“Proprio nella società palliativa avversa al dolore si moltiplicano i dolori silenti, confinati ai margini, che persistono nella loro assenza di senso, di linguaggio e d’immagini. Alla base del dolore vi sono svariate forme di violenza. Le repressioni, ad esempio, rappresentano una violenza della negatività. Ma la violenza non emana solo dagli altri. La violenza è anche un eccesso di positività che si esprime in forma di sovraprestazione , sovracomunicazione, sovrastimolazione. La violenza della positività conduce a dolori opprimenti. Sono infatti algogiche quelle tensioni soprattutto psichiche che caratterizzano la società della prestazione neoliberista. Esse recano tratti auto-aggressivi. Il soggetto di prestazione si infligge violenza da solo. Si sfrutta volontariamente fino a crollare. Il servo prende la frusta dalle mani del signore e si frusta per diventare signore, sì, per essere libero. Il soggetto di prestazione fa guerra a sé stesso. Le pressioni interiori emerse in questo modo lo spingono alla depressione. Provocano anche dolori cronici. [..]L’eziologia dei dolori cronici ha molte facce. Le fratture, gli stravolgimenti e le contrazioni nel tessuto sociale provocano o rafforzano i dolori cronici. Non ultima, è l’assenza di senso nella società attuale a rendere insopportabili i dolori cronici. Essi rispecchiano la nostra società svuotata di senso, il nostro tempo senza narrazione in cui la vita è diventata nuda sopravvivenza. Qui gli analgesici o le indagini interiori possono fare ben poco. Ci rendono solo ciechi dinanzi alle cause socioculturali del dolore ”. (Byung-Chul Han, La società senza dolore, Einaudi, 2021).
Il saggio di Byung-Chul Han analizza come il dolore sia scomparso dalla società contemporanea. Ma senza dolore non c’è rottura, non c’è crescita; c’è, piuttosto, un continuo ritorno dell’Uguale. In cambio, siamo tormentati da miriadi di acciacchi spesso cronici di cui non riusciamo a liberarci e di cui non intravediamo il senso. Analizzarsi serve a poco, anche adattarsi, alla lunga, può non pagare; l’unica soluzione, se non per annullare, per rendere sopportabile il dolore, è quello di dargli un senso. E di coglierne le cause socioculturali inscritte nel dna di una società della prestazione che ci porta a compiacerci nell’autoinfliggerci umiliazioni.
Mi chiedo spesso il perché di questa tendenza a godere nell’essere giudicati, umiliati, senza un accenno di ribellione. In nome di cosa, di quale fine ulteriore. Perché, dopo anni passati sui banchi di scuola, non sempre con voglia, si desideri trascorrere la serata guardando alla televisione dilettanti che si sfidano nel canto, cuochi della domenica che competono ai fornelli, persino – pare sia successo su RaiTre – scrittori che duellano a colpi di aggettivi. Una forma di sublimazione? Rivedersi, dietro al filtro dello schermo, nel cuoco umiliato dal grande chef o nella coetanea trasandata “rimessa a posto” dal sedicente esperto di stile (che finisce per conciare tutti nello stesso modo) aiuta ad allontanare l’ossessione della prestazione, come se non ci riguardasse? E invece ci riguarda, quando abbassiamo la testa di fronte all’ennesimo sopruso, sperando che prima o poi il nostro valore venga riconosciuto. Ci riguarda, quando facciamo i conti con acciacchi perenni che potrebbero addolcirsi se avessimo imparato a mandare al diavolo il despota di turno… Ci riguarda quando perdiamo la parte migliore della vita che, trascorsa così, di riduce a mera sopravvivenza. (Riflessioni al rientro da un viaggio, seduto in piscina di fianco a un paio di quarantenni-manager che parlano di fatturati, ordini e altre stronzate mentre dovrebbero starsene zitti a prendere il sole).