Ha segnato cinquant’anni di storia italiana. Se ne va in silenzio in un letto d’ospedale, tutto il contrario di una vita trascorsa sotto le luci dei palcoscenici che, di volta in volta, si era scelto. E dove aveva trionfato. Prima l’imprenditoria, poi il calcio, infine la politica. Controverso, ma vincente. Spregiudicato, ma simpatico. Circondato da una pletora di cortigiani, ma solo, come raccontato nel Loro di Paolo Sorrentino, forse il miglior ritratto dell’uomo nato all’Isola, quartiere milanese ai tempi non ancora gentrificato, e vissuto ad Arcore, in quella Villa San Martino che del suo potere divenne il simbolo. Non compì mai la rivoluzione liberale che aveva promesso, troppo occupato a difendersi nei processi che lo videro imputato, e da cui riuscì quasi sempre a salvarsi. Silvio Berlusconi appartiene a un’epoca della storia nazionale in cui complicità inconfessabili erano tollerate nel nome della stabilità dello Stato. Chissà se a ragione. Chi è venuto dopo è suo figlio, e spesso lo ha fatto rimpiangere. Come figlia sua è l’Italia di oggi, plasmata dalle televisioni, dal suo ottimismo illogico, dal suo populismo da bandana. Si spegne solo, in quel San Raffaele che, anch’esso, era una sua creatura. I vecchi lo sentono vicino, i giovani non lo odiano più. Resta, in quelli di mezzo , l’acredine, spesso stemperata dall’oblio. Lo disse lui di Gheddafi: sic transit gloria mundi.