Rifugiati alla Stazione Ovest di Varsavia
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Varsavia, la disperazione dei rifugiati

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La tensione, a Varsavia, si respira nell’aria. Fuori dalla stazione, per le vie del centro, ogni persona può essere un rifugiato. Ce ne sono di fronte ai cambiavalute, ai chioschi per strada. Che differenza con la periferia del Paese, le frontiere, dove i profughi arrivano a frotte, ma poi, altrettanto rapidamente, se ne vanno, portati via dai pullman dell’accoglienza.

La capitale polacca ricorda l’Italia dei primi tempi del Covid, l’”andrà tutto bene”, la solidarietà, gli applausi a mezzogiorno, le bandiere. Pareva dovesse durare in eterno, che fossimo destinati a grandi cose. Tutto finito nel giro di un paio di mesi. A pensarci adesso, ci si sente ridicoli per quei battimani convinti alle finestre, sguardi scambiati con vicini a cui non si è rivolta la parola per anni, l’idea che sì, da domani prenderemo un caffè assieme una volta ogni tanto, e chissà, magari nascerà un’amicizia. Infantile, ingenua pretesa di cambiare la natura umana. Che resta quella che è.

La Polonia è un paese in crescita rapida, rapidissima. La skyline del centro di Varsavia è meglio di quella di Milano. Torri altissime, vetro e acciaio, forme slanciate, architetture ardite. Uno sviluppo arrivato al prezzo di disuguaglianze, come sempre quando le cose accadono troppo in fretta. Agli yuppie incravattati, nelle città, fanno da contraltare tanti giovani insoddisfatti che tirano a campare.

La campagna è un altro mondo. Ferma, immutabile, ora e sempre, nei secoli dei secoli, amen. La corsa verso l’Urbe biancorossa, cioè la capitale, attira come miele chi spera di farcela, mentre in chi resta alla periferia dell’impero cresce la frustrazione. Villaggi in cui non c’è nulla, una chiesa, qualche venditore di kebab, catene di supermercatini da pochi spicci aperti tutto il giorno e pure una parte della notte. I ristoranti sono ben nascosti, quasi ci si vergognasse a uscire, sorta di retaggio contadino, perché sprecare soldi se puoi mangiare a casa? Le macchine incidentate in Italia, quelle vecchie, finiscono qui, portate da qualche meccanico che le rimette in sesto quel tanto che basta a fare i bulli in piazza. Le vedi sfrecciare, le vecchie Bmw polverose col motore truccato e la marmitta bucata, sgasano di fronte a quattro gatti su vie dimenticate. I segni della frustrazione.

In questo contrasto tra nuovo benessere, mediocri certezze e povertà si annida l’innesco della bomba destinata a esplodere nei prossimi mesi. La Polonia rischia di diventare la nuova Libia, torme di migranti passano i confini e stazionano in attesa di capire che fare. Ma chi li accoglierà? La politica del paese di primo approdo, che ben conosciamo, vuole che debbano restare qui. C’è chi, come Boris Johnson, fomenta la guerra, ma poi ne ha presi solo cinquanta (cinquanta). Chi, come Salvini, viene in Polonia col fiuto dello sciacallo. A incontrare “gli imprenditori italiani” per “fare il punto” e vedere come aiutare i profughi. Lui che chiudeva i porti.

Oggi lo zloty polacco ha segnato un record, ne servono cinque per un dollaro. L’inflazione sta arrivando. La crisi pure. La Polonia è un paese nazionalista, che non ama gli stranieri. È ben lieta, mi racconta un imprenditore che il Paese lo conosce bene, di cedere quote di libertà se chi è al governo garantisce pulizia e ordine. Quelli che accolgono sono avanguardie. È il momentum, c’è empatia. Gli altri, quelli contro, per ora stanno a guardare. Per loro non c’è dramma. La guerra è solo un noioso grattacapo. Guai a chi tocca il lavoro. Un film già scritto, e già visto. La soluzione sarebbe una redistribuzione che, al momento, non c’è. Questa sarà la prossima crisi europea. E sarà nelle città, non, come ci piace credere, ai confini.

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Una bella storia

Vasil, il nome è di fantasia, è un bambino ucraino di sette mesi nato a luglio con gravi malformazioni. La breve esistenza l’ha trascorsa tutta tra le mura di un ospedale di Cernivtsi, Ucraina, dove aveva già subito la prima di tre operazioni; ma lunedì scorso il nosocomio ha chiuso, e il piccolo si è trovato fuori, e con un drenaggio nel corpicino. I due interventi programmati sono saltati, rimandati a data da destinarsi; che, nel suo caso, avrebbe potuto significare mai.

La nonna di Vasil era stata badante di quella di mia moglie fino a marzo scorso, quando l’anziana è venuta a mancare.

S., si chiama così, si è fatta apprezzare nei lunghi pomeriggi e notti di chi fa il suo mestiere. Dietro ai modi bruschi si celava una persona di cuore, gran lavoratrice, sempre disponibile.

Dopo molti anni passati in Italia, nei mesi scorsi è finalmente tornata in Ucraina dalla figlia, vicino alla frontiera con la Romania.

Così, quando ha avuto bisogno di aiuto, ha provato a ricontattare la famiglia con cui (e sottolineo il “con”) aveva lavorato.

C’era la possibilità di far operare il bambino in Italia, ma prima bisognava tirarlo fuori dall’Ucraina.

Credete fosse difficile solo per la guerra? No. Provate a lasciare il vostro paese dove fino a due settimane fa andavate a prendere il caffè senza pensieri, a piantare in asso la vostra vita per andare in un altrove indefinito, incontro a un destino che non conoscete.

La faccio breve. La notizia l’abbiamo avuto venerdì; mia moglie – una che lavora 14 ore al giorno – ha passato il weekend al telefono. Ha raccontato la lunga storia scrivendo un testo in inglese in cui spiegava la gravità della situazione, che quel bambino doveva uscire ma non poteva sopportare i quindici chilometri di coda al gelo alla frontiera.

Il passaparola è servito. Tanti si sono offerti di dare una mano. La collega Paola Nurnberg, che si trova a Cernivtsi per la Radio Svizzera, si è spesa molto più di quanto ci saremmo aspettati.

Morale della favola, siamo riusciti a tirar fuori il bambino: nel pomeriggio di ieri Vasil è transitato a Siret, in Romania, dove è stato preso in consegna da un medico del Policlinico di Milano, lì come volontario, che ha organizzato il trasporto in Lombardia. All’ombra del Duomo il piccolo sarà operato.

In questa vicenda si sono intrecciati l’orgoglio, tenacia, la disperazione, la paura di lasciare i propri cari, la tentazione di accettare il destino come viene, lasciandosi vivere. Giulia non ha mai mollato, provando a convincere, e alla fine riuscendoci, madre e figlio a tentare. La nonna no: è rimasta a casa con l’anziana madre.

Ora comincia un capitolo nuovo, non facile; ma il piccolo, che ha conosciuto solo dolore, ha una speranza.

Viene da chiedersi con che criterio siano distribuite le fatiche in questa esistenza. La fede aiuta, forse, ad accettare. Ma le storie, più brutte di quello che possiamo immaginare, sono di fianco a noi. Così come la possibilità di fare qualcosa per cambiarne il corso.

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Il confine tra Polonia e Ucraina a Dolhobyczow
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Di là la guerra, di qua la calma

Di là la guerra, di qua la calma. Confine tra Polonia e Ucraina. Ci si arriva dopo decine di chilometri di pianure che devono essere coltivate a grano, terreno arato e nero. Si guida nel nulla, villaggi di poche case, nei giardini attrezzi da lavoro, materiale agricolo. Neanche un ristorante per ore, un caffè. L’unico luogo attorno a cui si vede gente sono le chiese, sparse.

La frontiera a Dolhobyczow è una bolgia. Donne, anziani e bambini. Gli uomini sono precettati, e devono restare di là. Valigie, peluche, buste di plastica. I volontari allestiscono banchetti, qualcuno accende un fuoco per scaldarsi. La polizia polacca osserva senza interferire. C’è un appendiabiti da negozio con i vestiti offerti dalla popolazione. E stanchezza, a cinquanta metri dalla frontiera, e dopo quindici chilometri di coda prima di passare il valico.

Ma, e forse è strano dirlo, le scene peggiori le abbiamo viste a Varsavia. In città. Quando l’adrenalina è scesa, e nell’immensa stazione i corpi di questi migranti biondi e dagli occhi chiari si gettano a terra e realizzano di essersi appena lasciati alle spalle, forse per sempre, la vita che conoscevano. E non sapere cosa fare nell’altra.

Vicino alla frontiera, l’abbraccio dei soccorritori è un rapido conforto, ricorda quello dei calciatori sostituiti, quando vengono ricoperti da giacconi termici prima di infilarsi nello spogliatoio. A chi arriva viene offerta una tazza di tè, dolciumi, pane, quello che c’è. Poco, forse, ma basta per prolungare la trance.

Ma è nell’ampio salone della stazione della capitale, sdraiati per terra, che capiscono di essere soli. Che il sostegno finirà, forse è già finito, nonostante le ong operino anche qui.

Il mare di cemento che si spalanca davanti, treni che hanno destinazioni sconosciute, personale che parla una lingua incomprensibile. Cellulari che non funzionano.

Non tutti hanno parenti, non tutti hanno le competenze che servono a trovarsi un lavoro. Molti parlano a malapena l’ucraino, figuriamoci l’inglese. E hanno solo le braccia, bestie da fatica alla mercè di chi potrà sfruttarli.

Basta poco a immaginare cosa accadrà. Si offriranno sul mercato per il venti, il trenta, a volte il cinquanta per cento in meno dei locali, e troveranno chi accetta di farli lavorare in nero. Sono già due milioni gli ucraini in Polonia: se ognuno porta due persone diventeranno sei, in un paese, la Polonia, che di abitanti ne conta quaranta milioni. E non ama gli stranieri. È una bomba ad orologeria. Chi fa assistenza si attende il peggio nei prossimi mesi. E il futuro lo sintetizza così: l’aiuto ai rifugiati sarà una maratona, non uno sprint.

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