La crisi pandemica ha avuto qualche effetto positivo, oltre alla tragedia globale delle vittime del Covid. Non sembri blasfemo, a volte è necessario cercare di guardare il bicchiere mezzo pieno per affrontare tempi difficili, pur evitando di gli eccessi dell’ottimismo a priori (che, osservava qualcuno, è un’arma di difesa essenzialmente tragica: vi si ricorre quando ogni tentativo razionale di spiegare un fenomeno è andato a farsi benedire).
Parlo di giornalismo, perché è il settore che conosco meglio.
Qualche premessa. Internet, non è una scoperta, ha cambiato completamente l’approccio all’informazione. Innanzitutto, non si parla quasi più di articoli ma, genericamente, di “contenuti”. Un calderone dove si può infilare tutto, dal tweet griffato alla foto d’autore allo screenshot rubato dal cellulare di un passante che lo ha pubblicato sui social media senza curarsi di impostare la privacy. Ciò è dovuto in buona parte al fatto che la metrica fondamentale con cui si valutano le performance di un sito web è quella delle pagine visitate: e dato che ogni “contenuto”, con un adeguato lavoro di “cucina” redazionale, può equivalere a una pagina, si assiste a una frammentazione che, peraltro, ben si sposa con i ritmi e le esigenze di una vita sempre più frenetica.
Il concetto di informazione si è lentamente imbastardito inglobando quello – uso un termine inglese tipico dell’ambito business non a caso – di entertainment, intrattenimento. Cellulare alla mano, dieci applicazioni aperte contemporaneamente, più un paio di giochini, si salta da una finestra all’altra con l’unica guida di ciò che colpisce di più l’attenzione; che, a questo punto, diventa essenzialmente visuale. A quel punto, ci si ferma per dieci secondi, esattamente il tempo per leggere un titolo, o un tweet, notare un brand di pubblicità, e il gioco ricomincia.
In questo modo, si è progressivamente persa la visione di insieme. Direi a livello sociale. Il cervello è una macchina che si atrofizza se non usata, e chi scrive appartiene alla generazione a cui veniva vietata la calcolatrice. Insomma, ricordo come si fa una divisione a mano.
Sostanzialmente, il pubblico si è abituato da anni a assumere la realtà in microdosi: poco efficaci per curare una malattia, chiamiamola così, quale l’ignoranza. Ogni argomento viene spezzettato. È come assumere un frammento di pastiglia al giorno: quale cura funzionerebbe?
In un’epoca non troppo lontana, non era raro incontrare ferrovieri con la quinta elementare e una cultura sindacale e di diritto del lavoro da far presumere ben più blasonati studi. I cretini laureati, dal canto loro, ci sono sempre stati; ma, francamente, ne giravano meno.
Torniamo a noi. Il modello di business per le aziende editoriali – che, va detto, non sono opere di carità – si è dovuto adeguare. Anche perché, e qui ritorniamo all’attenzione, per catturare l’interesse del lettore ha assunto sempre più importanza il ruolo della “firma”. Leggere un articolo di Gramellini, di Mattia Feltri, o degli altri bravi colleghi che scrivono in prima pagina vale il prezzo del biglietto, come si suol dire. Queste grandi star del giornalismo portano lettori e si fanno pagare di conseguenza, incidendo non poco sui bilanci.
Chiaramente, l’esempio più illustre è quello di Vittorio Feltri, capace di creare un personaggio e persino un giornale a propria immagine e somiglianza. Alzi la mano chi ha letto un articolo di Libero oltre agli editoriali: pochi. E, in certi casi, non sono neanche scritti male. Il punto, però, è un altro: quel quotidiano si compra più che altro per la figura del direttore. Il resto conta poco, e lo si cerca, di solito, altrove. Non parliamo degli epigoni, da Sallusti a Belpietro: una progenie che si limita più che altro a riprenderne le pose.
Nelle redazioni si è creata così una divisione estremamente netta tra grandi firme strapagate (ci sono anche dei giovani, anche se pochi) e redattori ordinari, con stipendi quasi proletari. Mi riferisco ai nuovi assunti: perché gli anziani godono ancora dei contratti sottoscritti quando le vacche erano grasse per tutti (e la ricchezza meglio distribuita). Ah, i diritti acquisiti. Questi contratti pesano ancora parecchio sui bilanci, anche se gli intestatari, bontà loro, non scrivono quasi più. Il resto dei lavoro lo fanno i freelance, i quali, in molti casi, sono pagati in visibilità e buonanotte al secchio. O poco più.
In queste condizioni, chi ha potuto è corso a cercare gloria altrove. Non in altri giornali, perché la situazione dell’editoria è la stessa ovunque. Mi riferisco a uffici stampa, pr, ma anche posizioni da segretaria in aziende. Ho visto personalmente colleghi dotati cambiare mestiere esasperati per la mortificazione e la frustrazione di non arrivare alla fine del mese dopo 30 anni di onorata carriera, trascorsi anche in testate nazionali.
In un mercato lasciato a se stesso, si è creata la solita polarizzazione. Capita anche nelle aziende. Negli anni Sessanta, un amministratore delegato guadagnava trenta volte un operaio. Oggi diverse centinaia. Chi resta, a queste condizioni, spesso lavora di fretta (“breaking news” è un’espressione inflazionata) e senza maestri, sapendo, peraltro, che l’errore è concesso, perché sul web basta poco per correggerlo. Così, capita che sul primo quotidiano nazionale un omicidio venga definito “killing”, senza che alcun caporedattore lo segni in rosso. Linguaggio da Instagram. Peraltro, il termine inglese sarebbe murder, o manslaughter.
Benvenuti nell’informazione digitale anno domini 2020.
Concludo. In questa accozzaglia, farsi un’idea è diventato sempre più difficile. Se prima bastava leggere un articolo lungo, scritto da un giornalista che teneva alla propria firma e che si era preparato a dovere per cominciare a capire qualcosa, oggi il lettore medio compone il quadro giustapponendo pezzi presi da ogni dove. Un po’ come il personaggio della Nausea di Sartre, che voleva farsi una cultura leggendo il volumi della biblioteca dalla a alla z: quello che conta non è la quantità. E’ la gerarchia.
E veniamo al Covid. La cosa positiva è che la pandemia, dopo uno sbandamento iniziale, ha rimesso in primo piano la competenza, marcando la differenza tra prodotti editoriali di serie a e altri di serie b.
Cominciano ad apparire (e a guadagnare spazio) firme meno blasonate ma più preparate dei tuttologi da prima pagina. Mi viene in mente Sandro Modeo del Corriere. Questo articolo nasce dopo aver letto l’ennesimo suo bel pezzo.
Modeo (ma non è l’unico) scrive articoli lunghi, documentati, precisi ma caratterizzati dallo sforzo di rendere comprensibili concetti ostici. Anche sul web, nel regno dell’effimero.
Si sta (finalmente) superando il concetto che l’articolo lungo non renda. Al contrario. Il longform è quello che ci vuole per spiegare al lettore che l’informazione di qualità va pagata, così come, peraltro, è sempre stato fino a 20 anni fa. E non con i dati. Oggi come oggi, superata la fase in cui abbonarsi al digitale costava parecchio, con pochi euro alla settimana è possibile accedere ai contenuti premium. Credetemi: dopo aver provato, non tornerete più indietro.
I nomi storici hanno cominciato a perdere i lettori più attenti (che spesso fa rima con fedeli) a vantaggio di realtà più piccole ma in grado di guadagnarsi credibilità senza rincorrere l’ultima idiozia, ogni giorno, a tutte le ore, si tratti di Salvini o dei testi sierologici. Niente di nuovo, in fondo: una mensilizzazione, potremmo dire, di una parte del web.
Sono anche nate (o meglio, si sono evolute) forme più raffinate di introiti. Dai branded content (che hanno una propria dignità, quando fatti bene: guardate l’esempio della serie Cocainomics del Wall Street Journal, sponsorizzata da Netflix prima del lancio di Narcos) alle testate che stanno in piedi grazie ai bandi. A volte li emettono soggetti privati, a volte sono aziende, come Google, che ha lanciato numerosi progetti e sta cercando di rifarsi una reputazione dopo essere finita nel mirino dei regolatori e di una parte sempre più consistente di pubbloco. Come sempre, per il lettore, la cosa più importante è sapere con esattezza chi ci mette i soldi: e tenere presente che è difficile parlare male di chi ti finanzia.
Insomma: alla pandemia dobbiamo la prima, e più importante, crepa in quella che era la vera barriera alla transizione digitale: la reticenza del lettore a pagare per i contenuti, a fare il gesto di inserire i dati della propria carta di credito per avere notizie che, credeva, avrebbe potuto avere gratis. Il problema non è solo questo: più spesso di quanto sembri, è una questione di pigrizia (nessuno ama alzarsi a cercare i codici nel portafoglio quando vuole solo leggere un articolo in santa pace), senza contare la paura di frodi informatiche. La nuova abitudine al commercio elettronico sta travolgendo molte resistenze ataviche.
Inoltre, la pandemia – che riguarda proprio tutti, mettendo a rischio il bene più prezioso, la salute – ha reso più chiara la differenza tra informazione di qualità (fatta da persone competenti, dove , come dicono gli anglosassoni, less is more e conta la gerarchia) – e l’accozzaglia di notizie confuse e prive di un reale significato proposta da molti media mainstream.
Al momento si sta ancora seminando, ma penso che manchi poco: i frutti arriveranno. C’è ancora posto per qualcuno sul treno: ma chi ha scommesso due o tre anni fa, riuscendo a restare in piedi nel frattempo, si appresta a raccogliere i risultati.
Anche le redazioni cominciano a cambiare assetto. Qualcuno va in pensione, qualcun altro, si diceva cambia mestiere.
Ogni tanto sui forum della nostra categoria un giovane chiede se fare o meno del giornalismo la propria strada. Personalmente, sconsiglierei. Ma è sempre stato così: solo chi è motivato comincia qualcosa dopo avere sentito tutto il male possibile. Aggiungerei, però, una cosa: se vuoi fare questo mestiere, ragazzo, devi studiare. Tanto. Il tempo del “sempre meglio che lavorare”, se mai è esistito, è finito. Il livello si è alzato: chi non lo ha capisce, verrà travolto. Ci sono, tra i restii al cambiamento, anche tanti padri e madri di famiglia.
La rivoluzione digitale ha impattato sull’editoria scardinando tutto quanto era vero fino a 20 anni fa. Certo, a far da guida, restano i capisaldi dell’etica professionale. Ma il problema, anche per noi che ci lavoriamo, è un altro. È che siamo solo agli inizi.
(Foto di Shutterbug75 da Pixabay)