era cambiato da tempo, ma la pandemia ha aggravato la crisi di una delle stelle più brillanti della sharing economy. WeWork, gigante statunitense degli spazi condivisi, si trova nell’occhio del ciclone.  Ma questa volta a rischio non ci sono solo i conti. C’è la credibilità di un modello basato sulla condivisione. Una tendenza che coinvolge tante supernovae della sharing economy, gonfiatesi a dismisura e poi messe in ginocchio dal tempo, e ora dalla crisi: da Uber ad Airbnb, da Lyft a Blablacar.

Dopo l’IPO fallita a settembre, con conseguenti dimissioni del ceo Alan Neumann, il problema, adesso,  per WeWork sono i clienti inferociti. Provati dal lockdown che ha azzerato le attività economiche e impedito di frequentare fisicamente gli spazi, sempre più spesso chiedono dilazioni e provano a terminare in anticipo i contratti delle loro scrivanie. Ma di fronte alle richieste di clemenza WeWork si sarebbe dimostrata insensibile. Gli utenti imbufaliti hanno raccolto le proprie storie su un sito dall’evocativo nome Wefeedback. La protesta comprende anche una petizione  e un video.

“È spregiudicato che WeWork ci faccia pagare [le postazioni] al Warner Center” lamenta Jill Letendre, imprenditrice californiana. “Il coworking  è stato aperto il 16 marzo, ma dopo soli tre giorni il governatore ha emanato l’ordinanza che ci imponeva di restare a casa.  La società ci ha chiesto 5mila dollari anche se non abbiamo mai messo piede nell’edificio” accusa la donna.

 

 

WeWork continua a emettere fatture regolarmente, e ha persino minacciato di trascinarci in tribunale e trattenere il deposito se non paghiamo la membership per intero – rincara la dose Rodolfo Vengoechea, dalla Colombia – Ma il nostro staff non può usare l’ufficio perché siamo in quarantena da marzo per decisione del governo”.

Il cortocircuito nasce dal fatto che il colosso statunitense non è proprietario di buona parte degli edifici in cui opera, ma affitta gli spazi e quindi paga a propria volta un canone.  WeWork  si lega ai proprietari degli stabili mediamente per 15 anni  ma li concede agli utenti con contratti brevi e flessibili. Questo ha reso il business poco prevedibile, ma  molto interessante per gli investitori nonostante le perdite: l’azienda era capace, infatti, di ricavare valori molto alti da ogni metro quadro, ben al di sopra delle quotazionei di mercato. Non solo. Le proiezioni erano estremamente ottimistiche: nelle città USA dove la società newyorchese è presente, riporta il Guardian, ogni persona con un lavoro da scrivania era considerato un potenziale membro della community. All’estero le stime erano ancora più larghe.

La risposta di WeWork

Stiamo interagendo individualmente con i singoli membri della nostra community per capire il modo migliore per supportarli in questo periodo” ha commentato a StartupItalia da Londra un portavoce della multinazionale, evitando di scendere nei particolari. Anche perché non sempre si opta per la linea dura. Le politiche variano a seconda degli utenti, delle situazioni, e forse anche dei paesi: se da Stati Uniti e Colombia arrivano molte lamentele, in Perù l’approccio della compagnia sembra meno radicale. “Ci hanno fatto alcune concessioni – racconta Luis Rafael Zegarra Leon – Non emetteranno fattura per il mese di aprile, mentre a maggio pagheremo il 50%”.

Il problema, come nota il Commercial Observer, è di reputazione. “Per anni, il gigante del coworking si è presentato alle piccole imprese non solamente come uno spazio di lavoro fuori casa, ma come il modo per unirsi a una community di società con la stessa mentalità. Adesso, proprio quella community ha cominciato a rivoltarsi contro a WeWork spinta dalla frustrazione per il modo in cui l’azienda ha affrontato la pandemia”.  Il ceo Sandeep Mathrani ha detto in un’intervista a CNBC che il 70% dei clienti ha pagato l’affitto ad aprile, mentre la società avrebbe pagato l’80% dei propri canoni a livello globale.

Le difficoltà si riflettono nella caduta della valutazione della società: stimata in 47 miliardi di dollari a gennaio 2019, nel pieno del boom dei coworking, si era  pesantemente ridimensionata a 7,3 miliardi già nel settembre passato, quando i conti vennero fatti prima dell’IPO.  Nei giorni scorsi Softbank, banca giapponese principale investitore della società fondata da Alan Neumann insieme al governo saudita, ha ridimensionato ulteriormente la cifra portandola a 2,9 miliardi. Un calo del 94% nel giro di meno di 18 mesi.

Non è tutto. L’istituto guidato da Masayoshi Son ha cancellato ad aprile l’offerta di 3 miliardi di dollari per ricomprare azioni della società annunciata nell’ottobre scorso. Le motivazioni addotte dai nipponici riguardano il cambiamento di alcune condizioni, tra cui la spada di Damocle dell’antistrust, una mancata joint venture in Cina, cause legali pendenti e, ovviamente, lo spettro del coronavirus. Argomentazioni che non sono bastate a Neumann: coinvolto nell’accordo, l’ex ceo dai capelli lunghi e lo stile news age ha trascinato Softbank in tribunale nel Delaware, paradiso fiscale americano.

WeWork: cosa aspettarsi dal futuro

Il business dei coworking è finito?In realtà, è ancora presto per darlo per morto. La decisione di molte società hi-tech di non riaprire i propri uffici potrebbe avere un impatto significativo sul sistema. Festina lente, ammonivano i Romani, affrettati lentamente. Il New York Times parla addirittura di una corsa al ritardo, come se far tornare i dipendenti a Menlo Park o Mountain View fosse l’estrema vergogna per aziende iper moderne che vendono servizi cloud o di comunicazione per connettersi a distanza.

Ma c’è dell’altro. I remuneratissimi geni dell’informatica potrebbero non voler tornare indietro, dopo aver scoperto che si può lavorare da casa – o da qualche spiaggia remota -. Se l’azienda non accetta, possono sempre passare dalla concorrenza. Che, per inciso, sarebbe ben felice di accoglierli, in un risiko dagli effetti imprevedibili. Del resto, gli affitti in città come San Francisco hanno raggiunto livelli insostenibili anche per chi percepisce stipendi sopra i 100mila dollari: perché continuare a sprecare denaro?

Per non parlare degli effetti sull’inquinamento dovuti alla riduzione del traffico. Esistono già molti esempi di startup e aziende affermate che lavorano da remoto. Trello, che sviluppa un tool di project management, ne è un esempio. Ma anche aziende giovani scelgono questa formula, come l’italiana Punch Lab.

 

 

Facendo la tara alle opinioni degli estremisti di una o dell’altra fazione, non è detto, insomma, che connettersi da casa sia la soluzione migliore per tutti. Un tema quasi antropologico. Il letto, la tentazione costante rappresentata dal frigorifero, i rumori dei bambini, potrebbero incentivare i giovani professionisti a scegliere, almeno qualche giorno alla settimana, di uscire e lavorare da un caffè. O da un coworking. Del resto, se persino Steve Jobs, che non faceva molto per essere empatico, riconosceva che il confronto vis a vis aiuta la creatività, non è difficile immaginare come la vita d’ufficio, tanto odiata fino a pochi mesi fa, possa in un futuro non troppo lontano addirittura essere rimpianta. Le precauzioni e l’insofferenza domestica possono aiutare a vincere il pregiudizio verso gli spazi condivisi di prossimità.

Non è facile prevedere lo scenario di settore per i prossimi anni. Quello che pare certo è che la bolla si sta sgonfiando e le valutazioni cominciano a essere più realistiche. Appare difficile, almeno a breve, pensare di tornare all’affollamento delle sale tipico del periodo del boom. Una modalità che, peraltro, rispondeva ad esigenze sociali, più che lavorative: concentrarsi in spazi riempiti come pollai era difficile, e la produttività scendeva alla stessa velocità con cui aumentava il mal di testa.

Discorso diverso per le offerte premium, che potrebbero, invece, diventare molto più attraenti, con più spazio a disposizione per utrente e, soprattutto, postazioni riservate in grado di garantire la sicurezza sanitaria. Il networking, vero valore aggiunto, continuerà: ma  la mascherina lo renderà probabilmente meno cool. 

Ad essere penalizzate saranno le società con contratti di locazione onerosi e di lunga durata in corso: la difficoltà a rimodulare i costi fissi  (e, di conseguenza, offerta e modello di business) potrebbe schiacciare ogni tentativo di ripresa. Per uscire dal pantano, i colossi avranno bisogno di manager all’altezza, capaci di individuare le variabili giuste su cui puntare. E, soprattutto, del vero asset strutturale: il supporto della propria community. Alienarsi le simpatie di chi negli spazi ci lavora potrà forse servire a migliorare i conti nel breve periodo e a garantire ossigeno alle stanche casse delle società: ma riduce la narrazione della condivisione a mera finzione. Un peccato per chi ci ha creduto, dal momento che quella della sharing economy è una delle innovazioni più disruptive della storia, capace di scardinare modelli di business e potentati economici che resistevano da secoli. Si tratta, in sostanza, di salvarne il buono.

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Bad Blood: Theranos è tutto ciò che una startup non deve fare

Theranos, ovvero tutto quello che non bisogna fare se decidete di fondare una startup, e qualcuno crede in voi. La storia è quella di Elizabeth Holmes, bionda studentessa di Stanford – vengono tutti da lì, pare – che si ritira al secondo anno per perseguire il sogno di diventare ricca creando una società biomedicale. La chiama Theranos, crasi tra therapy e diagnosis, e l’idea è quella di produrre un apparecchio dalle dimensioni contenute in grado di eseguire oltre 200 test ematici in pochi minuti, prelevando una sola goccia di sangue e direttamente a casa. Tenete a mente il discorso delle dimensioni, perché l’idea ossessiva di miniaturizzare qualcosa che veniva già fatto in maniera affidabile in laboratorio sarà la causa del disastro.

Rimpicciolire i componenti poneva, infatti, problemi ingegneristici che si sono presto rivelati insormontabili. Holmes, aiutata dal compagno di vent’anni più grande, non si scoraggia, e prova in tutti i modi ad andare avanti. Anche perché l’innata capacità persuasiva, i grandi occhi chiari e la voce profonda – provate ad ascoltarla su Youtube, anche se pare fosse una posa – hanno sin da subito incantato decine di investitori. Nella compagine c’era gente scafata come Rupert Murdoch, ma anche l’italiano John Elkann. Non solo. Il consiglio di amministrazione era composto da nomi di peso della politica a livello mondiale.  Qualche esempio? Henry Kissinger sedeva in prima fila, ma c’era anche l’ex segretario di Stato ai tempi di Reagan George Shultz, uno dei principali attori della distensione tra le superpotenze degli anni ’80.

 

 

Holmes aveva creato la scatola perfetta, ma all’interno il contenitore era vuoto.  E quando i soldi hanno cominciato ad arrivare, arrestare la reazione a catena  (“Se ci investe lui, di sicuro funziona, quindi ci investo anch’io”) è diventato difficile come nei più tragici incidenti nucleari. Soprattutto se il propellente era costituito dall’ambizione e dall’avidità di una ragazza con pochi scrupoli.

E’ durata oltre dieci anni la parabola di Theranos, senza mai arrivare al “go to market”. Nel frattempo, meno che trentenne, Holmes è diventata miliardaria in dollari, guadagnandosi le copertine delle principali riviste di business.

Ma oltre le mura dell’ufficio di Palo Alto e le porte a vetri blindate sorvegliate  da gorilla con l’orecchino, aleggiava un senso di terrore. Dipartimenti aziendali che non potevano comunicare tra loro, email controllate, licenziamenti all’ordine del giorno. Chi provava a manifestare dubbi – in fondo si parlava di macchinari biomedicali, e c’era di mezzo la salute delle persone – sulle pratiche aziendali veniva allontanato e minacciato. Un’ossessione per la privacy che sconfinava nella paranoia, e serviva per nascondere il vuoto.

Incurante di tutto, la società stringeva accordi, tra cui quello con una catena della grande distribuzione per eseguire test di prova su pazienti nei punti vendita. Test che, in diverse occasioni, hanno prodotto risultati inattendibili, causando stress notevoli a chi vi si sottoponeva e si scopriva malato pur essendo perfettamente sano.

Tutto ciò non sarebbe, forse, mai venuto alla luce se non fosse stato per l’inchiesta di John Carreyrou, reporter del Wall Street Journal vincitore di due premi Pulitzer. Carreyrou ha condotto un lavoro di indagine meticoloso che ha portato alla pubblicazione di una serie di articoli in grado di sgonfiare rapidamente il fantoccio.

Una bella storia dal punto di vista giornalistico, raccontata perfettamente nel libro che ne è seguito (“Una sola goccia di sangue” ma l’originale inglese “Bad Blood” rende meglio l’idea). Una storia che mostra cosa significhi fare informazione sul serio, ma anche essere un editore. Il già citato Rupert Murdoch era tra gli investitori di Theranos, con una cifra monstre di oltre cento milioni di dollari. Avuta notizia dell’inchiesta, Holmes provò a contattarlo per fermare tutto: ma il tycoon australiano si rifiutò di intervenire, lasciando alla redazione le valutazioni. Perse una caterva di quattrini, ma preservò la credibilità del giornale.

Bad blood è un’inchiesta da manuale che ogni giornalista dovrebbe leggere, ma anche un libro che svela il peggio della Silicon Valley e dell’ecosistema delle startup. Il mito di Steve Jobs, il potere assoluto del marketing, le iniezioni di venture capital da centinaia di milioni di dollari su progetti che non hanno alcuna solida base industriale ma solo una supposta visionarietà. Un sistema sbilanciato in avanti e che sfugge ai controlli riservati alle società quotate in Borsa, perché oggi le startup riescono a finanziarsi privatamente tramite fondi di investimento fino a diventare giganti da un miliardo di dollari e oltre prima di andare sul mercato azionario, ed essere controllate sul serio.

L’epilogo lo lasciamo alla sorpresa del lettore. Pare che ci sia un film in lavorazione per trasportare la pellicola sul grande schermo; ma chiunque sia interessato al mondo delle imprese innovative deve leggere il libro. Il confine tra ambizione ed etica non è mai stato tracciato in maniera definitiva, ma, nella propria inchiesta, Carreyrou fissa una serie di limiti oltre cui non è prudente spingersi. Un monito per chiunque faccia impresa. Soprattutto se avrà la fortuna di avere gli dei del successo dalla propria parte.

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Informatori o venditori? Viaggio nel lato oscuro del marketing farmaceutico
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Informatori o venditori? Il lato oscuro del marketing farmaceutico

“Proibiamo rigorosamente tangenti, bustarelle, pagamenti illegali e qualsiasi altra offerta di oggetti di valore che possano influenzare o premiare in modo inappropriato un cliente per aver ordinato, acquistato o utilizzato i nostri prodotti e servizi, siano essi forniti direttamente o tramite una terza parte come un distributore, uno spedizioniere doganale o altro agente”. La dichiarazione di intenti è tratta dal Codice di comportamento di Jonhson&Johnson, multinazionale coinvolta nella vicenda che ha condotto all’arresto del primario di Ortopedia del Gaetano Pini di Milano Norberto Confalonieri.

Il noto chirurgo, spesso ospite di trasmissioni televisive, è accusato di aver ricevuto compensi per impiantare i prodotti di due aziende, la stessa Johnson e la B.Braun, in cambio di viaggi per sé e gli accompagnatori, ospitate in televisione e lucrose consulenze. Tutto pagato, secondo l’accusa, dalle aziende. Ma le intercettazioni condotte dai pm di Milano mostrano un Confalonieri spregiudicato, che si vantava al telefono di aver rotto un femore a un’anziana paziente “per allenarsi” e in qualche caso avrebbe cercato di rimediare in regime pubblico ai danni arrecati durante operazioni effettuate in regime privato. Allo studio dei magistrati ci sono 62 cartelle cliniche: la misura cautelare è stata irrogata per corruzione e turbativa d’asta, ma potrebbe configurarsi anche il reato di lesioni. Il primario, dal canto suo, rifiuta in toto le accuse.

Si ripropone il problema dei rapporti tra case farmaceutiche, produttrici di apparecchiature medicali e protesi e i medici che questi prodotti sono chiamati a impiegare o prescrivere. Il tema sale periodicamente alla ribalta in corrispondenza delle inchieste della magistratura o dell’intervento delle authority. Una questione complicata, perché a cavallo tra la ragion d’essere di ogni azienda – l’utile – e le implicazioni etiche derivanti dal particolare settore affrontato: quello della salute.

Ricostruiamo il rapporto tra queste entità così diverse.

L’attività professionale, condotta in studio o in ospedale non sempre consente di aggiornarsi costantemente sul complicato mondo delle molecole o delle protesi. Certo, esistono le riviste di settore, anche online: ma gli informatori scientifici (spesso laureati) conoscono meglio di chiunque le interazioni dei propri farmaci, gli studi effettuati e le nuove indicazioni terapeutiche. Riceverli è un modo per sopperire alla necessaria attività di aggiornamento. Ed è questo anche il fine che assegna loro il legislatore, diffondere l’aggiornamento sui farmaci o i presidi chirurgici. Ai medici il compito di valutare, facendo uso della propria competenza, e conformandosi ai principi della miglior cura per il paziente, le affermazioni.

Il legislatore interviene per la prima volta sulle “chiacchierate” tra informatori e medici nel 1934 con il Testo Unico delle leggi sanitarie, in cui si fa esplicito riferimento al “comparaggio” tra prodotti di aziende concorrenti e si vieta il commercio, sotto qualsiasi forma, dei campioni gratuiti dei medicinali. Nel 1972, quarant’anni dopo, un secondo intervento legislativo richiede, per l’assunzione della posizione di informatore scientifico, la laurea in discipline biomediche o chimico-farmaceutiche; i campioni omaggio possono ora essere consegnati solo su richiesta, e presso il Ministero si istituisce un elenco dei professionisti dell’informazione scientifica con l’indicazione del loro titolo. Non solo: il numero di informatori che è possibile impiegare in azienda dipende da popolazione medica, dal volume di produzione e della ricerca della compagnia e deve in ogni caso essere contenuto entro le 160 unità. Ma, come spesso accade, a Roma si fanno le leggi; per i controlli, rivolgersi altrove. Il testo nella prassi viene costantemente disapplicato.

Nel 1978 viene istituito il Servizio Sanitario Nazionale, che si assume l’onere dell’informazione scientifica sui farmaci in concorso con le aziende. A Roma restano poteri di vigilanza sull’attività aziendale. Il decreto 23 giugno 1981 entra nello specifico. Il testo fa esplicito riferimento a un “contenimento dei consumi” di medicinali tra gli obiettivi. Lo Stato si avvale dell’informazione scientifica aziendale come strumento per raggiungere anche quei medici che, di loro spontanea volontà, sarebbero troppo pigri per aggiornarsi. In realtà, come fa notare Inforquadri, la Federazione nazionale dei Quadri di Informazione Scientifica e ricerca, le case farmaceutiche (e più in generale quelle che gravitano nel mercato della salute) interpretano l’informazione scientifica esattamente al contrario: essenzialmente, uno strumento per aumentare le vendite. Del resto, queste figure hanno un costo: e poco importa che, sul finire degli anni Ottanta, il costo degli IFS sia scaricato sul prezzo finale delle medicine (sostenuto, quindi, dal Sistema Sanitario Nazionale).

Nel 1992 interviene la comunità europea: la direttiva 92/28 della CEE delinea la figura dell’informatore scientifico, ponendolo come figura degerarchizzata alle dipendenze del Responsabile scientifico dell’azienda. Anche questa volta i controlli scarseggiano: in molte compagnie queste figure dipendono invece, esplicitamente o de facto, dall’ufficio marketing o vendite.

Dalla ricostruzione normativa emerge il fatto che, se l’idea è buona, l’applicazione diventa problematica. Del resto, un tempo non esisteva internet, e l’aggiornamento poteva essere molto lento. Anche oggi i professionisti (non solo i medici) sono spesso pigri dopo gli anni dell’Università, e spedire personale competente direttamente in studio appariva una soluzione pragmatica. In un certo senso, si è ceduto in appalto al privato una parte dell’onere ingombrante e difficile da gestire della formazione continua. In questo varco le aziende si sono infilate, dilatandone progressivamente le maglie. Gli informatori sono stati caricati di pressioni difficili da gestire e dotati di budget sempre più consistenti da spendere nell’esercizio dell’attività. I maghi delle note spese e gli artisti della consulenza hanno gioco facile, soprattutto quando si tratta di evitare guai e raggiungere gli obiettivi: c’è sempre qualcuno disposto a non fare troppe domande in cambio di vantaggi personali. Del resto, questo ci si aspetta dagli informatori: coefficienti di vendita (o, per meglio dire, di “penetrazione” del prodotto) in continuo aumento nelle aree di competenza. Numeri che significano quattrini.

Il codice di autodisciplina di Farmindustria datato 2014, è un corposo documento di 40 pagine che affronta nel dettaglio tutte le questioni che potrebbero gettare discredito su un’industria spesso al centro di polemiche infuocate come quella dei medicinali.

Il codice affronta tutti gli aspetti che il legislatore non aveva considerato, ma che ormai ricorono frequentemente nella prassi e nelle cronache giudiziarie, che ormai chiama Big Pharma le maggiori realtà di settore, percepite come un cartello. Consente, ad esempio, di offrire solamente omaggi di valore trascurabile (massimo 25 euro) come biro, agende, portapenne, a patto di indicare chiaramente sull’oggetto il nome dell’azienda e la specialità medicinale pubblicizzata. Sono permesse anche le confezioni di prova di medicinali, nel limite complessivo di 8 per ogni dosaggio, e comunque da distribuire non oltre i 18 mesi dalla data di prima commercializzazione.

Scorrendo le pagine, un capitolo ad hoc è dedicato ai congressi. È esplicitamente vietata – e questo la dice lunga – l’organizzazione di incontri di aggiornamento in località di richiamo. Recita testualmente l’articolo 3: “Sono tassativamente escluse località a carattere turistico nel periodo 1° giugno – 30 settembre per le località di mare e 1° dicembre – 31 marzo e 1° luglio – 31 agosto per le località di montagna“. Fanno eccezione le città, come Barcellona, sede di importanti istituzioni di rilievo scientifico, purché la sistemazione in albergo (non più di quattro stelle) offerta ai partecipanti non preveda accesso al mare. Anche gli spostamenti, se pagati dalle compagnie, devono avvenire in classe economica – tranne per i relatori dei convegni – mentre i pasti devono restare sotto la cifra di 60 euro. Insomma, niente vacanze organizzate in cambio di prescrizioni facili, almeno in linea di principio.

Nel caso di Milano, gli atti dell’inchiesta parlano diversamente. Partecipazione a congressi con volo scelto direttamente da Confalonieri, accusano i magistrati, soggiorno in hotel a cinque stelle dotato di piscina e spa a Barcellona e Tokio per lui e un’accompagnatrice: si arriva facilmente a superare i cinquemila euro a persona. E nessuna compagnia investirebbe una cifra simile se il ritorno atteso non fosse molto più alto.

La carta deontologica di Federfarma torna poi sull’attività in studio degli informatori, che per legge hanno diritto di essere ricevuti ogni tre pazienti, e solo se il medico gradisce. Vietato, durante la conversazione, fare ricorso a iperboli e affermazioni universali (“perfetta tollerabilità”, “assolutamente innocuo”, “farmaco di elezione”) per perorare la propria causa. Ottimo impegno. Controllare che questo comportamento venga rispettato è tutt’altro paio di maniche.

Il terzo livello a tutela dei consumatori è quello delle aziende. Tutte sono libere di dotarsi di strumenti propri, integrativi rispetto al documento dell’associazione di categoria. Si sa, serve a fare bella figura.

Spesso le multinazionali, soprattutto americane, rendono disponibili al pubblico questi strumenti, che fanno bella mostra di sé sul sito aziendale. È il caso di Johnson&Johnson: un corposo paper di una quarantina di pagine scaricabile da tutti che affronta le principali questioni etiche che si pongono davanti a chi fa business con la salute. Una guida per i dipendenti, con le modalità di comportamento da seguire in caso di, e un consiglio: far sempre riferimento ai dirigenti o all’ufficio legale. In altre aziende, come B.Braun, sul sito italiano non è possibile rintracciare una vera e propria policy: non si va oltre alle dichiarazioni generiche di rispetto del buonsenso.

Abbiamo contattato sia Johnson&Johnson che B.Braun per capire che cosa pensassero della vicenda di Milano. Entrambe le aziende hanno preferito non rilasciare dichiarazioni. “Stiamo collaborando con i magistrati”, informano i portavoce praticamente all’unisono, mentre parlano di un’indagine interna per accertare le responsabilità. Risposte di prammatica.

Se le accuse fossero confermate, il problema, in entrambi i casi, è che qualcosa non ha funzionato nella catena di controllo di cui ogni corporation deve essere dotata. Ma resta da capire a che livello: se, cioè, sia stata la dirigenza a favorire l’utilizzo di determinate pratiche scorrette – e in questo caso si configurerebbe una colpa pesante per la compagnia – oppure l’iniziativa è stata presa spontaneamente da figure di basso profilo – ad esempio gli agenti di vendita – : una pratica, quindi, perpetrata all’insaputa dei superiori, per gonfiare i numeri e fare bella figura durante le presentazioni con i dirigenti. La differenza è sostanziale.

Le aziende farmaceutiche e del comparto sanitario vivono di obiettivi di vendita come qualunque altra realtà, dai concessionari di automobili ai produttori di salumi. Sono, però, coinvolte in un settore molto più delicato, il cui giro d’affari è ampio: il 70% circa dei bilanci delle Regioni è destinato alla sanità che, per come è configurata in Italia, è legata a doppio filo alla politica. Facile che solletichi appetiti poco limpidi. A tutti i livelli.

Del resto, lavorare per un’azienda impegnata nell’healthcare significa, tecnicamente, avere un impiego come un altro. Business is business, e le cosiddette prassi diffuse, a meno di inchieste clamorose, raramente vengono alla luce: sono difficili da provare in assenza di intercettazioni, richieste, però, solo in presenza di sospetti gravi come quella di Milano. Nessuno, come abbiamo visto, troverà mai documenti che giustificano il ricorso a bustarelle o benefit: troppo banale.

Piuttosto, ci si imbatterà in carte deontologiche titolate con intestazioni alla moda come “corporate responsibility. In attesa che i magistrati compiano il proprio lavoro, abbiamo perciò provato a leggere tra le righe. “Noi crediamo che la nostra prima responsabilità sia verso i medici, gli infermieri e i pazienti, verso le madri, i padri e tutte le altre persone che usano i nostri prodotti e i nostri servizi” si legge nella carta di responsabilità di Johnson. I medici prima dei pazienti? Invertendo l’ordine degli addendi, la somma, a volte, cambia.

Antonio Piemontese
@apiemontese

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