giornalismo, internet

Chat Gpt, gli Nft e i giornalisti

Dico la verità: questo Chat Gpt mi fa paura. La risposta ai dubbi su come cambierà il giornalismo e il content writing (no, non sono la stessa cosa, anche se il dubbio non è peregrino) potrebbe venire dagli Nft. Il primo tweet, il primo sms, le azioni più belle del calcio e del basket sono già  stati venduti per centinaia di migliaia di dollari. Ci sono persone che portano al polso, sullo smartwatch, mere immagini di diamanti pagate come fossero veri. Per non parlare delle opere d’arte: possono vederle tutti, ma la proprietà resta di uno solo. Insomma, l’Nft ha molto a che fare con l’attrazione psicologica per l’esclusività, la stessa degli status symbol.

Lo stesso, immagino, potrebbe accadere per i contenuti: la maggior parte di quelli che si producono oggi sarà agevolmente sostituita dal chatbot, e credetemi sta già accadendo; il negozio all’angolo non si affiderà più ai freelance, e chi di questo vive farebbe bene a preoccuparsi. Ma assumere un autore significherà tutelare dei panda in via di estinzione; e poterlo affermare, magari linkando il contenuto in questione a una biografia che dimostri che l’autore esiste in carne e ossa, potrebbe aggiungere un certo valore, un po’ come accade oggi per le certificazioni green. Immagino, naturalmente.

Non solo. Difficilmente una grande azienda rischierà un danno reputazionale affidandosi a un algoritmo. Ricordiamo la disastrosa campagna di Dolce e Gabbana in Cina di qualche anno fa: ve la  immaginate una maison che fattura miliardi scusarsi dicendo che è tutta colpa di un bot? Per non parlare delle fintech, insurtech, che agli algoritmi già oggi si affidano massicciamente per maneggiare enormi somme di denaro: se ti affidi al bot per risparmiare le fatture da qualche migliaio di euro di un content writer, come posso essere certo che i miei risparmi siano al sicuro?

L’umano, a conti fatti, potrebbe essere insostituibile. Se non altro come capro espiatorio.

Veniamo al giornalismo. Qui il problema è più complesso. Come suggeriva qualche giorno fa Federico Rampini, un professionista ha le sue fonti, anche segrete, fa inferenze, insomma ha un ancora qualcosa in più. E poi c’è l’allure, la pipa, il sigaro, il cappotto e le clarks.  ChatGpt, sosteneva Rampini dopo averlo testato, fa lavori discreti, che funzionano bene per l’80% dei contenuti, ma non per tutto.

Per i professionisti dell’informazione, il tema della validazione assume ancora più valore: chi garantisce? Il giornalista in carne e ossa è responsabile di quel che scrive, il bot no, e anche se lo fosse, sarebbe poca cosa multarlo, dato che i problemi di vil denaro non lo toccano. Al massimo, si può pensare di staccargli l’alimentazione.

Ribadisco, questo Chat Gpt mi fa paura. Ed è un dovere guardare alla nostra professione da qui a dieci anni, per chiunque viva di parole. Ma credo che, almeno la mia generazione, proverà a difendersi. A scovare i limiti di queste applicazioni, a creare riserve protette. Magari il successo non arriderà ai nostalgici, ma pazienza, in fondo conta darsi uno scopo. Per le generazioni che ancora devono nascere, il discorso è più complesso. Nel ’96 la pecora Dolly fece pensare che saremmo scivolati nella manipolazione genetica di massa. Non è stato così. Ci siamo dati dei limiti. Forse il punto, uno dei punti, è questo: non rassegnarsi a raccogliere per buono tutto quanto ci viene propinato come tanti boccaloni con la bocca spalancata. Meglio esercitare il nostro diritto di scelta, e tenere alta l’attenzione, sapendo anche rinunciare a qualcosa quando è chiaro che non può farci bene. Quel momento non è ancora arrivato, ma meglio non illudersi.  (foto: Getty Images)

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