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Perché non ho votato Sala

Quando lo incrocio dal vivo a qualche evento, Beppe Sala non riesce proprio a non essermi simpatico. L’ho visto in azione a Expo, quando ha salvato praticamente da solo una manifestazione che sembrava condannata al fallimento tra ritardi, appalti truccati, infiltrazioni mafiose. È arrivato agli sgoccioli, e ha fatto quello che era necessario per condurre in porto l’esperienza: senza fare domande, e anche mettendo firme dove sarebbe stato meglio controllare. Ma un grande manager si riconosce da questo: finisce il lavoro per cui è stato assunto. Altrimenti non lo accetta.

Non solo. Ricordo bene la sensazione del primo giorno. Cielo plumbeo, viali semidedeserti, la cerimonia inaugurale con le sue scontate passerelle politiche che sembrava l’anticamera di un disastro annunciato e, finalmente, giunto a compimento.

Come è andata, invece, lo sappiamo. Expo è stato un successo. Dopo il primo mese di rodaggio, la gente ha cominciato ad arrivare. A luglio era tanta, a settembre per i viali non si camminava, a fine ottobre era impossibile vedere più di tre padiglioni in una giornata. Escluso, ovviamente, quello del Giappone, che da solo richiedeva otto ore di coda. Per saltare le file qualcuno arrivò a presentarsi con un passeggino riempito da un bambolotto.

Cosa era accaduto? Fu messa in piedi una campagna di marketing poderosa. Tra accordi con supermercati che fornivano biglietti scontati e un lavoro incessante di creazione del buzz, il passaparola, su social media e blog, la voce si sparse in fretta. Si crearono tormentoni come il già ricordato Giappone che divennero virali.

L’incremento di pubblico fu esponenziale. La macchina comunicativa aveva fatto il suo dovere. I conti erano salvi (più o meno, ma non era colpa di Sala). La manifestazione, però, però divenne invivibile. La situazione era sfuggita di mano. Tra i padiglioni, letteralmente, non si respirava per la calca. Scesero in campo le associazioni dei consumatori: perché vendere così tanti biglietti se uno poi non può vedere nulla? Avevano ragione.

Erano gli anni del renzismo, e il capo fu generoso nel ricompensare il manager , appoggiando la candidatura di Sala a sindaco di Milano. Sembrava l’uomo giusto per proseguire il discorso di una città internazionale, aperta e rampante. Fino al Covid, il capoluogo lombardo era una città da copertina, l’unico posto in Italia dove la crisi del 2008 2011 era davvero passata. Tutti volevano Milano.

Poi arrivò la pandemia. E si vide che durante la crisi, in città non erano restati i manager internazionali o gli expat strapagati che tornavano attirati unicamente dal regime fiscale favorevole. C’erano i panettieri, i baristi coi locali chiusi, gli operai, i cassieri, gli impiegati delle poste da 1200 euro al mese. Quelli che hanno fatto funzionare Milano anche quando avrebbe potuto, e in parte lo è stata, trasformarsi in un deserto.

Arrivo al punto. Qualcuno dice che c’è una scelta: o la città internazionale, “attrattiva”, o la città disegnata per chi ci vive. Terza possibilità, questa la tesi, non è data. Con Sala, Milano ha scelto la prima. E dimenticato la seconda. Affitti alle stelle, un centro senza vita, periferie dimenticate da cui il Duomo dista ben più dei sette chilometri indicati sulla mappa. Se ne accorse persino l’Economist, non certo un giornale di sinistra, con un articolo a gennaio 2020.

La speculazione edilizia ha innescato una spirale difficile da contenere. La gentrification fa sì che anche alcune periferie stiano diventando patrimonio dei ricchi mente i poveri sono confinati nei soliti quartieri (Barona, Corvetto, Quarto Oggiaro, Bovisa). La politica ambientalista del “tutto subito” (ah! ancora il marketing) ha costretto tanti a cambiare auto senza alternative valide a livello di trasporto pubblico . I negozi di quartiere stanno chiudendo uno a uno, sostituiti da catene. Gli scali ferroviari, progetto bandiera di riqualificazione , sono stati disegnati come usa adesso: tutti uguali, nonostante gli architetti siano diversi. Il solito modello internazionale buono per tutte le stagioni, a base di vetro, acciaio e boschi verticali. Persino i tram cambieranno, in peggio. Aggiungete l’Ambrogino d’oro alla Ferragni e il cocktail è pronto.

Sala ha fatto il politico come faceva il manager. Non è colpa sua, è il suo DNA. Il marketing davanti a tutto per attirare gli investitori, il resto arriverà. A Expo esagerò. A Milano è accaduto lo stesso. Lo slogan che ha sintetizzato la visione è quel “Milano non si ferma” ripetuto in piena pandemia che mostra quanto la percezione del sindaco fosse slegata dalla realtà. Fuori i bar cinesi erano chiusi e la città aveva paura: ma guai a mostrare la verità. Par condicio : anche l’aperitivo di Zingaretti è stato una cagata mostruosa, per dirla alla Fantozzi.

Sala continuerà a essermi simpatico dal vivo; meno, quando lo vedo sui manifesti in cui si alterna tra Obama e i vecchietti del circolino. Con ogni probabilità vincerà senza problemi. Più per incapacità del centrodestra di trovare candidati, per gli scandali da fan page, per il fatto che le carte ormai (purtroppo) le dà Salvini che per meriti propri. Ma io non l’ho votato. Milano ha bisogno di altro, e di pensare ai suoi cittadini prima che agli investitori e alle copertine. A quelli che ci vivono davvero, non ai bocconiani pronti a lasciarla in cerca del regime fiscale migliore, fosse anche in capo al mondo. Insomma, consideriamo le alternative. Leggiamo le interviste. Valutiamo i programmi. Ci sono ottimi candidati anche a sinistra che non hanno foto con ex presidenti ma hanno molto da dire da dare. Diamo loro una chance, anche solo di far sentire la propria voce. E buon voto a tutti.

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Milano, a 4 anni da Expo il futuro dell’innovazione passa per MIND

Questo articolo è stato pubblicato su StartupItalia

Un milione di metri quadri, un ospedale d’eccellenza, un centro di ricerca avanzato sulle malattie degenerative e un campus universitario da 20mila studenti. E poi startup, aziende affermate, sinergie. Milano Innovation District – l’acronimo è MIND – è il dopo Expo che il capoluogo lombardo aspettava. Vediamo cosa accadrà nell’immensa area ai confini con Rho lasciata libera quattro anni fa.

Expo 2015: una storia tormentata con il rischio di fallire

Primo maggio 2015: mentre nelle strade della città infuriava la battaglia urbana dei contestatori, a Rho prendeva le mosse l’evento che avrebbe cambiato Milano. Sotto un cielo grigio piombo e una pioggia che poco lasciava sperare, il volo delle Frecce tricolori provava a gettare una manciata di colori nella tensione.

Ad Expo si arrivò male, come spesso accade in Italia: le infiltrazioni della criminalità organizzata e la corruzione erano state ampiamente preventivate, ma nessuno seppe – o volle – intervenire. Erano gli anni in cui il prefetto Gian Valerio Lombardi poteva sorprendere la città affermando di fronte alla commissione antimafia che  “Cosa Nostra a Milano non esiste”, gli anni in cui il potere di Roberto Formigoni sembrava destinato a non tramontare.

Le inchieste della discordia

Qualche mese dopo (estate 2010)  arrivò l’operazione Crimine-Infinito a smascherare l’esistenza di una locale di ‘ndrangheta anche al nord, tra la Brianza e il Milanese. E, proprio da una costola di questa inchiesta, nacque quella sulla “Cupola degli appalti” che travolse, siamo a maggio 2014, la macchina organizzativa di Expo a un anno esatto dalla partenza.

Un’indagine che destabilizzò anche la Procura della Repubblica di Milano, allora retta da Edmondo Bruti Liberati, protagonista di uno scontro senza esclusione di colpi con l’aggiunto Alfredo Robledo. Pare ci fossero state pressioni del Governo dell’epoca per non bloccare la manifestazione sul nascere, e la Procura cercò di conformarsi dilatando i tempi. Robledo non gradì, e si arrivò ai ferri corti.

Expo, nonostante tutto, si fece. Si riuscì ad aprire i cancelli – evitando una figuraccia in mondovisione –  anche se non tutti i padiglioni erano pronti. Com’è andata poi, lo sappiamo. L’evento fu un successo, di portata tale da diventare sinonimo di code infinite, e il padiglione del Giappone, come il casello di Melegnano, evoca ancora attese di ore nell’immaginario dei milanesi, e non solo.

Da Expo a MIND

Ma, chiusi i battenti il 31 ottobre, si poneva il tema di cosa fare dell’area. Domanda non banale, Torino era già lì a mostrare come il patrimonio di infrastrutture costruito durante i giochi olimpici potesse essere abbandonatoMatteo Renzi, all’epoca presidente del Consiglio, si spese da subito tracciando la via. Il progetto di recupero di un’area da un milione di metri quadri prese corpo in quei giorni tra il comprensibile scetticismo di chi era abituato alle chiacchiere della politica. Molta acqua è passata sotto i ponti da allora: in pochi ci credevano, ma adesso, finalmente, si cominciano a vedere i risultati.

Un grande parco,  l’Università Statale e  il Nuovo Galeazzi

Il progetto di riconversione dell’area è entrato nelle fasi operative, mantenendo la vocazione originale che lo legava alle scienze della vita. Il Decumano, lungo 1500 metri, diventerà la colonna vertebrale del masterplan disegnato da Carlo Ratti, un asse da cui sarà possibile raggiungere tutte le aree. Oltre mezzo milione di metri quadri darà vita a uno dei più grandi parchi lineari d’Europa: campi da gioco, spazi di relax e perfino orti serviranno ad attirare la cittadinanza, che peraltro si è già abituata a prendere la metropolitana fino al capolinea per assistere a concerti ed esibizioni. Sono stati più di un milione in tre anni i fan in fila per artisti come Eminem e i Pearl Jam o semplicemente per ammirare l’Albero della Vita, diventato una sorta di monumento nazionale postmoderno.

Ma nel disegno trova posto il meglio della tecnologia, della ricerca e dell’innovazione italiana e internazionale. Si comincia con la creazione di un quartiere interamente driverless: veicoli leggeri senza pilota si muoveranno in uno spazio dedicato che consentirà di sperimentare soluzioni avveniristiche.

Si prosegue con il trasferimento di settte facoltà scientifiche dell’Università Statale di Milano. “Il primo studente è atteso per l’anno accademico 2024 -2025 – conferma Riccardo Capo, direttore Operations di Arexpo, la società che coordina il progetto di riconversione – Il campus, sul modello americano, servirà 18-20 mila studenti al giorno, che vivranno l’esperienza accademica a stretto contatto con le aziende in cui potrebbero, un giorno, lavorare”.

All’ateneo si aggiungerà un ospedale: il Galeazzi, storico nosocomio milanese, troverà sede qui, con un edificio da 10 piani, 600 posti letto e 8 mila utenti al giorno. Tra i corridoi, oltre a curare i malati, si farà ricerca di avanguardia in cardiologia e ortopedia. Questa tranche di progetto sarà finanziata da una cordata mista: 1,8 miliardi provengono dal settore pubblico, mentre il privato contribuirà con i 2 miliardi che si è impegnata a versare Lendlease e i 300 milioni di euro del Gruppo San Donato. Lendlease pagherà, inoltre, un canone di concessione di 671 milioni di euro in 99 anni. Il cantiere è già avviato, le ruspe si muovono per completare i lavori entro il 2021.

Human Technopole: ricerca di eccellenza su Parkinson, Alzheimer e cancro

Il fiore all’occhiello del progetto è, però, Human Technopole, centro d’eccellenza. “Vivere a lungo è diverso da vivere bene” potrebbe essere il concept di questa piattaforma orientata alla ricerca ad ampio spettro sull’essere umano del Duemila. La sede è a Palazzo Italia, a pochi passi dall’Albero della Vita, il focus sulle malattie degenerative come Alzheimer e Parkinson e su quelle tumorali. I soldi ci sono  – 1,2 miliardi già stanziati con la finanziaria del 2016, i lavori sono in corso: oggi apre il terzo cantiere, mentre il primo manipolo di ricercatori (400) arriverà nell’estate 2020: saliranno a 1500 quando l’ente funzionerà a pieno regime.

“Sarà un hub con cui metteremo la tecnologia più avanzata a disposizione non solo dei nostri scienziati, ma di tutti quelli che ne faranno richiesta, naturalmente dietro presentazione di un progetto” spiega Marco Simoni, presidente della Fondazione Human Technopole. Trentamila metri quadri, sette centri di ricerca e due grandi microscopi alti dieci metri per esplorare la materia fino alle strutture atomiche delle proteine, per poi passare dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande grazie a elaboratori dalla potenza mai sperimentata nel nostro paese.

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“Oggi il risultato finale di una ricerca  arriva a valle di una grande fase di raccolta di dati, che vanno inseriti in modelli matematici, i quali vanno, a loro volta, interpretati – spiega il manager – Gli stadi finali di questa operazione vengono gestiti al computer da scienziati computazionali”. Perché oggi l’informatica si è infilata anche qui, dove prima si smanettava con provette e becher.

Non può mancare un occhio di riguardo al trasferimento tecnologico, alla creazione – cioè – di best practices per passare dal laboratorio al mercato. Non solo. Il know how raccolto verrà sottoposto ai policy-makers, sempre alla ricerca di soluzioni per mantenere uno stato sociale che, con l’allungamento della vita media, è sempre più difficile da sostenere.

Tante le grandi società interessate all’area…

Veniamo alle imprese. Di questo parte del progetto si occupa la società australiana Lendlease. Una settantina di grandi aziende hanno manifestato interesse a insediarsi nell’area, ben collegata da mezzi di comunicazione (metropolitana, treno, autostrade) e vicina a zone di nuova edilizia residenziale dove i futuri dipendenti possono, eventualmente, trovare alloggio. Tra queste IBM,  Intesa, Novartis e altri nomi di punta del firmamento internazionale.

…Anche startup

Ma ci sono anche le startup: una call chiusa a febbraio ha registrato 118 richieste da parte di aziende sulla frontiera della tecnologia. “Circa il 50% si occupano di smart city e digital, segno che l’area è al passo con le tendenze globali   – riprende Capo – Molto interesse abbiamo riscontrato anche nei settori cultura, scolastico ed entertainment, con un 20% circa delle proposte”.

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L’area, a regime, ospiterà 60mila persone al giorno. Nei prossimi cinque anni si raggiungerà la metà delle presenze previste. Le premesse per creare un altro successo ci sono tutte; ma con le aspettative che si sono alzate, la delusione per un eventuale fallimento può essere ancora più cocente.

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I rischi sono i soliti. Corruzione, appalti, bonifiche mai fatte o fatte male. Grandi aree hanno sempre stimolato ingenti appetiti, controlli farraginosi, mazzette. La storia di Expo insegna che le Cassandre in Italia non parlano quasi mai invano. Molta acqua è passata sotto i ponti rispetto a dieci anni fa. Milano ha saputo lanciarsi all’inseguimento delle migliori capitali europee. La città conosce un fermento e un vigore che non si registravano dal boom economico, ma augurarsi che tutto vada bene non basta. Bisogna stringere le maglie dei controlli per evitare che un patrimonio nazionale come quello del post Expo venga disperso. Milano, l’Italia, non possono permetterselo.

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Ex-poi? Un blog e una pagina per il dopo

Sembra l’uovo di Colombo, ma nessuno ci aveva ancora pensato. Ex-poi?, la domanda che da sei mesi aleggia tra i cancelli di Expo. Ce la siamo fatta tutti, ci abbiamo riso e scherzato, ma adesso è il momento della resa dei conti. Per questo ho creato, assieme ad altri, un blog e una pagina Facebook: per rimanere in contatto e cercare di fare rete senza perdere lo spirito dell’esposizione.

Sono convinto che le idee e lo stare assieme generino opportunità; nei mesi di Expo ho conosciuto tanta gente con storie personali incredibili che per un motivo o per l’altro è venuta a Milano a viversi il momento. Persone in grado di cambiare il mondo, per riprendere l’adagio di una vecchia pubblicità. E sono tutte lì. Provate a darci un’occhiata. E, se vi va, contattatemi per contribuire. Come minimo sarà un'(altra) bella esperienza.

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