esteri, politica

Non si può evitare di scegliere sul populismo

Washington è sotto assedio. L’America, ancora una volta, è davanti a tutti. In questo caso, mostrando al mondo il peggio di sé.

Sono anni che politica e opinione pubblica si interrogano se le tesi dei sovranisti – termine che nobilita idee per molti versi troglodite – nonostante tutto vadano rispettate.

Brexit è stato il primo esempio, ora l’America mostra cosa significa lasciare crescere indisturbato il populismo, per giunta in un paese dove anche la circolazione delle armi è pressoché libera.

La tenuta di un sistema democratico evoluto si basa su pesi e contrappesi, che muovono, però, da un assunto di base: la buona fede di chi sta al governo, il suo senso del limite, il rispetto delle istituzioni che si trova a rappresentare. Trump ha ignorato tutto questo, fomentando la rivolta dopo aver perso le elezioni.

Schiere di sostenitori privi di una cultura che non fosse quella costruita sui social media, ma legittimati nella propria ignoranza dalla prima carica dello Stato, hanno invaso la capitale prendendo d’assalto il Congresso. Pistole sono spuntate tra i banchi, si è sentito anche almeno uno sparo. Ci sono state delle vittime. Mentre l’inquilino uscente della Casa Bianca, eletto nel 2016 – ormai è praticamente certo, con l’intervento della Russia –  si dissociava blandamente.

Restano ancora due settimane prima del passaggio di consegne, abbastanza per fare danni gravi. Il miliardario newyorkese, abbandonato anche dai principali sostenitori in parlamento, si rivolge direttamente al popolo frustrato dal Covid, da capo delle forze armate e in un paese stanco e ben dotato di pistole e fucili.

La tenuta del sistema è a rischio: l’esercito risponde a lui, e, come minimo, lo Stato maggiore non sa che pesci prendere, scisso tra l’ubbidienza alle regole, e la necessità di intervenire per preservare le istituzioni. I ritardi nella reazione ai disordini ne sono la prova.

No, populismo e sovranismo non possono crescere indisturbati. Si dice: se non si dà loro rappresentanza, se non si consente loro di entrare nell’agone politico, si mantengono queste energie al di fuori della dialettica parlamentare, con il rischio di rivolte. Ma Trump ha mostrato, molto più di personaggi come Boris Johnson, cosa può accadere se in una grande democrazia, dotata di arsenali atomici, influenza e tecnologie in grado di distruggere il mondo, al comando si ritrova un uomo pervaso da un narcisismo oltre il patologico, incurante delle conseguenze delle proprie azioni e attento solo al proprio interesse.

Le nazioni si danno un governo sulla base di un contratto sociale: i cittadini cedono allo Stato il monopolio della forza, convenendo che un soggetto terzo e imparziale meglio garantisca le condizioni minime del vivere civile. Altrimenti, l’unica legge resterebbe quella del più forte. Uno Stato, oltre che un insieme di norme e burocrazie, di tasse e imposizioni, come spesso viene percepito oggi, è innanzitutto un accordo basato sulla fiducia reciproca, un patto per temperare gli istinti di prevaricazione in nome di un bene più grande.

Personaggi come Trump una volta ersi muovevano al di fuori del sistema. Tra i filtri, c’era anche la stampa democratica, che selezionava le notizie prima di divulgarle, amplificandole. Ma cosa accade nell’era dei social media e delle fake news, dove non c’è intermediazione e, al contrario, il dibattito pubblico ha perso ogni credibilità?

Trump mostra i limiti del sistema democratico. Peraltro noti. Già Churchill affermava che la democrazia è il sistema di governo peggiore, eccetto tutti gli altri. Cina e Russia, intanto, sogghignano e stanno alla finestra: da loro non sarebbe mai potuto accadere.

In situazioni del genere cresce il fascino di soluzioni autoritarie, in cui si cedono quote maggiori di libertà in nome di stabilità e sicurezza. E’ la nemesi della democrazia, ma questi due termini sono non a caso gli stessi evocati dai capipopolo a tutte le latitudini: sono loro a creare il problema, aizzando folle ignoranti e frustrate, sono loro a offrire la soluzione.

Non è più possibile evitare una scelta. Per difendere la democrazia come la conosciamo è necessario che chi si riconosce in questi valori, al di là delle appartenenze politiche, lo affermi con forza, e isoli personaggi del genere dal principio delle carriere politiche.

Si prepara un’era di instabilità. La pax americana seguita al crollo del Muro di Berlino si è risolta in un mondo multipolare, dove il balance of threaths, l’equilibrio del terrore fondato sulla paura di un olocausto nucleare, è l’unica garanzia per il mondo. Come nella Guerra Fredda, ma qui gli attori sono cinque o sei, allora erano solo due.  Politici dotati di arsenali atomici e lontani dall’equilibrio possono scatenare conflitti di proporzioni inenarrabili. Einstein diceva “Non ho idea di quali armi serviranno per combattere la terza Guerra Mondiale, ma la quarta sarà combattuta coi bastoni e con le pietre”. L’ideale democratico non può commettere suicidio concedendo a forze antisistema di crescere fino a questo punto. Ora, forse, è più chiaro che ne va del futuro di tutti.

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brexit, coronavirus, economia, esteri, salute

Vaccino Covid, cosa significa per Londra arrivare primi

L’approvazione del vaccino Pfizer-BioNTech da parte dell’ente di vigilanza britannico, primo al mondo, ha un impatto pratico (ovviamente, quello legato alla protezione della popolazione) ma anche un significato politico molto più ampio. Il vaccino sarà disponibile dalla prossima settimana. Da Europa e USA, invece, non ci sono notizie sui tempi.

Il Regno Unito è tra i paesi più colpiti dal coronavirus dal punto di vista economico, in parte anche per le scellerate decisioni del premier Boris Johnson nelle fasi iniziali. Johnson sottovalutò i rischi puntando a un’immunità di gregge molto costosa in termini di vite umane per garantirsi una ripresa precoce, salvo poi, ammalarsi egli stesso, e correggersi nel giro di qualche settimana. La pandemia ha toccato Londra nel momento peggiore: pochi mesi prima, il paese aveva sbattuto per l’ennesima volta la porta in faccia all’Unione Europea e chiuso la telenovela Brexit, che durava da oltre tre anni.

Un problema serio, perché l’economia non beneficerà del generoso Recovery Fund messo in piedi da Bruxelles.

Oggi il Regno Unito è un paese solo, con le mani libere, ma che viaggia in mare aperto senza scialuppe. Avere approvato per primi il vaccino significa cominciare a distribuirlo subito e poter, quindi, sperare in un recupero più rapido. Ma non solo: significa anche guadagnare le copertine dei notiziari, e soprattutto: siamo qui, non siamo morti. Siamo sempre uno dei paesi più avanzati al mondo dal punto di vista tecnologico. Venite da noi, ce la possiamo fare.
Oltre che di impatto per gli investitori esteri, l’annuncio rinvigorisce il morale sul fronte interno.

Che basti, non è detto. I prossimi anni saranno duri, e a Downing Street lo sanno bene. Inoltre, l’attendismo delle agenzie del farmaco europea e americana sull’approvazione è un segnale chiaro: meglio andare sul sicuro che rischiare un nuovo disastro, in termini di vite umane e di immagine internazionale. Ma la tentazione, per Londra, è stata troppo forte: dopo una serie di sconfitte a cui il paese non era abituato, quello di oggi è il primo colpo messo a segno da tempo. O l’ennesimo flop di un leader nato per stupire, forse non per governare.

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coronavirus, economia, esteri, politica

Dalla Brexit alla pandemia, così nasce la nuova Europa

C’è un filo rosso che accomuna il voto britannico del 2016 con il risultato ottenuto ieri notte dal Giuseppe Conte, oltre 200 miliardi di euro ripartiti tra prestiti a lunghissima scadenza e aiuti a fondo perduto.

Nel giugno di quattro anni fa, l’Unione era sul ciglio di un baratro. La pressione dei migranti ai confini, i postumi della recessione mai completamente smaltiti se non nelle grandi città, la proposta di soluzioni che un tempo – dieci anni fa – si sarebbero dette xenofobe e oggi sono state nobilitate con il nome di sovranismo la tenevano alle corde. Personalità interessate alla propria carriera politica più che al bene comune (Farage, Salvini, Le Pen, tra gli altri) avevano guadagnato consensi crescenti. Pensando di poter gestire il problema affrontandolo di petto, David Cameron concesse il referendum su Brexit, convinto di vincerlo.

Ma, dopo una campagna elettorale giocate sulle menzogne, a prevalere fu il Leave.


Sin da subito Londra fece la voce grossa. “Brexit means Brexit” andava ripetendo Theresa May, convinta che un consesso, come era quello di Bruxelles, sempre incapace di trovare l’accordo su poche, ma nodali, questioni relative all’integrazione continentale (politica estera e fiscale, su tutte) non sarebbe stato in grado di raggiungere una visione comune sull’uscita del Regno Unito. Divide et impera, dicevano i Romani. Che era la cifra della presenza britannica nelle istituzioni continentali.

May si sbagliava. Fu nel no alle smargiassate di Londra che cominciò a prendere forma l’embrione di una nuova di Europa. Un’entità in cui le differenze nazionali continuano a esistere, ma sono bilanciate da una volontà altrettanto forte di cooperare che finalmente ha trovato modo di manifestarsi.

I semi gettati negli anni precedenti stavano giungendo a maturazione.  Oggi, negli uffici che ospitano la classe dirigente continentale, sempre più spesso le scrivanie che contano sono occupate da membri a pieno titolo dalla “generazione Erasmus”, quella che ha potuto approfittare dell’Unione per viaggiare, studiare e arricchirsi; il tutto mentre un’altra coorte di giovani, quella dei nati a cavallo del millennio, sta arrivando al voto. E si tratta di ragazzi che la lira (o il franco, il marco, il peso) non l’hanno mai conosciuto. Così come non hanno mai conosciuto la frontiera con la Francia o con l’Austria: per loro è naturale muoversi e oltrepassare distrattamente valichi che hanno significato sangue e terrore per secoli.


Londra, la terra promessa


Nel momento più duro della crisi 2008-2012, Londra esercitò un fascino eccezionale su chi cercava una seconda chance. Furono moltissimi i connazionali che si trasferirono in riva al Tamigi in cerca di fortuna, a volte trovandola, a volte no. Molti furono i delusi. La comunità tricolore rese la capitale britannica la terza città italiana, con oltre mezzo milione di abitanti.

Per questo il maldestro tentativo di distacco dall’Unione portato avanti da Downing Street ci coinvolse tanto: tutti avevano un parente o un amico che aveva attraversato la Manica. E fu così che, per la prima volta, il dibattito europeo entrò quotidianamente in un palinsesto televisivo che lo relegava ai margini.
A forza di sentir parlare di Brexit, la popolazione cominciò a conoscere pregi e difetti dell’Unione e a farsi un’idea propria. Grazie agli oppositori alla Salvini, ma anche alle difese appassionate.

Pur non volendo, Londra offrì un contributo fondamentale alla causa europea: tra ripensamenti, elezioni, leader da fumetto, manifestazioni di protesta, ci mise ben tre anni per lasciarsi alle spalle il Continente. La fuga dall’Europa venne percepita dai più per quello che era: un’operazione politica orchestrata da leader piccoli, che avevano sfruttato il malcontento popolare per diventare grandi. Ma certi treni passano una volta sola.


Il recovery fund


Per questo, al dibattito sul Recovery fund le opinioni pubbliche sono arrivate molto più preparate rispetto a qualche anno fa. E l’esempio della Gran Bretagna, ancora una volta, è servito: fuori dalla Ue, e con una crisi da coronavirus devastante (peggiorata dalle incertezze del premier Boris Johnson) Londra non potrà avvalersi del mutuo supporto cui avrebbe avuto diritto.

Raramente la sorte ha giocato contro un paese in maniera così sfacciata. L’Europa, che si era mostrata compatta parlando con la voce del capo negoziatore Michelle Barnier e stava per approvare il bilancio 2021-2027, aveva margine di manovra grazie alla vastità di un territorio colpito in maniera molto disomogenea dalla pandemia, e che per questo poteva redistribuire risorse laddove necessario. Perché fu subito chiaro che il recupero sarebbe stato lungo e che da questa prova i Ventisette sarebbero usciti assieme. L’alternativa era che il banco saltasse definitivamente.

Questo spauracchio ha pesato sicuramente nelle trattative. Si è discusso allo sfinimento, ma, una volta verificato che la frattura non è solo tra paesi “cicale” e paesi “formiche”, ma tra realtà colpite in maniera più o meno forte dal virus, la conclusione è stata più o meno questa: chi vuole andarsene, da oggi è libero di farlo. Le conseguenze, il Regno Unito insegna, sono sotto gli occhi di tutti. Per questo era inevitabile che si arrivasse a un compromesso, fatta la tara al posizionamento elettorale di leader come l’olandese Rutte, pronto a incassare la cedola dell’opposizione alle elezioni del 2021.


Il futuro e il piano di riforme


Ora si tratta di fare buon uso dei denari ottenuti. Conte, che si è dimostrato un abile politico nei cinque mesi (e non nei cinque giorni) di trattative con gli altri paesi, dovrà dimostrare di avere un piano serio di investimenti strutturali, di riforme (tra cui quella del lavoro e l’abolizione della sciagurata quota 100), misure per la riqualificazione della popolazione e la diffusione di competenze informatiche e inglese. È anche il momento per parlare di Europa, finalmente, in una chiave positiva.

L’Italia ha incassato il capitale di fiducia guadagnato piegandosi nel 2012. E, checché se ne dica, la riforma in un sistema pensionistico come il nostro era indifferibile. Ma a prendersene la responsabilità e gli oneri fu la sola Elsa Fornero, cui, invece, andrebbe tributato un grazie.
In sintesi: quella di oggi è un’occasione irripetibile per trasformare il piombo della pandemia in oro, un’occasione che l’Italia – e non solo – non può permettersi di perdere.

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ambiente, esteri, sostenibilità, startup

Spegnere le escavatrici via Gps: l’idea per fermare il disboscamento in Amazzonia

 

Questo articolo è stato pubblicato su Wired

L’annus horribilis che sta per concludersi per l’Amazzonia ha reso di drammatica attualità le immagini già viste negli anni Ottanta, quando carovane di veicoli meccanici avanzavano per costruire l’autostrada destinata a tagliare in due la foresta. Il governo di Brasilia ha fatto spallucce di fronte alle critiche dei leader globali.

La deforestazione è aumentata del 278% nel mese di giugno 2019 secondo le statistiche dell’Inpe, l’Istituto brasiliano per la ricerca spaziale. “L’avidità di legname fa sì che gli alberi siano sempre meno”, accusa Raoni Metuktire, leader dei Kayapò, popolazione nativa originaria del Brasile Centrale. Una comunità balzata agli onori delle cronache per la strenua resistenza opposta anni fa: cioè quando, nel territorio che occupano da millenni, è stato scoperto l’oro.

Il popolo guerriero che non disdegna Sting

Una storia da conoscere, quella dei Kaiapò. Estremamente aggressivi nei confronti dei novelli conquistadores, sono riusciti a preservare la terra natia dalla corsa selvaggia al metallo giallo prendendo il controllo dell’unica pista di atterraggio che consente di accedere all’area, un eremo altrimenti impossibile da raggiungere.

I pochi minatori ammessi sono stati costretti a versare una sorta di decima sulla polvere d’oro trovata. Il ricavato è confluito in un conto corrente arrivato a gonfiarsi fino a decine di milioni di dollari: denaro investito, tra l’altro, in un aereo a elica, che consente di dare la caccia dall’alto a nuovi, indesiderati insediamenti bianchi.

Non hanno dimestichezza con il ferro, ma sanno come difendersi. Da anni inviano i giovani più svegli in terra “nemica” – vale a dire a scuola – per studiare gli avversari, la loro economia, le loro leggi. E hanno imparato a usare i media per attirare l’attenzione sulla propria causa. Come negli anni Ottanta, quando il Fondo monetario internazionale, incalzato dall’opinione pubblica,  bloccò un prestito necessario alla costruzione di una serie di dighe. Alla grande mobilitazione prese parte anche Sting, artista mainstream che di certo non appartiene al repertorio tradizionale indio ma si innamorò della causa. Per la verità, qualche anno dopo, l’ex leader dei Police scoprì che gli indigeni stessi avevano organizzato un traffico di mogano con l’Europa da 15 miliardi di lire dell’epoca, come rivelato da una rivista brasiliana, dichiarandosi deluso e tradito. Ma si sa, così va il mondo, e sono cose che succedono.

A cavallo tra coding e ambientalismo

Oggi Raoni torna sotto i riflettori, e si presta a fare da testimonial a un insolito progetto a cavallo tra coding e ambientalismo. L’idea nasce dalle sedi di San Paolo e di Melbourne di Akqa, multinazionale attiva negli ambiti comunicazione e digital transformation. Code of Conscience, questo il nome, è un software open source in grado di bloccare le macchine escavatrici utilizzate per disboscare l’Amazzonia sfruttando i sistemi Gps installati di serie su ognuna.

L’idea è semplice: la posizione dei bestioni viene incrociata con la mappa delle aree protette fornite dallo United nations database for protected areas, governi e ong: se i conducenti provano a farle entrare nella “zona rossa”, quella in cui è vietato abbattere alberi, i motori si spengono all’istante, e automaticamente. Un metodo innovativo per evitare il contrabbando di legname, che spesso avviene con la complicità di funzionari corrotti pagati per chiudere un occhio.

Come i sistemi anti-drone degli aeroporti

È un po’ come i sistemi di geofence che impediscono ai droni di volare in prossimità degli aeroporti” racconta a Wired Pedro Araujo, direttore creativo associato di Akqa San Paolo: “Le mappe sono costantemente aggiornate grazie alla connessione mobile, e quando si è fuori dalla portata del segnale, si fa ricorso a quelle scaricate e conservate in memoria. Così, ogni volta che un veicolo entra in un’area protetta, può venire istantaneamente disattivato”.

L’investimento richiesto è basso. “I costruttori possono installare Code of conscience senza costi aggiuntivi perché i moderni macchinari dispongono già di tutto l’hardware necessario a far girare il software. Sui mezzi di vecchia generazione, invece, Code of conscience funziona tramite un piccolo device a basso costo che abbiamo già prodotto”, aggiunge Araujo. Come viene un’idea del genere a un’agenzia che si occupa di comunicazione e trasformazione digitale, e qual è il modello di business? “In realtà si tratta di un progetto no profit – prosegue il manager della multinazionale, con un ufficio operativo anche in Italia -. Semplicemente, siamo abituati a destreggiarci  al crocevia tra grandi moli di dati e il comportamento umano. Questo spiega la genesi”.

Code of conscience è aperto ai contributi di tutti gli stakeholder, precisa Araujo: dai fabbricanti, che possono installarlo come feature sui veicoli di nuova costruzione, ai governi. “Ci piacerebbe che venisse trasformato in obbligo di legge. Abbiamo avuto conversazioni con alcuni apparati dello stato brasiliano, anche se non specificamente con l’esecutivo. Ma parliamo anche con i governi di tutto il mondo, e ci sono già due paesi potenzialmente interessati a trasformare la nostra idea in una norma. Del resto, si tratta di un software che può funzionare ovunque”.

Secondo Araujo, ci sarebbe margine perché anche i costruttori accolgano di buon grado il progetto, nonostante spinga il dito nella piaga delle zone grigie tra industria e politica. Installare il software che spegne i motori a chi disbosca, questo il ragionamento, sarebbe una sorta di patente green. “Siamo in contatto con due operatori, uno globale e uno locale. Crediamo davvero nella percorribilità economica di questa strada – spiega -. Un produttore può perdere clienti animati da intenzioni illegali, certo. Ma può anche toccare il cuore di altri che non solo credono in un mondo migliore, ma riconoscono il valore in termini di business di questo tipo di azioni controcorrente, in un mondo che sta diventando sempre più consapevole”. Vedremo quali ragioni prevarranno.

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UK, è il giorno di Boris: Brexit adesso è più vicina

Questo  pezzo è stato pubblicato su StartupItalia

Il trionfo di Boris Johnson dimostra che il rapporto con la verità non è una componente fondamentale per vincere elezioni. C’era una volta un mondo in cui le bugie si raccontavano tentando di nasconderle. Johnson, eccessivo in tutto, non ci ha mai provato, e ha dimostrato – ma ce n’è ancora bisogno? – che la stagione è cambiata. Da Trump a Salvini al platinato neopremier britannico, vince il personaggio più furbo, quello più capace di creare tensione, per poi scioglierla ad arte. “Al governo consevatore è stato dato un nuovo, potente mandato – ha detto  -: portare a termine la Brexit, e non solo questo, ma unire il paese e concentrarsi sulle prorità del nostro popolo”. Il premier di tutti.

Nel segreto dell’urna i britannici hanno scelto con la pancia. L’Europa era il sogno dei londinesi e delle élite, non delle campagne, e nemmeno dei metalmeccanici. Paradossale che a votare per staccarsi dal continente siano stati proprio i territori che, tramite i fondi comunitari, hanno potuto attutire l’impatto della modernizzazione. La crisi, in certe aree a nord del paese, dura dagli anni Ottanta. E si sa, a giocare alla lotteria spesso sono i disperati.

Brexit, vince Johnson: i perché del no all’Unione

E qui torniamo alla verità. Johnson diede una spallata decisiva al referendum del 2016 spedendo in giro per il Regno un esercito di camion. Sulla fiancata, giganteschi poster raccontavano come, lontana da Bruxelles, Londra avrebbe risparmiato 320 milioni di sterline a settimana. Denari che  sarebbero finiti nelle casse dell’NHS, il sistema sanitario nazionale britannico: un mastodonte da 5 milioni di dipendenti che garantisce sì cure pressoché gratuite, ma è altamente inefficiente al punto da diventare insostenibile per la collettività.

Il biondo ex sindaco di Londra ammise in seguito che non era vero; ma, come insegnano i cronisti più smaliziati, una smentita è una notizia data due volte. Chi vive in UK conosce la situazione degli ospedali: medici spagnoli che trattano pazienti di madrelingua francese con il supporto di infermiere bulgare. Non è una sit-com, ma la realtà di tanti pronti soccorso, in particolare nelle grandi  città. Tutti comprendono poco, nessuno capisce completamente quello che si dice.

Non c’è solo questo, ovviamente. Le norme comunitarie, che pur il Regno Unito ha sempre accettato a seconda della convenienza, imponevano  di garantire libertà di movimento a tutti gli europei, e diritto universale ai sussidi. Ma sono tanti i casi di persone (intere famiglie) giunte in Gran Bretagna grazie al passaporto continentale che, dopo poche settimane di lavoro, si sono fatte insegnare l’arte di accedere ai benefit da compari più furbi. Per una volta non sono gli italiani, i maestri di questo discutibile artificio: pare si trattasse soprattutto di cittadini dell’est. I nostri connazionali, raccontava a chi scrive una persona informata dei fatti, tornavano spesso in Italia con voli di linea.  Qualche volta in cabina. Qualche altra, dentro a un sacco imbarcato nella stiva. Dopo essersi suicidati. Riportati a casa alla chetichella e in orizzontale mentre gli ignari passeggeri chiacchieravano del più e del meno. Non ce l’avevano fatta. Perché Londra può essere spietata, e non perdona chi resta indietro. O non ha una carta di credito.

L’elenco potrebbe continuare, ma il ragionamento è il medesimo. Se qualcuno vi chiedesse di non pensare a un elefante per i prossimi cinque minuti, non riuscireste a immaginare altro. Quando al popolo mediamente poco preparato in storia del Regno Unito è stato fatto balenare il sogno di un paese libero, padrone di se stesso e in grado di rivivere, finalmente, i fasti dell’Impero, si è superata una soglia oltre la quale è impossibile tornare indietro. A poco sono valsi i fact-checking di quotidiani come il Guardian e lo stesso Times.

Aggiungiamo che Jeremy Corbyn, dimissionario leader dei laburisti usciti pesantemente sconfitti dall’election day del 12 dicembre, probabilmente è un sostenitore della Brexit. Ne ha il diritto, per carità. Ma non sono pochi i compagni di partito scettici sull’Unione: Bruxelles, per loro, rimane un covo di finanzieri interessati solo al capitale e alla concorrenza. Non è escluso che ci sia stato un travaso di voti, e che più di qualche elettore storico della sinistra abbia ceduto al fascino di Johnson pur di liberarsi dell’Unione, come si fa con il dongiovanni con cui si va solo per vendicarsi del marito fedifrago.

 

Infine, e non è cosa da poco, sono passati tre anni e mezzo di tira e molla dal gusto più italiano che britannico. Oltre quaranta mesi che hanno logorato chiunque, persino i giornalisti impegnati a seguire la vicenda. Di cavillo in cavillo, scrivere di Brexit ha significato addentrarsi sempre più in un groviglio di minuzie legali di cui si percepiva  l’inconsistenza: era chiaro che la soluzione del rebus non sarebbe arrivata in punta di diritto, nondimeno si era costretti a seguirne l’evoluzione. Il sistema costituzionale britannico pare abbia retto: resta da vedere, ora,  se sarà in grado di resistere all’impatto dei nazionalisti scozzesi – europeisti convinti – che minacciano un’altra Catalogna.

 

Oltre la Brexit: un’Unione più solida ?

Ora si apre una fase nuova, una fase in cui l’Unione Europea deve trovare un nuovo assetto senza la Gran Bretagna. Il popolo ha votato di nuovo, e la sentenza è chiara. Johnson ha promesso di uscire entro il 31 gennaio: e, a questo punto, diventa possibile.

Ma c’è un risvolto positivo. Brexit è servita a parlare di Europa molto più di quanto fosse mai accaduto in passato: i giovani del continente oggi sanno che il rischio di perdere l’Unione c’è, e vogliono godersi la libertà di viaggiare senza confini e lavorare altrove. Ma anche Bruxelles sta imparando a presentarsi con un volto più umano, dopo la crisi del 2008 che l’ha vista recitare un ruolo da cerbero spietato.

Le elezioni di maggio hanno rappresentato, per la prima volta, un momento di vero dibattito su temi sovranazionali, e normative come quella antitrust e il GDPR hanno messo in luce l’enorme potere che si cela dietro ai trattati. Un potere che sta disegnando progressivamente un’Unione come soggetto politico distinto sia dal capitalismo d’assalto a stelle e strisce che, ça va sans dire, dal dirigismo cinese. Maggiore integrazione o un brusco stop: queste le alternative che si parano davanti agli Europei. Grazie a Brexit, siamo tutti di fronte alla scelta ogni volta che votiamo.

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Boris Johnson è sempre più solo

A quattro settimane dalla possibile Brexit, Boris Johnson è sempre più solo. Il leader conservatore, diventato primo ministro a luglio, non se la passa bene. Appena insediato, ha perso i primi sei voti del proprio cammino in aula. Dopo aver chiuso il parlamento (e aver espulso 20 storici membri del partito che avevano osato votargli contro) è stato bacchettato dalla Corte Suprema, che lo ha costretto a riaprirlo. Il premier ha dovuto scusarsi privatamente con la Regina che, a quanto pare, sarebbe estremamente irritata perché costretta ad avallare l’improbabile serrata – per prassi il sovrano si limita a ratificare – salvo poi essere corretta da una “semplice” giudice. Stiamo pur sempre parlando di Sua Maestà.

Non è l’unica tegola caduta a Downing Street in poco più di due mesi. Il fratello minore di BoJo si è dimesso da parlamentare e sottosegretario convinto che, con l’oltranzismo sul no-deal, il familiare stia rispondendo al proprio ego più che all’interesse nazionale.

Scotta anche il fronte della vita privata. Nei giorni scorsi si è sparsa la voce che una ex modella e imprenditrice americana, Jennifer Arcuri, avrebbe avuto una storia con Johnson ai tempi in cui questi era sindaco della capitale britannica, ottenendo prestiti e altri vantaggi.

Per finire, Charlotte Edwardes, giornalista oggi al Times, lo accusa di averle toccato una gamba sotto al tavolo durante una cena privata nella redazione dello Spectator, dove entrambi lavoravano alla fine degli anni Novanta. In Gran Bretagna le molestie sessuali sono prese molto sul serio. L’ex sindaco di Londra, peraltro, era il direttore del settimanale. Lei non denunciò per timore di ritorsioni.

Raramente si è visto un fuoco di fila di tali proporzioni su un premier. Ma si tratta dei media e dell’intellighenzia. Nonostante i guai, i sondaggi lo danno ancora abbastanza popolare tra la gente.

Il platinato successore di Theresa May non commenta. Si è limitato a far sapere che non si dimetterà, per non concedere spazio a un’ennesima proroga della Brexit. Per recuperare consenso, rilancia con misure di politica interna, a partire dalla promessa di 40 nuovi ospedali da costruire nei prossimi dieci anni. L’impegno riprende un tema usato durante la campagna per il Leave, quando si ripeteva che i soldi risparmiati abbandonando Bruxelles sarebbero finiti nelle casse (al collasso) del servizio sanitario nazionale.

Mancano quattro settimane al 31 ottobre, e tutto lascia pensare che i colpi di scena non siano finiti.

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Johnson quasi premier: il leader dell’ultra-Brexit succede alla May

Alla fine ce l’ha fatta. A poco più di tre anni dal referendum del 2016, Boris Johnson è stato nominato alla guida del partito Conservatore, il che, in questo contesto politico e a meno di colpi di scena, significa che prenderà il posto della dimissionaria Theresa May al numero 10 di Downing Street.

Il personaggio possiede un che di diabolico. A partire dallo “schema” con cui è giunto a fare il premier. Brexiteer della prima ora, si è guardato dallo sporcarsi le mani il giorno dopo la vittoria: troppo confusi gli umori, e la trattativa per portare a casa il testo di un accordo mal si addiceva a un carattere esplosivo come il suo. Con lui premier, il tavolo sarebbe saltato all’istante, assieme forse alla sua carriera. Di questo l’uomo era ben consapevole. Meglio ritagliarsi il ruolo del correttore di bozze, e lasciare ad altri la fatica di due anni di estenuanti braccio di ferro.

Meglio mandare avanti l’ambiziosa Theresa, che da bambina voleva essere la Thatcher, e ha provato, con piglio da studentessa determinata, a portare a casa la missione e l’accordo con Bruxelles, prima facendo la voce grossa (immortale il mantra “Brexit means Brexit” , ma non ci credeva neanche lei , il cui cuore batteva, tiepidamente, per restare), e poi vieppiù ammorbidendo la linea di fronte alla compattezza, inusitata, di Bruxelles.

L’ex sindaco di Londra preferì – lui! – restare in seconda fila, a recitare la parte del duro. Entrò nel governo May, ma ne uscì in fretta come chi molla tutto di fronte, si passi il gioco di parole, alla mollezza della leader.

Oggi Johnson si avvia a diventare premier. Porta in dote, oltre alla capigliatura biondo platino, le stesse uscite intemerate e vita privata traballante di sempre. Pochi giorni fa le urla provenienti dalla casa in cui stava trascorrendo la notte con la nuova fiamma hanno spinto i vicini a chiamare la polizia. Ma è solo un esempio, tra i tanti.

A fine maggio il Brexit Party del redivivo Farage ha sbaragliato la concorrenza alle elezioni europee, consultazione che non avrebbe mai dovuto tenersi. Preoccupati che l’uscita saltasse, i Leavers hanno deciso di votare in massa un partito costruito in poche settimane, e, soprattutto, privo di programma politico per gestire il “dopo”.

Johnson è la risposta dei conservatori, e  ha cento giorni per portare a casa la Brexit.  Con un vantaggio rispetto alla May. Dal suo punto di vista, il no-deal non è un problema, il che gli consente di giocare le proprie carte con tranquillità. Accada quel che accada, anche il disastro economico: l’uomo non si sentirà responsabile. Perché il problema è proprio che i politici, alla fine, sono esseri umani, soggetti alle stesse passioni e narcisismo di chiunque altro.

Francamente assisto interessato e in parte incredulo a quello che sta accadendo al Regno Unito, un tempo esempio di understatement, equilibrio e moderazione e oggi sempre più simile a un’Italietta qualsiasi.

Può essere che Johnson decida di convocare nuove elezioni per rimediare un mandato popolare che al momento non ha – si trova nella situazione di Renzi nel 2014, per capirci. Sarà interessante vedere il risultato, in tal caso, perchè in corsa ci sarà anche Farage.

Sta di fatto che molto del successo di questa strana accoppiata popul-sovranista si deve all’inconcludenza di Jeremy Corbyn, leader del Labour troppo a sinistra per cedere alla UE, ritenuta un covo di capitalisti. Un mucchio di banchieri che, però, predica l’economia sociale di mercato, e si sa che le politiche redistributive costano buona parte del bilancio di Bruxelles. Corbyn pensa davvero a un Regno Unito socialista lontano dall’Unione? (L’alternativa è che si tratti di un altro caso di narcisismo politico. Il terzo, assieme ai due citati sopra. Che vinca il migliore).

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Un anno alla Brexit
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Brexit a metà strada: il rischio per Londra è restare sola

 

Questto articolo è stato pubblicato originariamente su Londra, Italia

Un anno dall’avvio delle trattative, quasi due dal referendum. E dodici mesi esatti all’addio ufficiale fissato per il 29 marzo 2019. La Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione non è ancora avvenuta. Parliamo, allo stato dei fatti, di una eventualità probabile ma non ancora certa. Ma le ricorrenze  simboliche offrono lo spunto per  qualche valutazione.

E’ stato un errore votare Leave e orchestrare una campagna per allargare la Manica? Nigel Farage e Boris Johnson risponderebbero che no, non lo è stato.  Ma tipi come Farage e Johnson sono pronti a negare l’evidenza. E, mancando la controprova, trovano sempre qualcuno disposto a dar loro credito.

I numeri, pur non essendo catastrofici, non depongono a favore dell’esito elettorale: l’economia tiene, ma su una curva più bassa rispetto al passato. La sterlina non è risalita, e le aziende straniere continuano a portare via da Londra i propri uffici, giocando d’anticipo. I fondi europei che verranno a mancare aiutavano proprio le campagne, i territori che si sono dimostrati più ostili a Bruxelles.  Nessuno ha spiegato quale sia il piano adesso, ammesso che esista.

La verità è che nessuno si aspettava la Brexit (52% degli elettori a favore in occasione del referendum del 23 giugno 2016): la vittoria del Leave ha sorpreso persino gli stessi promotori.

Non  se la aspettava David Cameron, che concesse il referendum – pensando di vincerlo – per mantenere un’avventata promessa elettorale. Con le stelle all’alba, tramontò la sua carriera politica.

Non se lo aspettava Nigel Farage, che pensò bene di fare un passo indietro all’indomani del successo: perché un conto è desiderare l’impensabile, e un conto è ottenerlo.

Non se lo aspettava nemmeno Theresa May, che, da sostenitrice del Remain, si trovò a gestire la transizione ripetendo il mantra “Brexit means Brexit“.

Non se lo aspettava nessuno, e invece è accaduto. Come è stato possibile?

La causa sta nel grave errore politico di Cameron, che concesse la consultazione. L’ex premier mostrò qui tutta la propria inesperienza. L’uso disinvolto dei media –  vi dice niente Cambridge Analytica?  – , le fake news e le campagne di stampa orchetrate da politici senza scrupoli e più interessati al proprio tornaconto che all’interesse nazionale fecero il resto.

Si parla di  rispettare la volontà del popolo: ma le questioni di geopolitica sono, da sempre, gestite dai governi, al limite dai sovrani, e mai dal demos; quando si ricorre ai plebisciti, agganciandoli al diritto all’autodeterminazione dei popoli, lo si fa per conflitti di matrice etnica, religiosa, e sempre con maggioranze di ben altra portata. Nel caso della Gran Bretagna, che,  pearaltro, in seno all’UE ha sempre goduto di amplissima autonomia, è stato il 2% dei voti a risultare determinante.

Ma il caso della spia russa avvelenata sul suolo britannico – con ogni probabilità su mandato del Cremlino – ha mostrato a Londra cosa significa rischiare di restare isolati.

In un contesto europeo, la solidarietà ai britannici sarebbe stata scontata e doverosa. Oggi non lo è più. E’ una questione di buoni o cattivi rapporti; insomma, di interesse. E’ arrivata, certo, ma grazie al lavoro sottotraccia dei funzionari; e chi la ha mostrata, lo ha fatto in primis per indebolire il leader russo Putin, tornato prepotentemente sullo scenario globale.

Sessantacinque milioni di abitanti, poche risorse naturali, un’economia basata essenzialmente su servizi. Il Regno Unito è esposto al vento. Poco interessante per l’America, poco interessante per l’Europa.  Per dirla con gli economisti, ciò che prima era gratis, oggi ha un prezzo, e vedremo quale.

A Brexit avvenuta, Londra dovrà reinventarsi un ruolo e uno status che, una volta fuori dall’UE, non avrà più. Potrebbe volerci molto tempo. Potrebbe anche non accadere mai.

La politica internazionale in un mondo multipolare funziona ancora – piaccia o meno – come ai tempi del Congresso di Vienna. Un gioco di diplomazie. E non si decide mai esclusivamente in base ai dati economici; si agisce, piuttosto, guardando agli interessi di potenza, che a volte impongono di rinunciare a benefici immediati per ottenere sicurezza a lungo termine. Spiegare questo ai cittadini infiammati dalla propaganda pro-Brexit era obiettivamente impossibile. Ecco perché quella di farli votare è stata la scelta sbagliata.

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Paul Massey
esteri

Mafia, la vita dei boss UK. “A Manchester come i Casamonica”

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Londra, Italia.

Nightclub, spaccio di droga, pizzo.  E poi rapporti con i politici, un gangster candidato a sindaco e un funerale con il quartiere schierato in strada a mostrare cordoglio. C’era persino un cocchio tirato da cavalli.  Non siamo nella Roma dei Casamonica o nella San Luca delle ‘ndrine, ma a Salford, Greater Manchester, UK.

C’era un tempo in cui si credeva che la mafia fosse un fenomeno culturale, legato all’italianità. Altre epoche. Anni di studi hanno mostrato che la storia è diversa. “La mafia si produce dove ricorrono le pre-condizioni – spiega Federico Varese, docente di Criminologia a Oxford e autore del volume “Vita di mafia” (Einaudi). Varese risponde dal suo ufficio; ha studiato sul campo la criminalità russa, giapponese e inglese, e la conclusione è chiara.  “Nessuno può dirsi immune. Nemmeno il Regno Unito della Brexit”, dove i nuovi boss sono autoctoni.

Salford, ad esempio. Una storia di depressione economica, un’aspettativa di vita che in alcuni quartieri è di 14 anni inferiore a quella di chi vive a pochi isolati di distanza. Poi il boom, con i locali notturni e la night economy. “C’è stato un momento in cui Manchester era al centro della scena rock mondiale, con band come i Joy Division, gli Oasis e non solo – ricorda il docente – . In quegli anni, i gruppi criminali hanno preso il controllo dei club piazzando i propri bouncer (buttafuori, ndr) alle porte delle discoteche”. Quando non ne hanno aperte di proprie. Tra i “bravi ragazzi” emerge Paul Massey, detto  “Mr. Big”,  che fonda una società – legale –  per fornire servizi di sicurezza. Nei registri appare come PMS, Private Management Security. “Ma tutti sanno che si tratta delle iniziali del proprietario”. E sanno anche che, tra le parole sicurezza e “protezione”, il passo è breve.

Il business si allarga a macchia d’olio, grazie all’assenza di normative di controllo sui bouncer, alla polizia che chiude un occhio e alla corruzione della politica. Fino alla consacrazione del 2012: Massey tenta la corsa e si candida a sindaco. Si piazza tra i primi, davanti a partiti dalla lunga tradizione. Il consenso nei “suoi” quartieri tocca percentuali bulgare. E, come da copione,  non mancano le intimidazioni.

COME UN PADRINO  – Dalle sue parti, Massey era adorato come un padrino: erano in molti a riporre fiducia in lui, che, come il personaggio di Mario Puzo, godeva del rispetto di tutta la comunità malavitosa dell’area.

Ma, tra appalti e racket, la torta è ricca e fa gola a molti. Si crea un clan di scissionisti che si inseguono per mezza Europa spingendosi, armi in pugno, fino a Dubai. In patria la violenza diventa rito: nella sola area della Greater Manchester, in dodici mesi tra il 2007 e il 2008, sono ben 146 le sparatorie per il controllo del territorio. Pare che Massey sia stato ucciso nel 2015 proprio mentre cercava di mediare per porre fine alle faide che da anni insanguinavano l’area. Evidentemente senza riuscirci.

Manchester non è un caso isolato “Fenomeni para-mafiosi sono presenti anche a Edimburgo e Glasgow”, rivela Varese, “fenomeni che sarebbe interessante studiare in una prospettiva comparata”.

MAFIA DA ESPORTAZIONE – Viene da chiedersi se nella capitale esista questo problema, magari sottotraccia, magari collegato ai nostri connazionali. “Pare di no. A Londra esiste una criminalità curda che ha un certo controllo del territorio in determinati quartieri; ma non esiste il substrato formato dalle gang giovanili di Manchester, sempre sottovalutate.  Probabilmente – aggiunge il professore – laddove  c’era terreno fertile, il boom economico ha permesso il salto di qualità e i gruppi si sono dotati di un’organizzazione via via più simile a quella delle mafie italiane”.

La domanda finale è obbligata. Negli Usa, ma anche a Duisburg, abbiamo esportato, per così dire, la nostra criminalità. Perché in UK non è accaduto? Varese è secco. ” La mafia non attecchisce se l’immigrazione è assorbita in maniera legale. Per dirla con una battuta, se uno lavora non fa il mafioso. Negli anni Cinquanta a Bedford ci fu una forte immigrazione italiana, proveniente tra l’altro da un’area ad alto rischio come il Napoletano. Tutti quelli che arrivarono trovarono un impiego nella locale fabbrica di mattoni, e il problema non si pose. Non è esatto dire che abbiano esportato la nostra criminalità:  in alcuni paesi nella UE ricorrevano le famose pre-condizioni che hanno concesso a gruppi criminali di espandersi con modalità diverse. In Germania il fenomeno è cominciato con il riciclaggio: ora, attraverso il radicamento territoriale,  sembra stia facendo il salto di qualità”. Una riflessione che, applicata all’Italia, pone  interrogativi sulla gestione dei flussi di questi anni.  Ma che – vista da Londra – riporta in primo piano la Brexit: con l’uscita dall’UE, in mancanza di accordi sul mandato di arresto europeo, il Regno Unito potrebbe diventare facile approdo per criminali in cerca di una nuova patria.

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brexit, esteri, londra, Senza categoria

Londra città-stato? Improbabili suggestioni

Londra città-stato? Improbabili suggestioni che dimostrano, una volta di più, quanto in riva al Tamigi si sa da sempre: la Brexit è stata un errore, e il paese sconta l’ambizione politica di David Cameron. Quella che gli fece promettere un referendum su una questione strategica per l’interesse nazionale. Convinto di vincere, perse.

Per entrare in Europa il Regno Unito impiegò 20 anni. Per uscirne, una notte: e ora che i termini previsti per separarsi dal Continente (entro marzo 2019) stanno stringendo, è arrivato il momento di prendere decisioni difficili, come evidenzia bene in chiusura il collega del Corriere. Qui il link al pezzo del quotidiano milanese.

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