Voleva essere come la Thatcher, forse non ci è riuscita ma ha avuto un compito ingrato. Theresa May ha annunciato oggi le sue dimissioni, fra le lacrime. Nonostante i tentativi della signora, il Regno Unito vota ancora una volta per eleggere i propri rappresentanti in seno all’UE. E quel che sarà, sarà.
Le si può rimproverare una certa spocchia (il mantra “Brexit means Brexit” ripetuto ossessivamente) e un atteggiamento spavaldo durante le negoziazioni. Per il resto, pochi avrebbero saputo fare meglio al suo posto; e pochi, soprattutto, avrebbero accettato l’incarico, accuratamente evitato dai più navigati compagni di partito. Non è andata meglio tra i laburisti, che non hanno mai preso posizione; Dante condannava gli ignavi alla sorte peggiore, probabilmente non a torto.
E’ finita come nessuno immaginava: niente uscita, per il momento, e il ritorno di Farage, lontano dai radar e che oggi appare il gigante che non è.
In tre anni il Regno Unito ha mostrato le proprie debolezze: confuso, allo sbando, è l’ombra di se stesso. Ma l’uscita che doveva servire da apripista, ha, forse, avuto il merito di aver portato il dibattito sull’Europa per la prima volta realmente sulla bocca di tutti. Fino a qualche anno fa, il malcontento c’era, ma non si poteva votarlo, e le campagne elettorali per Strasburgo erano versioni scialbe di quelle nazionali.
Oggi sappiamo che essere nell’Unione non è scontato, e che chi ci crede deve dirlo forte. Buon voto a tutti.