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Il Dio della vendetta

Sembrano ultras di una nazionale di calcio dopo la vittoria inaspettata di un mondiale. Sfilano per le strade su pickup Toyota con i corpi dei nemici a bordo, vivi o morti fa poca differenza. Esultano, fucile in braccio, tra la folla urlante, che li riprende col telefonino, uomini, donne, ragazzini in maglietta col cappellino Nike girato. Perché, come spesso capita, non hai l’acqua, ma il gadegt firmato sì, quello che ti illude di essere un po’ come loro, e in realtà scava goccia a goccia il fossato della consapevolezza: come loro, quelli dall’altra parte del muro, coi bei vestiti, le belle scuole, il lavoro alla moda, non lo sarai mai. Invece degli slogan legati al pallone, sbraitano Allahu Akbar; e dalla frequenza ossessiva, completamente avulsa dal contesto, dal tono rabbioso, dalla pronuncia sguaiata, capisci che in chi urla non è presente alcuna di elaborazione; è sfogo primordiale, è isteria collettiva, è nevrosi, forse transitoria psicosi. Distacco dalla realtà, quando è la personalità della massa a prendere il posto dell’individuo; un animale che si nutre degli istinti più bassi, istintivamente consapevole che la folla protegge, la folla esalta, la folla innalza e dà forza. La folla vendica il sangue col sangue.

La vendetta di Israele calerà come una scure biblica. Senza pietà. Senza distinguo. Il Dio – ma dov’è Dio, oggi? – rabbioso del Vecchio Testamento arma la mano dei figli di Davide, e vendicherà i morti.

Nessuno può giustificare la violenza brutale di Hamas, di cui sono piene le immagini dei notiziari di questi giorni. Ma chiediamoci se ha senso reagire allo stesso modo, fino a che punto ci si può spingere per vendicare i propri morti quando si è uno Stato civile e non un’organizzazione paramilitare. Qual è la differenza? Se una differenza c’è.

I falchi dicono che gli arabi, quegli arabi, non capiscono altro linguaggio che quello brutale della forza. Senz’altro i terroristi che hanno invaso Israele uccidendo e gettando granate persino in fondo ai bunker dove la gente si era rifugiata in cerca di riparo erano bestie senza legge: come quelli dell’11 settembre, come quelli del Bataclan, raccontati da Emmanuel Carrere nelll’ultimo libro mentre erano alla sbarra in un tribunale parigino.

Il punto è forse proprio questo. Uno Stato civile fa processi. Reagire con violenza pari o superiore all’affronto per ripristinare la deterrenza ha senso? Si può realmente sperare che una popolazione disperata, affamata, senza acqua, costretta a vivere schiacciata in pochi chilometri quadrati, possa cambiare idea?

Senza voler scomodare la filosofia morale, un mero e cinico calcolo politico dovrebbe suggerire il contrario.

Il terrore è mancanza di elaborazione, è paura, assenza di appigli, di speranza in un futuro; si stanno allevando due milioni di persone pronte a tutto, a ridere sul cadavere di un uomo martoriato, a farsi saltare in aria, ad attraversare il confine in deltaplano a motore per non perdersi l’assalto, scena tra le più comiche tra quelle viste nei conflitti di ogni tempo.

Io penso che la gente di Israele e Palestina abbia governanti peggiori di quelli che si merita. Governanti che non sono in grado di proteggerla se non facendo abbaiare le armi. Ma Israele è uno Stato compiuto, dove esiste un dibattito pubblico, è una democrazia in grado di tollerare anche le – e non mancano – voci dissenzienti. A Gaza tutto questo non c’è. Parliamo di una società regredita a connotazioni tribali. E spinta sempre un passo più indietro. Reagire in questo modo è un suicidio, un veleno distillato a gocce. Ogni giorno che passa è un anno in più di guerra futura, un anno in più di insicurezza. Il diritto ha superato la legge del taglione dei tempi di Hammurabi. I crimini di guerra sono tali anche se commessi per reazione. Che la comunità internazionale intervenga, una buona volta, se l’Onu, che di questo scempio è responsabile, serve a qualcosa.

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