Settanta per cento: la vittoria del sì è stata schiacciante. Adesso, per favore, andiamo avanti con le riforme.
Camera e Senato saranno molto diversi nella prossima legislatura. Se sarà un bene, come speriamo, o un male, sarà il tempo a dirlo, ma il popolo si è espresso, ed è stato un voto trasversale agli schieramenti. Con un’affluenza alta (54,3%) che non lascia dubbi sul valore politico della consultazione, tantopiù durante una pandemia, si apre una stagione potenzialmente foriera di cambiamenti.
Da oggi il Movimento Cinque Stelle, nato nel 2009 due anni dopo il primo Vaffa Day contro la Casta, ha un posto nei libri di storia e nei manuali di diritto pubblico.
C’è chi li ama a prescindere e chi, sempre a prescindere, li odia. Sbagliando in entrambi i casi.
Li seguo dagli inizi. Quando nel 2010 Crimi (che oggi fa il reggente) si candidò alle regionali in Lombardia, il partito valeva il 3%. Altri tempi. Provo a dare un’idea, per chi non ricordasse.
Quelle elezioni le vinse – per la quarta volta consecutiva – Roberto Formigoni, ciellino di ferro il cui regno al Pirellone pareva intramontabile. Andò diversamente. La sua giunta cadde nel 2012 travolta dagli arresti, lui stesso oggi sconta una condanna a cinque anni. Frequentazioni pericolose. Un assessore in odore di ‘ndrangheta per voto di scambio, un altro nel giro delle bonifiche, e ci fermiamo per non annoiare. E poi le tangenti, le vacanze nei resort di mezzo mondo. Tutto tra una camicia sgargiante e l’altra, tra un sorriso e una stretta di mano (meglio se amica), tutto mentre la piovra ciellina avvolgeva – e avvolge – il sistema sanitario lombardo.
Andò peggio al suo avversario. Filippo Penati oggi non c’è più, portato via da un tumore. Pochi mesi dopo quella sfortunata campagna, l’ex sindaco di Sesto San Giovanni e uomo di fiducia di Bersani fu travolto dall’inchiesta sul presunto Sistema Sesto. Tangenti in quella che era la Stalingrado d’Italia. L’accusa sosteneva che in città non si lavorasse senza pagare: lui negò sempre. Alla fine fu prescritto, ma i magistrati ravvisarono situazioni vischiose, almeno sotto il profilo etico.
La Lega era quella di Bossi, anche lui destinato a cadere in disgrazia nel giro di un paio d’anni. A tradirlo, il proverbiale Cerchio Magico e il figlio, con lo scandalo delle spese pazze in regione e le lauree in Albania.
Furono le elezioni di Nicole Minetti, più nota per il ruolo nella vicenda Ruby, le forme e i flirt che per l’attività in aula. I tempi in cui il Parlamento italiano, lo stesso che dalla prossima legislatura sarà ridotto nell’organico, votava credendo a Silvio Berlusconi: Ruby fu liberata perché un’informativa dei servizi segreti la segnalava come nipote di Mubarak (anche lui, nel frattempo, passato a miglior vita).
Ecco: se dieci anni dopo questa Italietta da quattro soldi sembra un circo equestre indegno di un paese civile, si deve in buona parte a un movimento di mezzi matti che decisero che il paese si poteva cambiare a colpi di blog, tenendo alta l’attenzione. Non solo sugli scontrini. Chi parlava di ambiente nel 2009?
Non so se ci siano riusciti. L’Italia resta corrotta e schiava di correnti e mafie. Un paese dove un uomo come Nicola Gratteri può essere lasciato solo. E certo, ci sono state esagerazioni: un amministratore capace val bene qualche cena a scrocco. Ad avercene, però. Il problema è che al ristorante senza pagare il conto, fino a poco fa, ci andavano tutti. Ma proprio tutti.
I grillini hanno mostrato eccessi, accolto chi crede alle scie chimiche e no vax, pareggiato sostanzialmente un’elezione politica (quella del 2013) e stravinto quella successiva (nel 2018) promettendo di abolire la povertà e governando con un brutto ceffo come Salvini. Ma si sono evoluti, nel frattempo, e restano i controllori dell’establishment e della casta. Questo, i partiti tradizionali, non sono mai riusciti a farlo. E c’è un motivo: non hanno voluto.
Oggi i sondaggi dicono che il Movimento di Di Maio si attesta attorno al 12-15%, che mi pare la loro soglia fisiologica. Viene da pensare che moderando i toni, imparando a parlare coi giornalisti e a fare compromessi si perdano voti, e forse è davvero così. Ma si aiuta il paese.
Chi sperava di levarseli di torno dovrà attendere.
C’è da augurarsi che, adesso, si apra una stagione di riforme della nostra Costituzione, figlia di un Ventennio lontano e inadeguata ai tempi. Il risultato di oggi non modifica in nulla l’architettura dello Stato: per fare un paragone, è come dare una mano di vernice alla macchina. Il motore si cambia modificando le attribuzioni delle due Camere, rendendone, cioè, diversi i compiti. Si può, a mio avviso, anche pensare di toccare la figura del presidente del Consiglio.
Riforme spezzettate in più fasi corrono il rischio di essere disorganiche, è vero. Riforme ad ampio spettro, d’altro canto, rischiano di essere figlie della parte politica al governo, e per questo indigeste e parziali.
Sarebbe bello coinvolgere i cittadini, abituarli a dibattere su questi argomenti. Che si cominciasse, cioè, a fare educazione civica sui media, oltre che nelle scuole. Come notavano alcuni osservatori, il dibattito su questo referendum ha coinvolto in misura ampia intellettuali ed esperti; i partiti sono rimasti un passo indietro, consapevoli di essere divisi all’interno. A me sembra un buon segno, dopo tante campagne elettorali sguaiate.