Anche nel gorgo di una civiltà visuale, innegabilmente sovraccarica e banale, la potenza di un’immagine resta in grado di smuovere le coscienze. Ci sono stati scatti in grado di cambiare la storia. La foto di Tommi Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico, nel 1968, col braccio alzato sul podio per rivendicare i diritti dei neri americani. Quella di George Floyd con il ginocchio del poliziotto sulla gola, pochi istanti prima di morire. Quella di Nelson Mandela liberato dopo ventisette anni di prigionia, che segnò la fine dell’apartheid. Da lunedì c’è anche quella di Ilaria Salis, attivista italiana detenuta in Ungheria, accusata di un’aggressione ai danni di due militanti neonazisti. Da un anno la donna è rinchiusa in un carcere di massima sicurezza a Budapest. Otto giorni la prognosi per le ferite riportate dai simpatizzanti neri: l’attivista, invece, rischia ventiquattro anni, con evidente sproporzione,
Si era raccontato, lo aveva fatto lei stessa in una lunga lettera agli avvocati, delle durissime condizioni di detenzione. Ma quando lunedì si è presentata al processo con i ceppi alle mani e alle caviglie, una sorta di guinzaglio a legarla a una poliziotta e due omaccioni delle forze speciali in mimetica e passamontagna schierati ai lati, la potenza del fotogramma ha smosso anche le coscienze di chi faceva fatica a interessarsi al caso. Il sorriso dolce, appena abbozzato, dell’italiana spezzava la durezza di un’atmosfera irreale, aggiungendo un tocco di grazia al quadro desolante del tribunale magiaro.
Consumati dal martellamento incessante di immagini in cui siamo abituati a muoverci, le immagini giunte dall’Ungheria hanno avuto il potere di fermare per qualche istante il flusso di influencer, Ferragni, Fedez, shampi, Cracchi, reality, Amici, ballerini che intasa gli schermi dei nostri telefonini e televisioni.
Salis, suo malgrado, è diventata il simbolo di come si possa affrontare con garbo una prova difficile. Oggi ha alle spalle un Paese intero, e fortunatamente, pare, anche il governo. Ma la sua vicenda deve farci riflettere sulle condizioni del sistema carcerario. Anche italiano. Una battaglia di cui in pochi si ricordano, e che, con merito, come in tanti altri casi, va ascritta ai radicali.