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Gaza, tre punti fermi

“Per favore, basta con le donazioni in denaro” dice Maha Hussaini, giornalista e attivista palestinese. “Il soldi a Gaza sono inutili dal momento che non c’è niente da comprare nei supermercati” afferma postando la foto di uno scaffale vuoto. Intanto i medici locali rispondono ai colleghi israeliani che avevano affermato in una lettera che bombardare l’ospedale di al-Shifa, il più grande centro medico di Gaza, fosse un “diritto legittimo”. “Avete tradito la vostra nobile professione e ne portate la responsabilità” scrivono. “Come medici siamo ambasciatori di pace”.

A un mese dallo scoppio delle ostilità, la domanda è: come se ne esce? Forse le parole più sensate che ho letto finora sulla guerra Israele – Hamas sono di Stefano Mannoni (giurista dell’Università di Firenze), pubblicate da Milano Finanza.

Il conflitto ha già fatto oltre diecimila morti palestinesi (molte migliaia sono bambini, come sottolineava il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres). Croci che vanno aggiunte alle 1.400 vittime israeliane dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, e sommate ai feriti, alle devastazioni, ai traumi psicologici che ci porteremo dietro a lungo.

“[….] A mio parere – scrive Mannoni – ne discendono un certo numero di conseguenze. La prima è che gli abitanti di Gaza sono le prime vittime di Hamas e non possono pertanto diventarlo due volte – siamo arrivati a 10.000 morti dichiarati – per la sistematica violazione da parte delle forze armate israeliane dei più basici principi di necessità e proporzionalità sanciti dal diritto internazionale umanitario. La punizione collettiva inflitta ai civili, che comincia a innervosire anche gli americani, deve cessare. Si chiamino pure «pause umanitarie», ma esse devono essere implementate con tutto ciò che ne consegue in termini di approvvigionamento della popolazione. […]

In secondo luogo Benjamin Netanyahu, che aveva posto come punto programmatico del suo governo l’affermazione della sovranità israeliana su «Giudea e Samaria» (sic! Tradotto: Cisgiordania occupata) si deve dimettere insieme ai ministri etnoreligiosi che ha imbarcato nel gabinetto, Ben-Gvir e Smotrich.

Terzo, è necessario immaginare un mandato fiduciario delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea su Gaza e Cisgiordania, strettamente temporaneo, per realizzare quello che si chiama lo State building in aree nelle quali le inadeguate dirigenze palestinesi hanno dilapidato fiumi di denaro in corruzione e armi.

Solo a queste condizioni, la soluzione dei due Stati, rispolverata dal cassetto dopo due decenni di oblio, può sperare di piantare qualche radice profonda”.

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Guterres: “Gli attacchi di Hamas non nascono dal nulla”

“Gli attacchi di Hamas non nascono dal nulla. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione”. Mentre l’Europa e Ursula von der Layen latitano e si accodano agli americani nel sostegno incondizionato alla vendetta di Israele contro Hamas (dal momento che Bruxelles conta nulla a livello internazionale, difficile aspettarsi altrimenti; stupisce però lo zelo della tedesca), il segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres, noto per le prese di posizione audaci contro il greenwashing di multinazionali e finanza, apre la riunione del Consiglio di sicurezza dedicata al Medio Oriente con l’unica dichiarazione di buonsenso giunta da un grande leader internazionale in tre settimane. Parole che inquadrano l’accaduto in una cornice storica, senza cedere all’emotività e alla retorica.

“Le sofferenze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas” ha precisato però Guterres.

Che ha aggiunto come “i terribili attacchi” di Hamas “non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese”, parlando di “chiare violazioni del diritto umanitario” a Gaza. Guterres ha chiesto un cessate il fuoco “immediato” per alleviare la “sofferenza epica” della popolazione di Gaza. “Nessuna parte in conflitto è al di sopra del diritto internazionale umanitario”.

L’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, Gilad Erdan, ha replicato al numero uno dell’Onu, ne ha chiesto le dimissioni.

#israele#gaza#hamas

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esteri, unione europea

Su Israele “l’UE rischia di perdere ogni credibilità”: lettera dei dipendenti a von der Leyen

Ottocentocinquanta dipendenti delle istituzioni europee (su circa trentaduemila) hanno firmato una lettera indirizzata a Ursula von der Leyen che ne critica il “sostegno incondizionato” a Israele. La notizia è stata riportata da Euractiv. Si tratta di un atto insolito, perché a Bruxelles il personale è abituato a girare tra dipartimenti e uffici nel corso di una carriera che resta ambita, ed è, pertanti, attento a costruirsi un percorso in grado di adattarsi agli inevitabili cambi di vento. Non questa volta.

“In particolare, siamo preoccupati dal supporto incoindizionato della Commissione europea che lei rappresenta per una delle due parti” si legge. “Noi, un gruppo di dipendenti della Commissione e altre istituzioni Ue, condanniamo solennemente su base personale l’attacco terroristico perpetrato da Hamas contro civili inermi […] Ma condanniamo ugualmente e con forza la reazione sproporzionata del governo israeliano contro i 2,3 milioni di civili  palestinesi intrappolati nella striscia di Gaza”. “Proprio per via di queste atrocità, siamo sorpresi dalla posizione presa dalla Commissione europea – e anche da altre istituzioni – che hanno promosso quella che sulla stampa è stata descritta come ‘cacofonia europea’ “. I firmatari si dichiarano preoccupati per “l’apparente indifferenza dimostrata nei giorni scorsi dall’istituzione nei confronti del massacro di civili a Gaza, in violazione dei diritti umani e delle leggi umanitarie internazionali”.

Nei giorni scorsi era arrivato il dietrofront della Commissione dopo che il commissario ungherese all’allargamento Oliver Varhely aveva annunciato che l’esecutivo di Bruxelles avrebbe tagliato “tutti gli aiuti” ai Palestinesi, generando la reazione delle altre entità politiche comuni – la posizione dell’Unione viene espressa dal Consiglio, cioè dagli Stati membri, e le sfumature sono parecchie. “Vi invitiamo con urgenza a invocare, assieme coi leader di tutti gli Stati [membri], un cessate il fuoco e la protezione della vita dei civili. Questo è il cuore dell’esistenza europea” hanno aggiunto i firmatari. “L’Europa rischia di perdere ogni credibilità”.

Sabato 22 ottobre un summit per la pace organizzato al Cairo si è concluso senza una dichiarazione finale: il blocco occidentale chiedeva di inserire nel testo solo un riferimento all’attacco di Hamas, senza menzionare i raid israeliani su Gaza. L’opposizione degli altri partecipanti ha portato il vertice a chiudersi con un nulla di fatto.

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Il Dio della vendetta

Sembrano ultras di una nazionale di calcio dopo la vittoria inaspettata di un mondiale. Sfilano per le strade su pickup Toyota con i corpi dei nemici a bordo, vivi o morti fa poca differenza. Esultano, fucile in braccio, tra la folla urlante, che li riprende col telefonino, uomini, donne, ragazzini in maglietta col cappellino Nike girato. Perché, come spesso capita, non hai l’acqua, ma il gadegt firmato sì, quello che ti illude di essere un po’ come loro, e in realtà scava goccia a goccia il fossato della consapevolezza: come loro, quelli dall’altra parte del muro, coi bei vestiti, le belle scuole, il lavoro alla moda, non lo sarai mai. Invece degli slogan legati al pallone, sbraitano Allahu Akbar; e dalla frequenza ossessiva, completamente avulsa dal contesto, dal tono rabbioso, dalla pronuncia sguaiata, capisci che in chi urla non è presente alcuna di elaborazione; è sfogo primordiale, è isteria collettiva, è nevrosi, forse transitoria psicosi. Distacco dalla realtà, quando è la personalità della massa a prendere il posto dell’individuo; un animale che si nutre degli istinti più bassi, istintivamente consapevole che la folla protegge, la folla esalta, la folla innalza e dà forza. La folla vendica il sangue col sangue.

La vendetta di Israele calerà come una scure biblica. Senza pietà. Senza distinguo. Il Dio – ma dov’è Dio, oggi? – rabbioso del Vecchio Testamento arma la mano dei figli di Davide, e vendicherà i morti.

Nessuno può giustificare la violenza brutale di Hamas, di cui sono piene le immagini dei notiziari di questi giorni. Ma chiediamoci se ha senso reagire allo stesso modo, fino a che punto ci si può spingere per vendicare i propri morti quando si è uno Stato civile e non un’organizzazione paramilitare. Qual è la differenza? Se una differenza c’è.

I falchi dicono che gli arabi, quegli arabi, non capiscono altro linguaggio che quello brutale della forza. Senz’altro i terroristi che hanno invaso Israele uccidendo e gettando granate persino in fondo ai bunker dove la gente si era rifugiata in cerca di riparo erano bestie senza legge: come quelli dell’11 settembre, come quelli del Bataclan, raccontati da Emmanuel Carrere nelll’ultimo libro mentre erano alla sbarra in un tribunale parigino.

Il punto è forse proprio questo. Uno Stato civile fa processi. Reagire con violenza pari o superiore all’affronto per ripristinare la deterrenza ha senso? Si può realmente sperare che una popolazione disperata, affamata, senza acqua, costretta a vivere schiacciata in pochi chilometri quadrati, possa cambiare idea?

Senza voler scomodare la filosofia morale, un mero e cinico calcolo politico dovrebbe suggerire il contrario.

Il terrore è mancanza di elaborazione, è paura, assenza di appigli, di speranza in un futuro; si stanno allevando due milioni di persone pronte a tutto, a ridere sul cadavere di un uomo martoriato, a farsi saltare in aria, ad attraversare il confine in deltaplano a motore per non perdersi l’assalto, scena tra le più comiche tra quelle viste nei conflitti di ogni tempo.

Io penso che la gente di Israele e Palestina abbia governanti peggiori di quelli che si merita. Governanti che non sono in grado di proteggerla se non facendo abbaiare le armi. Ma Israele è uno Stato compiuto, dove esiste un dibattito pubblico, è una democrazia in grado di tollerare anche le – e non mancano – voci dissenzienti. A Gaza tutto questo non c’è. Parliamo di una società regredita a connotazioni tribali. E spinta sempre un passo più indietro. Reagire in questo modo è un suicidio, un veleno distillato a gocce. Ogni giorno che passa è un anno in più di guerra futura, un anno in più di insicurezza. Il diritto ha superato la legge del taglione dei tempi di Hammurabi. I crimini di guerra sono tali anche se commessi per reazione. Che la comunità internazionale intervenga, una buona volta, se l’Onu, che di questo scempio è responsabile, serve a qualcosa.

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A tre ore da Mosca

Un dettaglio. Prighozin è arrivato a duecento chilometri da Mosca in meno di 24 ore. Può succedere perché non ci sono barriere fisiche a difendere la capitale, solo una sterminata pianura. Questo spiega l’ossessione, sempiterna, di Mosca per il confine occidentale. Inutile ribadire quanto l’invasione di Putin sia stata criminale. Ma , se c’è un portato su cui si può concordare nella girandola di supposizioni di queste ore, quasi nessuna corroborata da fatti, è che l’Ucraina nella Nato resta una pessima idea, così come pure l’ingresso di Svezia e Finlandia. Il Paese, se vorrà (e se ne avrà i requisiti), potrà entrare nell’Unione Europea, accedere al mercato unico, ai fondi per la ricostruzione e lo sviluppo; ma per la Nato, il discorso è molto differente. Kiev, per la posizione geografica che la colloca a fianco di una potenza nucleare, ha il destino, tragico, di restare neutrale. Deve essere tutelata dalla comunità internazionale, che fa bene ad aiutare la resistenza; ma senza cedere alla richiesta di un ingresso in una alleanza per propria natura militare, che significherebbe piazzare i carri armati occidentali a poche ore da Mosca. Non è giusto, da un punto di vista filosofico, ma è pragmatico, e le relazioni internazionali, piaccia o meno, funzionano così. Da sempre.

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esteri, guerra, reportage

L’eredità dei Troubles in Irlanda del Nord

Belfast, 2019. Incontro Jim, un veterano del conflitto armato, parte unionista, i protestanti. Ha combattuto, è stato in prigione, ne è uscito: il volto, il tono della voce, lo sguardo sono ancora modellati da quegli anni. Le rughe, la fronte ne portano i segni, solcati da linee profonde. Non si può comprendere la questione irlandese senza parlare con gli abitanti dell’Ulster. A Belfast ci sono murales che inneggiano alla violenza, palazzi colpiti da raffiche di mitra che mostrano i buchi dei proiettili. In cielo volavano gli elicotteri, per strada i carri armati Tutti hanno perso qualcuno. Jim mostra le immagini dei combattenti, le tombe. Ha dedicato l’esistenza a un pezzo di terra che a guardarlo potrebbe sembrare insignificante, per quanto è simile a tanti altri, scagliandosi  contro coetanei, entrambi nel fiore degli anni, entrambi che hanno speso la parte migliore della vita in galera. Le sue parole sono di una lucidità dilaniante. Ancora oggi la cadenza delle sillabe fatica ad abbandonarmi. “Il conflitto è diventato parte della mia vita – dice – L’ho accettato per quello che era, e ho accettato anche il mio ruolo in esso. Ho perso per strada degli amici, alcuni membri della mia famiglia. Ma era parte del viaggio”. Era possibile non essere coinvolti? chiedo. “Era difficile non esserlo, avevo un fratello in un’organizzazione, io ero in un’altra […] e c’erano momenti in cui si ammazzavano”. Quali le conseguenze dei Troubles, per la gente oggi? “Credo che la gente sia ancora alle prese con l’eredità del conflitto. Qualcuno la gestisce bene, qualcun altro non ce la fa. Penso che abbia colpito le persone in maniera differente, capisci cosa intendo?”.

Qui il video (riproduzione riservata, lo scrivo se qualche simpaticone avesse voglia di ripubblicarlo senza chiedere l’autorizzazione, e credetemi, càpita anche questo.)

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Gli scontri in piazza a Parigi
esteri, politica, reportage

Quello che resta degli scontri di Parigi

Chissà che cosa deve aver pensato Emmanuele Macron quando il 24 marzo, assieme al vento e alla pioggia che dalla mattina si alternavano a squarci di sole, dal cielo di Parigi è scesa la grandine. Probabilmente, che se i chicchi fossero arrivati un giorno prima la capitale non sarebbe stata messa a ferro e fuoco. Che il destino di chi ha salvato la Francia per due volte da Marine Le Pen è ben triste, se la piazza gli si rivolta contro con una manifestazione da Sessantotto. E che quando ci si mette anche il meteo, c’è poco da fare. Meglio rassegnarsi.

Macron non è simpatico. Ho avuto l’occasione di vederlo da molto vicino a Sharm el Sheick, parliamo di istanti, ma la prima impressione – diceva qualcuno – si forma in dieci secondi, e passiamo tutta la vita solo a confermarla. Monsieur le President è un primo della classe, arrivato al potere giovanissimo, appoggiato da potentati economici i cui contorni non saranno mai del tutto chiari – come quelli di Renzi, per capirci – e, non ultimo, dall’Unione europea. E’ di sinistra perché non è di destra, non mi viene una definizione migliore. Certo, sui diritti civili il posizionamento è innegabile. Ma con la gauche, come è intesa in riva alla Senna, non ha niente a che spartire. E nemmeno con la rive gauche, quella degli intellettuali. L’inquilino dell’Eliseo è piuttosto un tipo pragmatico, metodico, uno che ama avere la situazione sotto controllo e che ha sempre la risposta pronta. Più maturo della sua età sin da quando era giovane, e ha sposato una donna che potrebbe essere sua madre.

Il problema dei tipi come Macron è che capiscono molto in fretta, baciati da una razionalità superiore. Non sono cattivi, ma mancano di empatia. Il presidente conosce la matematica abbastanza per sapere che, se l’età media si allunga, un sistema pensionistico pensato nell’Ottocento – quando si campava in media meno di sessant’anni – non può reggere.

Quindi, sicuro di non potersi ricandidare e senza più niente da perdere, all’inizio del secondo mandato ha fatto quello che un governante deve fare: la cosa giusta, anche se impopolare. In questo caso, alzare l’età del pensionamento di un paio d’anni, portandola da 62 a 64. Bastano un foglio e una matita per capire che ha ragione.

Il fatto è che nella piazza di giovedì, tre milioni di persone che hanno marciato da place de la Bastille all’Opera dopo dieci giorni di proteste, di razionalità ce n’era ben poca.

Abbiamo camminato coi manifestanti da place d’Italie fino al concentramento, e poi ancora verso i punti critici. Per strada c’erano persone comuni, gente di mezza età, studenti, pensionati – che la pensione, quindi, già la percepiscono – e poi, a guardare bene, tutti gli strati sociali. C’erano diplomi, lauree, elementari, licenze medie, senza che fosse possibile individuare un senso. Slogan comunisti misti a rivendicazioni più moderate. Qualcuno ha provato a prenderla con un sorriso: ma erano, francamente, pochi. Sguardi torvi, la rabbia si respirava a ogni passo, più forte assieme alle sirene, assordanti; e a ogni metro percorso, quando il serpente cominciava a raggomitolarsi e a mostrare la potenza delle proprie spire proprio in place de la Bastille, la psicologia dell’individuo cedeva il passo a quella, molto più pericolosa, delle folle. Risate. Qualcuno sparava bombe carta che spaventavano la gente, e rideva, per aver fatto paura a chi, in teoria, ne condivideva la lotta. I compagni a fianco, come da copione, assistevano. Sopportavano, in qualche caso scattavano persino foto ricordo.Non condividevano, forse, ma non protestavano, e questo è il prodromo delle escalation di piazza.

Si creava, insomma, quella sensazione di impunità per la quale esiste una zona franca dai limiti, una finestra temporale in cui tutto è permesso, in cui si arriva a concedersi atti da cui, in un contesto diverso, ci si asterrebbe per prudenza.

Probabilmente esisteva una componente organizzata e violenta che ha cercato lo scontro e la devastazione come unica ragione della propria presenza. Accanto a loro, però, e accanto alla gente normale, sfilava questa accozzaglia di codardi da branco. Quanti erano? Facciamo una stima, approssimativa perché basata sull’osservazione di chi ha esplorato un unico settore: uno ogni venticinque, trenta.

Quella di giovedì mi pare sia stata una manifestazione di pancia. Le rivendicazioni erano slegate dalla logica, anche chi aveva gli strumenti per capire si rifiutava di farlo. Mi sembra si possa inscrivere, piuttosto, in quel rifiuto più generale del sacrificio, della vita passata al lavoro, che caratterizza gli anni dopo la pandemia. La quale, dopo aver costretto a casa miliardi di persone, le ha abbandonate con la consapevolezza che passare due ore al giorno in automobile o sui mezzi per lavorarne altre otto – se va bene – è una follia. Che vivere in città dove uno stipendio basta a malapena a pagare un affitto è un controsenso in termini. Che le macchine, lontano dalla promessa di Keynes, ci hanno portato a lavorare di più e non di meno. E che questo surplus va sempre più a beneficio di pochi.

Ci si può chiedere come da questa logica stringente si possa passare alle devastazioni, e che cosa si possa salvare tra i cassonetti bruciati. Ma non dimentichiamo che in piazza c’erano tre milioni di persone – la polizia ne stimava centomila alla vigilia – , e sono tante, tantissime.

Qualcosa di simile era accaduto coi novax.

Si cerca un motivo per protestare, un pretesto, senza riuscire a tradurre le sensazioni in un pensiero coerente. Un tempo questo compito spettava a partiti e sindacati, i cosiddetti corpi intermedi: ma la gente non si fida più, e marcia da sola e alla mercé di minoranze organizzate che aspettano acquattate di intestarsi la protesta. Ironicamente, En marche è il nome del movimento che ha condotto al poter Macron.

Sono tempi duri, qualcosa si sta muovendo, non si capisce in che direzione. Se esprimere un disagio è corretto, e mettere a ferro e fuoco una città non lo è, cosa resta degli scontri di Parigi? L’umore della piazza è mutevole. Il presidente francese era stato acclamato a maggio, è ancora vivido il ricordo della folla radunata sotto la torre Eiffel per festeggiare la vittoria. Poi, però, quando ha assolto al compito per cui era stato chiamato – governare -, il botto. C’è rifiuto dell’autorità, della razionalità. Frustrazione, in una città dove i clochard sono ovunque, molto più che in qualunque altro posto, e dormono persino nei campetti da basket sotto i ponti della metropolitana dove i bambini giocano facendo attenzione a non lanciargli il pallone in testa. I ricchi da una parte, i poveri dall’altra. Le babysitter inglesi, le startup, la fisica quantistica e la potenza nucleare contro il destino di emarginazione già scritto a quattordici anni degli immigrati: li riconosci subito, girano in branco con cappelli di pelliccia e borse Gucci, calano in città dalle banlieu, e prendono tutto quello che possono perché sanno che, a loro, il domani non riserva niente. La grandeur, il ruolo della Francia, la scena mondiale e la ragione contano poco per chi non ha molto: e soprattutto non ha speranza. Confinati nei ghetti, lontani dagli edifici con le facciate dipinte da murales che mostrano il volto di una città moderna e fintamente inclusiva, non cercano altro che un’occasione per essere ascoltati. E se la prendono, come bambini che urlano, senza sapere perché, in attesa di un genitore che traduca il loro disagio in richieste. Sono loro, rimasti indietro nella corsa al futuro. E non c’è welfare, soccorso sociale che possa salvarli perché anche quello è già un ghetto. La Francia è un Paese costruito sulle colonie, quindi sullo sfruttamento. Ma ha marginalizzato i propri figli, che ora le si rivoltano contro, offrendo a chi sta dalla parte giusta l’occasione non per una riflessione, ma per l’ennesima condanna.

Non si possono condividere le bombe carta, ma chi ha gli strumenti per capire, deve accogliere la verità che siamo di fronte a un sistema che ha fallito e ha prodotto disuguaglianze ammantate dal marketing dei diritti. Il primo è quello al futuro. E per tanti è solo un miraggio.

[foto in alto: da Internazionale, le altre sono mie]  

Qui qualche video che ho girato a Parigi 1 | 2 | 3. Sono ospitati su Facebook. Per chi non l’avesse, qui su Instagram ci sono gli stessi video assieme a molte foto.

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Cartina che mostra il confine tra Finlandia e Russia
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Perché Finlandia e Svezia nella Nato non sono una buona idea

L’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato sarebbe un errore. Lo stesso tipo di sbaglio che ha portato a una guerra come questa. Brutale, vergognosa per la maniera in cui viene condotta dai Russi: ma, purtroppo, prevedibile dal punto di vista delle relazioni internazionali.

Putin non è pazzo: difende l’interesse nazionale russo, e lo fa ora, e a qualunque costo, soprattutto in un paese che dopo di lui potrebbe tornare in mano a una schiera anarchica di oligarchi corrotti. Un ulteriore allargamento della Nato, con un confine da 1350 km da cui possono passare agevolmente truppe di terra, alzerebbe la tensione e il rischio di incidenti. Pensare che l’autodeterminazione dei popoli prevalga sulla stabilità mondiale è illusione da adolescenti. O da furbetti. Cosa accadrebbe se Mosca dislocasse carri armati in Messico?

Mi rendo conto che può suonare impopolare, e certo non è un modo per mettere sullo stesso piano aggressore ed aggredito: ma la diplomazia ha codici e regole che non vanno infranti. Col suo cinismo serve a evitare le guerre più delle piazze e delle bandiere della pace alle finestre. Si rischia una crisi diplomatica per una sedia fuori posto a un consesso internazionale, per un invito mancato, riesce difficile immaginare come possano sfuggire le conseguenze di un atto che va a rompere gli equilibri, e verrebbe interpretato come irrimediabilmente aggressivo.

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Ancora su Russia, Usa e anni Novanta

Qualche giorno fa, Federico Fubini si poneva la domanda se aiutando economicamente la Russia dopo il ’91 si sarebbe evitata la caduta del paese nel revanscismo putiniano. All’epoca, il Cremlino accettava consigli dagli USA, e Jeffrey Sachs era tra i protagonisti di quella stagione. Sachs, qui sotto e sempre con Fubini, ripercorre quegli anni (con una certa indulgenza verso sé stesso, va detto) e offre qualche considerazione sull’oggi. Che condivido.

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Dove abbiamo sbagliato con Putin

Questa analisi di Federico Fubini, più di molte altre, rende ragione dell’ascesa dello zar Putin in Russia. Fubini sottolinea come l’altra metà delle responsabilità dell’Occidente nel conflitto ucraino (oltre all’ espansione della Nato verso est, che lui non condivide) fu il non aver aiutato la Russia con una sorta di piano Marshall nel 1991. Mosca fu mal consigliata durante la transizione dal comunismo alla democrazia da un pugno di economisti stranieri molto ascoltati da Eltsin (al punto da scrivere i decreti di quegli anni) ma troppo chiusi nel proprio iperuranio liberista per comprendere che il passaggio avrebbe dovuto necessariamente essere graduale. Invece si propose una terapia choc. All’inizio degli anni Novanta, la presenza americana a Mosca era forte. Una sorta di assalto alle spoglie dello sconfitto che a Fubini ricorda le onerose riparazioni di guerra imposte alla Germania dopo il 1918, e che ebbero come conseguenza l’ascesa di Hitler.

Il giornalista fa i nomi e dichiara di aver provato a contattare i protagonisti di quegli anni: senza esito.

Vale la pena di ricordare, per gli amanti delle semplificazioni, che cercare di ricostruire le cause dell’aggressione di Putin non significa appoggiarla o non sapere da che parte stare.

Ma, a mano a mano che la riflessione prende lucidità anche sui giornali più moderati, diventa chiaro che guerre future porranno essere evitate solo con un atteggiamento di vera cooperazione. Nella Mosca di inizio anni Novanta giravano leoni incravattati travestiti da agnelli con cattedra ad Harvard. Non ci fu aiuto. Dio solo sa cosa sarebbe stata l’Europa post 1945 senza il piano Marshall. Una lezione che dovremmo tenere a mente oggi, quando le ostilità, speriamo presto, saranno cessate.

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