Theranos, ovvero tutto quello che non bisogna fare se decidete di fondare una startup, e qualcuno crede in voi. La storia è quella di Elizabeth Holmes, bionda studentessa di Stanford – vengono tutti da lì, pare – che si ritira al secondo anno per perseguire il sogno di diventare ricca creando una società biomedicale. La chiama Theranos, crasi tra therapy e diagnosis, e l’idea è quella di produrre un apparecchio dalle dimensioni contenute in grado di eseguire oltre 200 test ematici in pochi minuti, prelevando una sola goccia di sangue e direttamente a casa. Tenete a mente il discorso delle dimensioni, perché l’idea ossessiva di miniaturizzare qualcosa che veniva già fatto in maniera affidabile in laboratorio sarà la causa del disastro.
Rimpicciolire i componenti poneva, infatti, problemi ingegneristici che si sono presto rivelati insormontabili. Holmes, aiutata dal compagno di vent’anni più grande, non si scoraggia, e prova in tutti i modi ad andare avanti. Anche perché l’innata capacità persuasiva, i grandi occhi chiari e la voce profonda – provate ad ascoltarla su Youtube, anche se pare fosse una posa – hanno sin da subito incantato decine di investitori. Nella compagine c’era gente scafata come Rupert Murdoch, ma anche l’italiano John Elkann. Non solo. Il consiglio di amministrazione era composto da nomi di peso della politica a livello mondiale. Qualche esempio? Henry Kissinger sedeva in prima fila, ma c’era anche l’ex segretario di Stato ai tempi di Reagan George Shultz, uno dei principali attori della distensione tra le superpotenze degli anni ’80.
Holmes aveva creato la scatola perfetta, ma all’interno il contenitore era vuoto. E quando i soldi hanno cominciato ad arrivare, arrestare la reazione a catena (“Se ci investe lui, di sicuro funziona, quindi ci investo anch’io”) è diventato difficile come nei più tragici incidenti nucleari. Soprattutto se il propellente era costituito dall’ambizione e dall’avidità di una ragazza con pochi scrupoli.
E’ durata oltre dieci anni la parabola di Theranos, senza mai arrivare al “go to market”. Nel frattempo, meno che trentenne, Holmes è diventata miliardaria in dollari, guadagnandosi le copertine delle principali riviste di business.
Ma oltre le mura dell’ufficio di Palo Alto e le porte a vetri blindate sorvegliate da gorilla con l’orecchino, aleggiava un senso di terrore. Dipartimenti aziendali che non potevano comunicare tra loro, email controllate, licenziamenti all’ordine del giorno. Chi provava a manifestare dubbi – in fondo si parlava di macchinari biomedicali, e c’era di mezzo la salute delle persone – sulle pratiche aziendali veniva allontanato e minacciato. Un’ossessione per la privacy che sconfinava nella paranoia, e serviva per nascondere il vuoto.
Incurante di tutto, la società stringeva accordi, tra cui quello con una catena della grande distribuzione per eseguire test di prova su pazienti nei punti vendita. Test che, in diverse occasioni, hanno prodotto risultati inattendibili, causando stress notevoli a chi vi si sottoponeva e si scopriva malato pur essendo perfettamente sano.
Tutto ciò non sarebbe, forse, mai venuto alla luce se non fosse stato per l’inchiesta di John Carreyrou, reporter del Wall Street Journal vincitore di due premi Pulitzer. Carreyrou ha condotto un lavoro di indagine meticoloso che ha portato alla pubblicazione di una serie di articoli in grado di sgonfiare rapidamente il fantoccio.
Una bella storia dal punto di vista giornalistico, raccontata perfettamente nel libro che ne è seguito (“Una sola goccia di sangue” ma l’originale inglese “Bad Blood” rende meglio l’idea). Una storia che mostra cosa significhi fare informazione sul serio, ma anche essere un editore. Il già citato Rupert Murdoch era tra gli investitori di Theranos, con una cifra monstre di oltre cento milioni di dollari. Avuta notizia dell’inchiesta, Holmes provò a contattarlo per fermare tutto: ma il tycoon australiano si rifiutò di intervenire, lasciando alla redazione le valutazioni. Perse una caterva di quattrini, ma preservò la credibilità del giornale.
Bad blood è un’inchiesta da manuale che ogni giornalista dovrebbe leggere, ma anche un libro che svela il peggio della Silicon Valley e dell’ecosistema delle startup. Il mito di Steve Jobs, il potere assoluto del marketing, le iniezioni di venture capital da centinaia di milioni di dollari su progetti che non hanno alcuna solida base industriale ma solo una supposta visionarietà. Un sistema sbilanciato in avanti e che sfugge ai controlli riservati alle società quotate in Borsa, perché oggi le startup riescono a finanziarsi privatamente tramite fondi di investimento fino a diventare giganti da un miliardo di dollari e oltre prima di andare sul mercato azionario, ed essere controllate sul serio.
L’epilogo lo lasciamo alla sorpresa del lettore. Pare che ci sia un film in lavorazione per trasportare la pellicola sul grande schermo; ma chiunque sia interessato al mondo delle imprese innovative deve leggere il libro. Il confine tra ambizione ed etica non è mai stato tracciato in maniera definitiva, ma, nella propria inchiesta, Carreyrou fissa una serie di limiti oltre cui non è prudente spingersi. Un monito per chiunque faccia impresa. Soprattutto se avrà la fortuna di avere gli dei del successo dalla propria parte.