A Milano o in qualunque altro posto, mi racconta mentre chiacchieriamo, io a spasso col mio cane, lui a godersi il sole delle undici, ci si riconosce dalla macchina. Italiana, straniera, grande piccola. “Qui le auto non ci sono, ovviamente. A Venezia basta la camminata. Da qui a cinquanta metri siamo in grado di identificare chiunque. Abbiamo sviluppato un occhio infallibile per l’andatura. E per i dettagli”.
Me la racconta così, la città di San Marco, quest’uomo di ottant’anni, mentre si gusta una passeggiata mattutina in Campo San Geremia, a due passi dalla stazione. Uno dei pochi veneziani orgogliosamente rimasti ad abitare in questa città unica, sempre uguale a se stessa, da secoli maestosa, imponente, commovente. Roba da stropicciarsi gli occhi, da darsi un pizzicotto per timore che, riaprendoli, il miracolo svanisca.
Perché i giochi dell’acqua, il suo rumore, il gorgoglio dei mulinelli tra i palazzi raccontano molto del genio italiano. Quello che, come una spina dorsale, attraversa la Penisola da millenni. Le facciate magnifiche testimoniano ancora oggi lo splendore della potenza che dettò legge nell’Adriatico, e non solo. Il paragone con il presente è impietoso.
Venezia, dopo il virus, è molto diversa. Presa d’assalto da decenni da un turismo mordi e fuggi che ne ha celato l’essenza e la lentezza, senza una visione che andasse oltre i profitti, ha l’occasione di riprendersi da se stessa. Inutile guardare all’esterno: le ragioni del business hanno prevalso su tutto, e la scelta è stata proprio di chi avrebbe dovuto difenderla, i locali. Attenti “ai sghei”, e che il resto andasse a farsi benedire.
La pandemia è arrivata dove la mano – o l’avidità – dell’uomo non avrebbero potuto: ne ha pulito le acque, svuotato i vicoli, restituito la bellezza. Che, nella quiete di un agosto diverso da tutti gli altri, ricorda la poesia di certi scorsi della Roma immortalata da Sorrentino.
Le immagini delle navi da crociera stipate di migliaia di persone che – incredibilmente – incrociavano di fronte a piazza San Marco, in una fotografia cheap e americanoide, sbiadiscono poco a poco, ricordo di un’epoca che appare lontana.
Torneranno? Forse. Per il momento, è bello godersi ogni angolo, ogni sestiere, ogni scorcio. I mille ponti semivuoti, il ghetto ebraico – il più antico d’Europa – e i suoi silenzi. I viali assolati e coloratissimi di Burano. E la semisconosciuta Torcello, undici abitanti, in origine forse persino più importante del capoluogo, una cattedrale e un mosaico alto almeno otto metri che da soli valgono la visita.
Lascio la Laguna con la sensazione di aver vissuto un’esperienza riservata a pochissimi. Il virus, penso, ci ha restituito Venezia. Anche i prezzi – vivaddio – sono scesi. In fondo dista solo un paio d’ore di treno, perché non sono venuto più spesso? mi chiedo.
Probabilmente, il problema è la folla. Molti di noi ricordano la Laguna come un pollaio in cui andare, mettere una croce, e poi scappare. Difficile muoversi, la sensazione onnipresente di essere spennati. Qualcuno, negli anni scorsi, ha persino pensato di farsi un caffè con un fornelletto sulle scalinate di San Marco. E’ stato multato e allontanato, con grande eco sui giornali. Senza sminuire la superficialità del gesto, pochi hanno ricordato che nei bar della zona un espresso può costare dieci euro.
Prendo il treno per Milano promettendomi di spandere il verbo, prima che sia troppo tardi. Lo so, ci ho messo un po’. In trenta giorni, la paura del virus trattiene molti dal muoversi. Ma, per chi può, consiglio almeno un weekend qui: questo stato di grazia potrebbe non durare. Il futuro della città è nelle mani dei veneziani. Sarà banale dirlo, ma vale la pena di ricordarlo.