Un anno alla Brexit
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Brexit a metà strada: il rischio per Londra è restare sola

 

Questto articolo è stato pubblicato originariamente su Londra, Italia

Un anno dall’avvio delle trattative, quasi due dal referendum. E dodici mesi esatti all’addio ufficiale fissato per il 29 marzo 2019. La Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione non è ancora avvenuta. Parliamo, allo stato dei fatti, di una eventualità probabile ma non ancora certa. Ma le ricorrenze  simboliche offrono lo spunto per  qualche valutazione.

E’ stato un errore votare Leave e orchestrare una campagna per allargare la Manica? Nigel Farage e Boris Johnson risponderebbero che no, non lo è stato.  Ma tipi come Farage e Johnson sono pronti a negare l’evidenza. E, mancando la controprova, trovano sempre qualcuno disposto a dar loro credito.

I numeri, pur non essendo catastrofici, non depongono a favore dell’esito elettorale: l’economia tiene, ma su una curva più bassa rispetto al passato. La sterlina non è risalita, e le aziende straniere continuano a portare via da Londra i propri uffici, giocando d’anticipo. I fondi europei che verranno a mancare aiutavano proprio le campagne, i territori che si sono dimostrati più ostili a Bruxelles.  Nessuno ha spiegato quale sia il piano adesso, ammesso che esista.

La verità è che nessuno si aspettava la Brexit (52% degli elettori a favore in occasione del referendum del 23 giugno 2016): la vittoria del Leave ha sorpreso persino gli stessi promotori.

Non  se la aspettava David Cameron, che concesse il referendum – pensando di vincerlo – per mantenere un’avventata promessa elettorale. Con le stelle all’alba, tramontò la sua carriera politica.

Non se lo aspettava Nigel Farage, che pensò bene di fare un passo indietro all’indomani del successo: perché un conto è desiderare l’impensabile, e un conto è ottenerlo.

Non se lo aspettava nemmeno Theresa May, che, da sostenitrice del Remain, si trovò a gestire la transizione ripetendo il mantra “Brexit means Brexit“.

Non se lo aspettava nessuno, e invece è accaduto. Come è stato possibile?

La causa sta nel grave errore politico di Cameron, che concesse la consultazione. L’ex premier mostrò qui tutta la propria inesperienza. L’uso disinvolto dei media –  vi dice niente Cambridge Analytica?  – , le fake news e le campagne di stampa orchetrate da politici senza scrupoli e più interessati al proprio tornaconto che all’interesse nazionale fecero il resto.

Si parla di  rispettare la volontà del popolo: ma le questioni di geopolitica sono, da sempre, gestite dai governi, al limite dai sovrani, e mai dal demos; quando si ricorre ai plebisciti, agganciandoli al diritto all’autodeterminazione dei popoli, lo si fa per conflitti di matrice etnica, religiosa, e sempre con maggioranze di ben altra portata. Nel caso della Gran Bretagna, che,  pearaltro, in seno all’UE ha sempre goduto di amplissima autonomia, è stato il 2% dei voti a risultare determinante.

Ma il caso della spia russa avvelenata sul suolo britannico – con ogni probabilità su mandato del Cremlino – ha mostrato a Londra cosa significa rischiare di restare isolati.

In un contesto europeo, la solidarietà ai britannici sarebbe stata scontata e doverosa. Oggi non lo è più. E’ una questione di buoni o cattivi rapporti; insomma, di interesse. E’ arrivata, certo, ma grazie al lavoro sottotraccia dei funzionari; e chi la ha mostrata, lo ha fatto in primis per indebolire il leader russo Putin, tornato prepotentemente sullo scenario globale.

Sessantacinque milioni di abitanti, poche risorse naturali, un’economia basata essenzialmente su servizi. Il Regno Unito è esposto al vento. Poco interessante per l’America, poco interessante per l’Europa.  Per dirla con gli economisti, ciò che prima era gratis, oggi ha un prezzo, e vedremo quale.

A Brexit avvenuta, Londra dovrà reinventarsi un ruolo e uno status che, una volta fuori dall’UE, non avrà più. Potrebbe volerci molto tempo. Potrebbe anche non accadere mai.

La politica internazionale in un mondo multipolare funziona ancora – piaccia o meno – come ai tempi del Congresso di Vienna. Un gioco di diplomazie. E non si decide mai esclusivamente in base ai dati economici; si agisce, piuttosto, guardando agli interessi di potenza, che a volte impongono di rinunciare a benefici immediati per ottenere sicurezza a lungo termine. Spiegare questo ai cittadini infiammati dalla propaganda pro-Brexit era obiettivamente impossibile. Ecco perché quella di farli votare è stata la scelta sbagliata.

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Londra città-stato? Improbabili suggestioni

Londra città-stato? Improbabili suggestioni che dimostrano, una volta di più, quanto in riva al Tamigi si sa da sempre: la Brexit è stata un errore, e il paese sconta l’ambizione politica di David Cameron. Quella che gli fece promettere un referendum su una questione strategica per l’interesse nazionale. Convinto di vincere, perse.

Per entrare in Europa il Regno Unito impiegò 20 anni. Per uscirne, una notte: e ora che i termini previsti per separarsi dal Continente (entro marzo 2019) stanno stringendo, è arrivato il momento di prendere decisioni difficili, come evidenzia bene in chiusura il collega del Corriere. Qui il link al pezzo del quotidiano milanese.

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Dal Prosecco al Times: il vizio del buon giornalismo

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Londra,Italia. 

Più dei diplomatici potè il prosecco. Che le interminabili discussioni sulla Brexit nelle stanze del potere siano in stallo lo sanno tutti, ma nessuno lo dice. In questo mare magnum di informazioni spesso inutili e dichiarazioni di facciata entra in gioco il buon giornalismo, quello che interpreta e non si limita a riportare i fatti. E qualche volta trova la chiave giusta. La guerra, ormai, è anche commerciale.

La lettura che Londra, Italia ha dato di una vicenda a dir poco singolare come quella del Prosecco nostrano (che secondo un Carneade dell’odontoiatria inglese rovinerebbe i denti) ha fatto scuola: molti nell’ambiente pensano si tratti di una campagna denigratoria, strumentale e giocata ai limiti – per non dire al di fuori – del regolamento, simile a quella contro l’olio di palma.

L’editoriale del nostro direttore a difesa di un prodotto che ha saputo conquistare il cuore tiepido degli inglesi è stato il classico sassolino scagliato dalla fionda di Davide contro Golia.  E invece, di blog in blog, di testata in testata, il passaparola ha coinvolto i più alti vertici istituzionali.

La prima pagina del Times di venerdì 1 settembre con l’articolo che cita Londra, Italia

Il nostro giornale è letto, ” fa opinione a Londra“, e viene spesso ripreso in patria. Però se a seguirci è addirittura il Times con un bel pezzo in taglio basso, lo prendiamo come motivo di soddisfazione (qui il link alla versione online).

Londra, Italia ha quasi tre anni. Un bambino a quell’età comincia ad articolare frasi. Dai primi vagiti, alle parole, giorno dopo giorno tenta di costruire il linguaggio e la propria identità attraverso l’interazione con il mondo. Un giornale funziona allo stesso modo.

Chi comincia un’avventura editoriale ha un’idea, ma deve confrontarsi con la realtà, con le risorse, con i vincoli di bilancio. Nel nostro caso, anche con la tendenza a rinchiudersi di chi vive all’estero. Noi non l’abbiamo fatto. Londra, Italia è fatto da persone che vogliono innanzitutto fornire un servizio: quello di interpretare la realtà che gli expat vivono, quotidianamente.

E’ nato da loro e per loro, e chi ci scrive sa bene che il nostro Paese è criticato, odiato talvolta, ma sempre rimpianto. Non ha commesso l’errore di costruire una torre d’avorio. Al contrario, è probabilmente l’unica realtà ad aver creato e sempre mantenuto un legame forte con la Penisola. Molti di noi viaggiano ogni mese tra Stansted e Bergamo, tra Heatrow e Fiumicino, vivono in UK ma ragionano come se avessero due patrie: Londra, Italia ne tiene conto.

Un giornale, due paesi. L’Europa si sta formando nella quotidianità prima che nei palazzi. Per molti esiste sul serio, e da tempo. Sono quelli che viaggiano, emigrati per  lavoro e non per piacere, quelli che non hanno paura di ammettere che tornerebbero, un giorno, se ve ne fossero le condizioni. E’ a loro che ci rivolgiamo. E sono molti. Sarà per questo che, a noi, la Brexit non piace. E se anche il Times è dalla nostra, allora, dopo tre anni, è il caso di brindare. Con una bottiglia di Valdobbiadene, ovvio.

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Un anno di Brexit. Da May a Cameron, la Gran Bretagna in cerca di leader

Questo articolo è stato pubblicato sul Londra, Italia il 23 giugno 2017. 

Era la fine del primo decennio Duemila. David Cameron veniva salutato come un leader giovane, ecologista, innovatore. Il paese che Tony Blair si trovò a governare nel 1997 era depresso, svogliato: aveva completato la transizione da economia industriale a economia di servizi, ma sul campo erano rimaste le teste dei tanti a cui il passaggio non era riuscito. Il miracolo riuscì, invece, almeno sulla carta, al leader laburista.

Cool Britannia la chiamavano. Ed attirava, in effetti. Non solo l’ora del tè e il Sunday roast: una comunità giovane, globale e aperta al futuro, che prende il meglio di quello che il mondo può offrire. Ma mentre a Londra si brindava a champagne nei salotti della finanza e si ascoltava il Britpop di Oasis e Blur, nelle regioni dimenticate del Nord le fabbriche di posate e le miniere chiudevano una dopo l’altra. Era la finanziarizzazione dell’economia. Calici al cielo, soldi che passano di mano in mano e creano altri soldi, e (in teoria) il benessere si sarebbe diffuso a pioggia. Col senno di poi, facile prevedere che la bolla sarebbe esplosa.

Nel 2007 arriva la crisi. Non solo. Nel pacchetto Blair era compresa una guerra, quella in Iraq, combattuta al seguito di Bush sulla base di premesse rivelatesi false; la gente era stufa di perdere soldi e soldati in un conflitto percepito come distante e inutile. E’ in questo clima da post sbornia che Cameron, il leader bambino, studente dei migliori college inglesi come da tradizione, vince le elezioni nel 2010 e porta a termine il primo mandato.

Era atteso con speranza, si dimostra un leader senza qualità. L’atto che pone termine alla sua carriera politica a nemmeno 50 anni è il referendum che trascina la Gran Bretagna fuori dall’Unione Europea esattamente dodici mesi fa. Indetto per guadagnare consensi e quasi per gioco, diventa un affare tremendamente serio quando la gente vota per lasciare Bruxelles. Che, oltre agli immigrati, portava anche soldi, tanti, ripartiti tra aiuti alle regioni depresse del paese e la possibilità di accedere a un mercato unico e ricco per i tanti servizi e le poche merci britanniche.

Brexit un anno dopo: successo o scelta avventata?

Brexit un anno dopo: successo o scelta avventata?

In quel frangente nasce la meteora di Theresa May. Ministro dell’Interno per sei anni, tiepida sostenitrice del Remain, la signora ha finalmente la grande occasione. Carriera cominciata negli anni Settanta, un marito attaccapanni, più che spalla, May accetta l’incarico come una missione e opera un’inversione a U, trasformandosi in paladina dell’uscita. “Getting the job done“, portare a termine l’incarico, quale che sia, senza farsi domande. Si sciolse in lacrime all’elezione della Thatcher, avrebbe voluto essere lei la prima inquilina al numero 10 di Downing Street. Ora ha l’opportunità di entrare nella Storia dalla porta principale.

Un aplomb altero, la consapevolezza malcelata che la Gran Bretagna post-imperiale non è mai stata un’isola ma un crocevia di relazioni, interessi e soft power, sin da principio non attira simpatie, in patria e all’estero.

Brexit means Brexit“: con questa salsa il primo ministro condiva i primi discorsi e rispondeva a chi chiedeva se, davvero, a Londra fossero sicuri di lasciare un’Unione che già garantiva ampie autonomie. E che, soprattutto, forniva sussidi, non solo costi. La replica era gelida. Gli eredi di quello che fu uno degli imperi più potenti della Storia non hanno paura di affrontare il futuro a viso aperto.

Preoccupata di passare alla Storia più che dell’ordinaria amministrazione, la premier, però, dimentica il fronte interno. La Brexit aveva perso a Londra, ma trionfato nelle periferie del Regno, dove i Leavers  avevano convinto la working class che la colpa di tutti i mali stava a Bruxelles. Immigrazione, attentati, abuso dei sussidi, ospedali al collasso: tutto nello stesso calderone. Quello del 2016 diventa un voto di protesta legato alle condizioni precarie dei molti stanchi di sentirsi raccontare che tutto va bene mentre guardano, col piatto vuoto, la dolce vita della capitale.

Nessuno tra i Conservatori pensa a come avrebbero reagito le masse all’aumento delle tasse universitarie e a manovre come la “dementia tax quando si decide di convocare nuove elezioni per “rafforzare il mandato” in vista di una hard Brexit che comincia a profilarsi problematica e piena di incognite.

E’ un errore. La premier incassa una vittoria monca: sei ministri non vengono rieletti, e, da una maggioranza sicura, i Conservatori si trovano nella necessità di cercare il sostegno del DUP (il Democratic Unionist Party nordirlandese)  per governare. Compagine locale, decisa a recitare fino in fondo il ruolo di veto player – quelle forze politiche il cui unico capitale è la possibilità di dire no – il loro sostegno costa caro.

Il resto è storia di questi giorni. Theresa May prova a formare un governo di scopo per la Brexit, le cui trattative hanno preso il via una settimana fa. L’Unione, dal canto suo, ringalluzzita dai recenti successi elettorali in Olanda e nella Francia di Macron, si mostra compatta. A Londra si comincia a pensare che la strategia massimalista (“No deal is better than a bad deal“, l’ennesimo slogan) non sia più perseguibile. Che qualcuno  a Downing Street abbia pensato a un’alternativa in questi dodici mesi è, però, tutto da dimostrare.

Antonio Piemontese
@apiemontese

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May dalla Regina, probabile accordo con il DUP

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Londra,Italia il 9 giugno 2017.

“L’alternativa a Theresa May è intollerabile”. Con queste parole, il Partito Democratico Unionista (DUP), formazione nordirlandese, apre la porta alla possibilità di sostenere un esecutivo guidato dall’attuale primo ministro. Sospiro di sollievo per l’inquilina di Downing Street, che rischia di abbandonare la carica dopo aver consumato il mandato più breve dagli anni Venti. Roba comune alle nostre latitudini, ma che Oltremanica fa un certo effetto.

Ma non si tratta di una situazione facile. Con la maggioranza assoluta dei seggi, necessaria per governare, fissa a quota 326 seggi, i 318 collegi vinti dai Tories non bastano. L’alleanza con il DUP garantirebbe altri dieci seggi: appena due sopra la quota di stallo. Significa che qualsiasi provvedimento sarebbe esposto al fuoco amico dei franchi tiratori, che non mancano soprattutto sui temi legati alla Brexit, e le questioni sociali. Il rischio è la paralisi decisionale. Il contrario di quello per cui il modello parlamentare inglese, il “modello Westminster”, è progettato.

Del resto, il costo politico di un accordo con il DUP potrebbe essere molto alto. Il partito rappresenterebbe un veto player in grado di condizionare qualsiasi decisione, con appena dieci deputati eletti, per di più localizzati in Irlanda del Nord.  May rischia di trasformarsi in un manichino.

La premier si è recata a Buckingham Palace attorno a mezzogiorno per incontrare la Regina e confermarle la possibilità di restare in carica.

La leader ha deciso di provare a restare in sella nonostante la scelta di convocare elezioni politiche per “rafforzare il mandato sulla Brexit” e fornire al Paese “un governo forte e stabile”si sia rivelata fallimentare. La maggioranza assoluta dei seggi ottenuta da David Cameron nel 2015, che secondo i calcoli dei conservatori avrebbe dovuto aumentare, è evaporata sotto il sole di giugno. Sei ministri non sono stati rieletti e un altro ha mantenuto il proprio collegio con un distacco di appena 300 voti.

Non è stato il tema della Brexit  a smuovere il consenso, quanto, piuttosto, le questioni di politica interna come l’aumento delle tasse scolastiche e la cosiddetta “dementia tax”, che ha allarmato molti cittadini anziani.

La politica internazionale, considerata un tema prioritario dallo staff conservatore, si è rivelata meno interessante del previsto per gli elettori, preoccupati di tirare avanti. A conti fatti, la Brexit era stata votata proprio da chi temeva la concorrenza dei lavoratori stranieri e ulteriori ristrettezze.

Jeremy Corbyn esulta. Un passato (e forse anche un presente) socialista, il leader laburista ha saputo recuperare combattendo la propria battaglia punto su punto e spostando l’asse del partito a sinistra. Se il tentativo di May di formare un governo dovesse fallire, toccherebbe a lui provare a imbastire un esecutivo di minoranza capace di incassare il voto dei Lib Dem e dello Scottish National Party di Nicola Sturgeon su singole questioni. Non certo un governo di prospettiva, ma un modo per superare un impasse che ricorda molto da vicino quello che si è verificato in Italia nel 2013.

Dal canto loro, i Lib Dem hanno già detto di non voler fare alleanze.

In UK manca una Costituzione scritta che preveda norme su come uscire dall’impasse. Ci si affida a consuetudini consolidate e al buonsenso. Non è esclusa la possibilità di nuove elezioni, ma non a breve termine.  Per gestire il momentum, si parlerebbe a questo punto di un esecutivo di scopo per gestire l’ordinaria amminisitrazione, che nel Regno Unito, ora, significa l’apertura delle trattative per la Brexit, fissata per  il 19 giugno. L’Unione Europea potrebbe, se richiesto, concedere una proroga.

Ciò che appare certo è che la May non mollerà facilmente. E che sembra sempre più innamorata di se stessa e del proprio sogno di essere ricordata come statista. Hubrys.

Antonio Piemontese
@apiemontese

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Morire di disperazione a Londra

“Testa in giù, contorni a rovescio/ disperazione in heavy rotation/Londra dov’è/Forse non c’è” cantavano i Negrita nel 2005, smontando in anticipo il sogno di quanti sarebbero andati nel Regno Unito a cercare gloria negli anni a venire. Il pezzo si chiamava “Greta” e raccontava la storia di una ragazza che non ce l’aveva fatta.

Londra, per molti, è un punto d’arrivo, ma sarebbe meglio considerarla un punto di partenza. Bastano pochi giorni qui per capire  quanto la capitale inglese sappia essere spietata. Di fianco alla ricchezza e al lusso sfrenato degli arabi, dei russi e dei finanzieri convive la miseria dei disperati impiegati nelle decine di migliaia di ristoranti, caffè, pizzerie, lavanderie, musei, parrucchieri, supermercati della capitale.

Con un salario di 6.50 sterline all’ora si lavora, se va bene, 50 ore a settimana, spesso lontano dall’abitazione,  e solo per sopravvivere. 450 vanno per l’affitto, poi c’è l’abbonamento ai mezzi, le bollette, i vestiti, il cellulare per comunicare. Il freddo dell’inverno, il riscaldamento, la corrente.

Non conosco la storia di Benedetta, una ragazza ligure di 19 anni venuta qui per imparare l’inglese. Nulla so delle sue motivazioni, delle sue condizioni di salute.  Quello che so lo apprendo da una notizia del Corriere:   “Non riusciamo a seguire tutti i decessi” ha risposto il consolato al padre. Perché Benedetta, qui, a Londra, ci è morta. Un’altra storia tragica.

Chissà cosa pensava. Forse, come tanti, voleva cambiare vita, forse, come tanti, si è lasciata massacrare giorno dopo giorno da turni infernali di da 12 ore, col terrore di essere licenziati o di ammalarsi, perché non c’è tempo per andare dal medico. Ammesso che un dottore si riesca a vederlo. C’è chi offre visite nello stesso giorno con un medico di base per 75 sterline. Il claim recita: “Non hai tempo di ammalarti? Ecco il servizio per te”.  Capirai.

Addio chiamate svogliate a casa, ogni contatto è prezioso, ogni abbraccio virtuale dei parenti o di un amico è una boccata di ossigeno. Addio choosyness: qui ci si adatta, e si lotta per sopravvivere nella guerra di tutti contri tutti. Non c’è posto per la pietà, tra i sedili della Tube.

No, Londra non è cambiata.

Due anni e ora l’ho vista, finalmente, da turista, dopo averci lavorato come tanti in passato.

Ero uno di quelli che cercavano di sbarcare il lunario con due o tre lavori, tanta fatica ma buoni solo per sopravvivere.

Dei suicidi, per convenzione, sui media non si parla. Poco prima di andarmene, era il 2015,  una fonte ben informata mi raccontò quello che non si dice mai. L’ambasciata italiana – o il consolato, non ricordo, ma fa lo stesso –  ha stipulato un accordo con una compagnia aerea (probabilmente – ma usiamo i condizionali del caso – quella di bandiera),  per rimpatriare le salme dei connazionali che muoiono in questa maledetta città. Le bare vengono imbarcate con discrezione sui voli di linea. Non lo sapete, ma viaggiate con un morto nella stiva. I casi di suicidio, del resto, si contano a decine l’anno.  Difficile organizzare trasferimenti privati. Gente disperata, ragazzi, adulti, uomini e donne fatti che,  invece, semplicemente, non ce l’hanno fatta, e non mollano per paura di tornare a mani vuote da quello che doveva essere il paradiso. Perché, è vero, alcuni ce la fanno. Ma chi?

Ci sarebbe molto da dire al riguardo, soprattutto pensando a quanto affermiamo sugli immigrati che sbarcano a Lampedusa. Qui, nella civile Inghilterra, siamo nella stessa situazione, forse messi peggio. Ce la fa chi ha un lavoro prima di sbarcare a Stansted, chi guadagna migliaia di sterline, e ne spende altrettante per mantenere un tenore di vita accettabile, chi non passa quattro ore al giorno sui mezzi di una città in cui puoi guidare per cinque ore da nord a sud senza vederne la fine, campagne e grattacieli che scorrono dai finestrini. Gli altri cercano di non morire, e di andarsene.

Scrivo dalla City, da Southwark. Di fronte a me ho St Paul, Westminster, il London Eye, i traghetti che portano in giro i visitatori. Sono seduto e guardo questo Tamigi di un marrone torbido, discarica di tutte le lacrime e i veleni di chi è venuto in cerca di speranza.

Questa volta ho alloggiato a Canary Wharf, la nuova zona finanziaria, in uno splendido hotel. E’ passato molto tempo. Ma ogni volta che apro il rubinetto, ricordo i tempi in cui rientravo in casa a notte fonda e non avevo luce e acqua calda per lavarmi, per il semplice fatto che nessuno, nell’appartamento,  aveva soldi per pagare le bollette. Quando finiva il credito del contatore, beh, era finito.

Ogni volta che tiro fuori una carta di credito per pagare un caffè penso a quando  mi riempivo di Digestive (sono biscotti) alla mattina per tirare fino a notte fonda, quando mi sarei fiondato in un supermercato aperto 24 ore che mi avrebbe dato la mia dose quotidiana di junk food a buon mercato. Not healthy, at all.

Oggi sono uno dei tanti turisti che sorseggiano una birra in un pub. Ma non è sempre stato così. Chi non lo ha passato non sa quanto si possa invidiare, e persino odiare, chi ha quattro soldi da spendere per un panino, e un po’ di tempo per godersi uno delle centinaia di musei, gallerie, teatri della città. Io, assieme a milioni di altre persone, ai tempi non l’ho mai fatto. Se devi sopravvivere, il giorno di riposo lo passi a casa. A letto, con le ossa rotte.

No, Londra non è cambiata.  Una città che funziona grazie all’autista di bus pakistano, a quello di Uber che è albanese, alla security di Marks and Spencer che è serba, all’idraulico polacco, alla nanny turca, e, of course, al barista italiano che prepara 1.500 caffè al giorno, sapendo che c’è la fila per prendere il suo posto.

Manca il tempo. Quello per vivere, per cercare un altro lavoro, per studiare e prendere un diploma inglese, che  garantisce salari più alti. Mancano gli amici, che sono pochi, e tutti immigrati come te.

E si, conosco bene la sensazione di chi non vuole tornare a casa a mani vuote, e magari qui ci crepa. O magari, di tornare non può permetterselo. Provate a prenotare un volo. Se non lo fai con mesi di anticipo costa centinaia di sterline. Sei, letteralmente, bloccato qui. L’ambasciata fa quel che può , il Progetto primo approdo, le conferenze per spiegare come si cerca lavoro, come rifarsi il cv. Ma la verità è che dovrebbero raccontare, con il consenso dei familiari, le storie di quelli che sono venuti a Londra e ci sono crepati come cani, magari gettandosi nelle acque  rancide di questo fiume malato, tra liquami intrisi di cocaina e la disperazione putrefatta dei cadaveri degli invisibili che nessuno cercherà mai.

Questa è Londra, signori. Andate e raccontatelo.

@apiemontese

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Brexit, May annuncia elezioni a luglio

Theresa May annuncia nuove elezioni a luglio in Uk, “per avere un mandato più ampio sulla Brexit”. E se, questa volta, vincesse il Remain? Il popolo dà, il popolo toglie, volontà popolare rispettata e niente uscita dalla Ue, con un Parlamento in grado di assumersi la responsabilità di ratificare questa inversione di rotta . In pratica, sarebbe l’unico modo per uscirne puliti, rimediare all’errore di Cameron e restare nel mercato comune. Se i britannici ieri, poco informati e blanditi dai populisti, hanno scelto in maniera inconsapevole, questa volta lo faranno a ragion veduta, dopo un anno di dibattito sui media, senza la pressione della campagna elettorale e dopo aver intravisto le conseguenze. Senza contare che il Leave vinse di pochissimo, e se quel giorno su Londra e, dintorni non si fosse abbattuto uno dei peggiori nubifragi degli ultimi anni, probabilmente lo scarto sarebbe stato ancora minore, poche decine di migliaia di voti. Pochi, per una decisione che cambia la storia. Resta da vedere che posizione assumeranno i partiti, dato che gli schieramenti erano trasversali già nel 2016. Stiamo a vedere. A me sembra una buona notizia.

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