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Londra città-stato? Improbabili suggestioni

Londra città-stato? Improbabili suggestioni che dimostrano, una volta di più, quanto in riva al Tamigi si sa da sempre: la Brexit è stata un errore, e il paese sconta l’ambizione politica di David Cameron. Quella che gli fece promettere un referendum su una questione strategica per l’interesse nazionale. Convinto di vincere, perse.

Per entrare in Europa il Regno Unito impiegò 20 anni. Per uscirne, una notte: e ora che i termini previsti per separarsi dal Continente (entro marzo 2019) stanno stringendo, è arrivato il momento di prendere decisioni difficili, come evidenzia bene in chiusura il collega del Corriere. Qui il link al pezzo del quotidiano milanese.

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Dal Prosecco al Times: il vizio del buon giornalismo

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Londra,Italia. 

Più dei diplomatici potè il prosecco. Che le interminabili discussioni sulla Brexit nelle stanze del potere siano in stallo lo sanno tutti, ma nessuno lo dice. In questo mare magnum di informazioni spesso inutili e dichiarazioni di facciata entra in gioco il buon giornalismo, quello che interpreta e non si limita a riportare i fatti. E qualche volta trova la chiave giusta. La guerra, ormai, è anche commerciale.

La lettura che Londra, Italia ha dato di una vicenda a dir poco singolare come quella del Prosecco nostrano (che secondo un Carneade dell’odontoiatria inglese rovinerebbe i denti) ha fatto scuola: molti nell’ambiente pensano si tratti di una campagna denigratoria, strumentale e giocata ai limiti – per non dire al di fuori – del regolamento, simile a quella contro l’olio di palma.

L’editoriale del nostro direttore a difesa di un prodotto che ha saputo conquistare il cuore tiepido degli inglesi è stato il classico sassolino scagliato dalla fionda di Davide contro Golia.  E invece, di blog in blog, di testata in testata, il passaparola ha coinvolto i più alti vertici istituzionali.

La prima pagina del Times di venerdì 1 settembre con l’articolo che cita Londra, Italia

Il nostro giornale è letto, ” fa opinione a Londra“, e viene spesso ripreso in patria. Però se a seguirci è addirittura il Times con un bel pezzo in taglio basso, lo prendiamo come motivo di soddisfazione (qui il link alla versione online).

Londra, Italia ha quasi tre anni. Un bambino a quell’età comincia ad articolare frasi. Dai primi vagiti, alle parole, giorno dopo giorno tenta di costruire il linguaggio e la propria identità attraverso l’interazione con il mondo. Un giornale funziona allo stesso modo.

Chi comincia un’avventura editoriale ha un’idea, ma deve confrontarsi con la realtà, con le risorse, con i vincoli di bilancio. Nel nostro caso, anche con la tendenza a rinchiudersi di chi vive all’estero. Noi non l’abbiamo fatto. Londra, Italia è fatto da persone che vogliono innanzitutto fornire un servizio: quello di interpretare la realtà che gli expat vivono, quotidianamente.

E’ nato da loro e per loro, e chi ci scrive sa bene che il nostro Paese è criticato, odiato talvolta, ma sempre rimpianto. Non ha commesso l’errore di costruire una torre d’avorio. Al contrario, è probabilmente l’unica realtà ad aver creato e sempre mantenuto un legame forte con la Penisola. Molti di noi viaggiano ogni mese tra Stansted e Bergamo, tra Heatrow e Fiumicino, vivono in UK ma ragionano come se avessero due patrie: Londra, Italia ne tiene conto.

Un giornale, due paesi. L’Europa si sta formando nella quotidianità prima che nei palazzi. Per molti esiste sul serio, e da tempo. Sono quelli che viaggiano, emigrati per  lavoro e non per piacere, quelli che non hanno paura di ammettere che tornerebbero, un giorno, se ve ne fossero le condizioni. E’ a loro che ci rivolgiamo. E sono molti. Sarà per questo che, a noi, la Brexit non piace. E se anche il Times è dalla nostra, allora, dopo tre anni, è il caso di brindare. Con una bottiglia di Valdobbiadene, ovvio.

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Un anno di Brexit. Da May a Cameron, la Gran Bretagna in cerca di leader

Questo articolo è stato pubblicato sul Londra, Italia il 23 giugno 2017. 

Era la fine del primo decennio Duemila. David Cameron veniva salutato come un leader giovane, ecologista, innovatore. Il paese che Tony Blair si trovò a governare nel 1997 era depresso, svogliato: aveva completato la transizione da economia industriale a economia di servizi, ma sul campo erano rimaste le teste dei tanti a cui il passaggio non era riuscito. Il miracolo riuscì, invece, almeno sulla carta, al leader laburista.

Cool Britannia la chiamavano. Ed attirava, in effetti. Non solo l’ora del tè e il Sunday roast: una comunità giovane, globale e aperta al futuro, che prende il meglio di quello che il mondo può offrire. Ma mentre a Londra si brindava a champagne nei salotti della finanza e si ascoltava il Britpop di Oasis e Blur, nelle regioni dimenticate del Nord le fabbriche di posate e le miniere chiudevano una dopo l’altra. Era la finanziarizzazione dell’economia. Calici al cielo, soldi che passano di mano in mano e creano altri soldi, e (in teoria) il benessere si sarebbe diffuso a pioggia. Col senno di poi, facile prevedere che la bolla sarebbe esplosa.

Nel 2007 arriva la crisi. Non solo. Nel pacchetto Blair era compresa una guerra, quella in Iraq, combattuta al seguito di Bush sulla base di premesse rivelatesi false; la gente era stufa di perdere soldi e soldati in un conflitto percepito come distante e inutile. E’ in questo clima da post sbornia che Cameron, il leader bambino, studente dei migliori college inglesi come da tradizione, vince le elezioni nel 2010 e porta a termine il primo mandato.

Era atteso con speranza, si dimostra un leader senza qualità. L’atto che pone termine alla sua carriera politica a nemmeno 50 anni è il referendum che trascina la Gran Bretagna fuori dall’Unione Europea esattamente dodici mesi fa. Indetto per guadagnare consensi e quasi per gioco, diventa un affare tremendamente serio quando la gente vota per lasciare Bruxelles. Che, oltre agli immigrati, portava anche soldi, tanti, ripartiti tra aiuti alle regioni depresse del paese e la possibilità di accedere a un mercato unico e ricco per i tanti servizi e le poche merci britanniche.

Brexit un anno dopo: successo o scelta avventata?

Brexit un anno dopo: successo o scelta avventata?

In quel frangente nasce la meteora di Theresa May. Ministro dell’Interno per sei anni, tiepida sostenitrice del Remain, la signora ha finalmente la grande occasione. Carriera cominciata negli anni Settanta, un marito attaccapanni, più che spalla, May accetta l’incarico come una missione e opera un’inversione a U, trasformandosi in paladina dell’uscita. “Getting the job done“, portare a termine l’incarico, quale che sia, senza farsi domande. Si sciolse in lacrime all’elezione della Thatcher, avrebbe voluto essere lei la prima inquilina al numero 10 di Downing Street. Ora ha l’opportunità di entrare nella Storia dalla porta principale.

Un aplomb altero, la consapevolezza malcelata che la Gran Bretagna post-imperiale non è mai stata un’isola ma un crocevia di relazioni, interessi e soft power, sin da principio non attira simpatie, in patria e all’estero.

Brexit means Brexit“: con questa salsa il primo ministro condiva i primi discorsi e rispondeva a chi chiedeva se, davvero, a Londra fossero sicuri di lasciare un’Unione che già garantiva ampie autonomie. E che, soprattutto, forniva sussidi, non solo costi. La replica era gelida. Gli eredi di quello che fu uno degli imperi più potenti della Storia non hanno paura di affrontare il futuro a viso aperto.

Preoccupata di passare alla Storia più che dell’ordinaria amministrazione, la premier, però, dimentica il fronte interno. La Brexit aveva perso a Londra, ma trionfato nelle periferie del Regno, dove i Leavers  avevano convinto la working class che la colpa di tutti i mali stava a Bruxelles. Immigrazione, attentati, abuso dei sussidi, ospedali al collasso: tutto nello stesso calderone. Quello del 2016 diventa un voto di protesta legato alle condizioni precarie dei molti stanchi di sentirsi raccontare che tutto va bene mentre guardano, col piatto vuoto, la dolce vita della capitale.

Nessuno tra i Conservatori pensa a come avrebbero reagito le masse all’aumento delle tasse universitarie e a manovre come la “dementia tax quando si decide di convocare nuove elezioni per “rafforzare il mandato” in vista di una hard Brexit che comincia a profilarsi problematica e piena di incognite.

E’ un errore. La premier incassa una vittoria monca: sei ministri non vengono rieletti, e, da una maggioranza sicura, i Conservatori si trovano nella necessità di cercare il sostegno del DUP (il Democratic Unionist Party nordirlandese)  per governare. Compagine locale, decisa a recitare fino in fondo il ruolo di veto player – quelle forze politiche il cui unico capitale è la possibilità di dire no – il loro sostegno costa caro.

Il resto è storia di questi giorni. Theresa May prova a formare un governo di scopo per la Brexit, le cui trattative hanno preso il via una settimana fa. L’Unione, dal canto suo, ringalluzzita dai recenti successi elettorali in Olanda e nella Francia di Macron, si mostra compatta. A Londra si comincia a pensare che la strategia massimalista (“No deal is better than a bad deal“, l’ennesimo slogan) non sia più perseguibile. Che qualcuno  a Downing Street abbia pensato a un’alternativa in questi dodici mesi è, però, tutto da dimostrare.

Antonio Piemontese
@apiemontese

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Brexit, May annuncia elezioni a luglio

Theresa May annuncia nuove elezioni a luglio in Uk, “per avere un mandato più ampio sulla Brexit”. E se, questa volta, vincesse il Remain? Il popolo dà, il popolo toglie, volontà popolare rispettata e niente uscita dalla Ue, con un Parlamento in grado di assumersi la responsabilità di ratificare questa inversione di rotta . In pratica, sarebbe l’unico modo per uscirne puliti, rimediare all’errore di Cameron e restare nel mercato comune. Se i britannici ieri, poco informati e blanditi dai populisti, hanno scelto in maniera inconsapevole, questa volta lo faranno a ragion veduta, dopo un anno di dibattito sui media, senza la pressione della campagna elettorale e dopo aver intravisto le conseguenze. Senza contare che il Leave vinse di pochissimo, e se quel giorno su Londra e, dintorni non si fosse abbattuto uno dei peggiori nubifragi degli ultimi anni, probabilmente lo scarto sarebbe stato ancora minore, poche decine di migliaia di voti. Pochi, per una decisione che cambia la storia. Resta da vedere che posizione assumeranno i partiti, dato che gli schieramenti erano trasversali già nel 2016. Stiamo a vedere. A me sembra una buona notizia.

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May, una Brexit incerta per superare la Thatcher

Theresa May ha affermato che “Nessun accordo sulla Brexit è meglio che un cattivo accordo”. In realtà, come spiega molto bene Bloomberg, le cose non stanno così.
La sicumera del primo ministro inglese ha il sapore del bluff: un modo per presentarsi al tavolo delle trattative da una posizione forte, che incuta timore agli avversari, ma con la consapevolezza di avere in mano carte mediocri. A volte, si vince anche così. Dipende da chi sta dall’altra parte.

Prima di ricevere il mandato di traghettare il Regno Unito fuori dalla Unione Europea, May faceva campagna per il Remain: dopo l’incarico a Downing Street, la musica è cambiata. Qualcuno si chiede perché.

Per capire la strategia della Signora, bisogna, innanzitutto, comprendere il personaggio.
Chi la conosce bene, ricorda quando la giovane conservatrice Theresa seppe dell’incarico a Margareth Thatcher. Ci rimase male: avrebbe voluto essere lei la prima donna a varcare la soglia di Downing Street. Da premier.

Lo smacco la scoraggia solo temporaneamente. La carriera politica di May prende le mosse e la condurrà fino al ministero degli Interni. Ma la Thatcher resta un’ossessione. Del resto, le somiglianze con la Lady di ferro non finiscono qui: entrambe, ad esempio, non vengono da famiglie ricche, ed entrambe hanno a fianco un marito che è un pallido comprimario.

La svolta della vita avviene il 24 giugno scorso, quando, all’indomani del voto, l’allora premier David Cameron è costretto alle dimissioni. Per la successione, si fa il nome di Boris Johnson, ex sindaco di Londra e paladino anti UE. Ma qualcuno ritiene che il ciuffo biondo e le maniere a dir poco tranchant di Johnson mal si adattino a un negoziato che si annuncia lungo e complesso. Un negoziato, ai piani alti si sa, gravido di conseguenze per il futuro. Serve qualcuno non eccessivamente compromesso, in grado di discutere tutti i punti dell’accordo senza concedersi atteggiamenti sopra le righe che poco piacerebbero agli impacciati burocrati di Bruxelles. In altre parole, un servitore dello Stato, più che di se stesso, lontano dal personal branding e vicino, invece, agli interessi del Regno. I conservatori, che sulla Brexit erano divisi, pensavano di averlo trovato in Theresa May.

Chiamata a sbrogliare il pasticcio del referendum, la nostra ha finalmente l’occasione di passare alla storia, e legare il nome al momento perfetto della rinnovata democrazia britannica. Theresa sa che gli anni passano, e la carriera potrebbe presto giungere al capolinea: non ha intenzione di lasciarsela sfuggire. Ecco perché accetta di buon grado la missione, nonostante configuri un cambio di schieramento: da tiepida attivista pro-Remain ad alfiere del Leave. Con pragmatismo British, da quel momento in avanti, impersonerà il volto e la figura della Brexit.

Per prima cosa riorganizza le truppe allo sbando dopo il referendum. L’esito della consultazione è stato, infatti, talmente inaspettato che non esisteva un vero piano per il dopo.

Poi, comincia a girare l’Europa, alternando bastone e carota. Da una parte il Regno Unito vuole avere una “relazione speciale e privilegiata” con il continente, magari restando nel mercato unico. Dall’altra, il mantra è ”Brexit means Brexit”. Non manca qualche stilettata, per togliere l’impressione che in riva al Tamigi serpeggi una certa paura: ad esempio, la minaccia di trasformare Londra in paradiso fiscale per arrestare la temuta emorragia di compagnie finanziarie.

Si tratta di una tattica negoziale basilare, consolidare le proprie posizioni per  presentarsi al tavolo mostrando fermezza. In realtà, a Downing Street sperano che l’Europa si suicidi con i voti cui, nei prossimi mesi, alcuni stati chiave saranno chiamati. In gergo calcistico si direbbe che a Downing Street stanno “gufando”, sperando che le forze nazionaliste fiacchino dall’interno l’Unione e magari ne allentino i vincoli. A quel punto, perché no, si potrebbe anche restare dentro.

Con l’Olanda è andata male: il populismo non ha sfondato. La prossima tappa è la Francia, e fra qualche mese sarà la volta della Germania. Se l’UE supererà queste prove, e troverà una propria compattezza, il bluff verrà scoperto. Personalmente, a quel punto, non sono convinto che la Gran Bretagna non ci ripensi.

@apiemontese

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Brexit, cosa vuole davvero Theresa May?

Non l’avesse May detto. Il gioco di parole rende il clima attorno a Downing Street dopo le rivelazioni del Guardian di stamane. Il quotidiano ha riportato un discorso della premier britannica tenuto a maggio di fronte alla platea di Goldman Sachs. L’allora ministro dell’Interno, oggi dura nei confronti dell’Europa, si schierava decisamente a favore del Remain.

Nel corso dell’intervento, May avvertì sulle possibili conseguenze della Brexit per le imprese britanniche, sottolineando che molte aziende avrebbero potuto spostarsi sul continente in caso di uscita dal mercato unico. Il settore finanziario era, ovviamente, in prima fila. Non è la prima volta che la banca d’affari americana invita politici in carica per incontri a porte chiuse destinati a creare imbarazzo: nel 2013, Hillary Clinton tenne un discorso riservato nel quale si mostrò parecchio morbida nei confronti di Wall Street. Una contraddizione con la politica attuale che Wikileaks ha riferito nei giorni scorsi nel tentativo di screditarla.

La coerenza, si sa, in politica può diventare un peso, e alla bionda inquilina di Downing Street è toccato lo stesso destino.  In un altro intervento, risalente ad aprile, May rivelava che il controllo dell’immigrazione  non le sembrava una priorità rispetto alla permanenza nel mercato unico. Strumenti comunitari come il mandato d’arresto europeo – sosteneva –  erano, anzi, armi adeguate a fronteggiare il problema degli irregolari.

Che cosa sia cambiato è difficile dirlo. Al suono dello slogan “Brexit means Brexit”, May ha sostenuto, in proprio o per interposta persona, posizioni molto dure sul tema,  probabilmente con l’intento di alzare la posta per trattative che si annunciano difficili.

Nel gioco di specchi delle statistiche, serve una certa conoscenza dell’economia politica per capire cosa stia realmente accadendo in UK dopo il 23 giugno. Il crollo della sterlina, l’indicatore più citato, dice poco. Inizialmente, anzi, favorisce le esportazioni, drogando l’economia come facevano le svalutazioni della lira.

Un esempio può servire a spiegare le variabili in gioco. Settore aeronautico. I profitti della compagnia low cost Easyjet sono scesi per la prima volta dal 2009 nell’anno fiscale chiuso il 30 settembre: un calo del 28% rispetto al 2015, dovuto all’impatto del terrorismo sui voli turistici a corto raggio e ai costi fissi come, ad esempio, quello del carburante (pagato in dollari) o dei servizi aeroportuali (pagati in euro). Il rischio di cambio ha giocato, in questo caso, a sfavore del vettore basato a Luton. Una tragedia, se non fosse che, parallelamente, i passeggeri hanno registrato un aumento record grazie ai biglietti meno cari. Il risultato è un calo contenuto, che però nasconde insidie: 495 milioni di sterline di profitti contro i 516 attesi sono una differenza trascurabile, ma i numeri vanno interpretati e dietro alle dichiarazioni di facciata,  i dirigenti di Easyjet sanno che il momento non è favorevole.

Lo stesso effetto si verifica grossomodo nell’economia reale. Londra, una delle città più care al mondo, sta tornando ad essere una meta conveniente per i turisti europei e americani, e non manca chi rifà la fornitura di computer aziendali comprando quelli dismessi dagli uffici dalla City: mai stati così convenienti.  Ma se turismo ed esportazioni contribuiranno a far girare l’economia,  le importazioni peseranno parecchio. I primi effetti potrebbero mostrarsi nel settore dell’energia, dove i prezzi sono espressi in dollari. E con il petrolio così basso, un aumento improvviso del prezzo del barile potrebbe costare molto caro, in tutti i sensi, a partire dall’inverno.

Il diavolo sta nei dettagli, e il castello di retorica comincia a scricchiolare. Nei giorni scorsi Microsoft ha annunciato un adeguamento delle tariffe nel Regno Unito. Il colosso di Redmond aumenterà il costo dei propri servizi business e cloud sul modello di quanto già avvenuto in Svizzera e Norvegia (dove circolano, rispettivamente, il franco e la corona). I prezzi sono destinati a salire  fino al  22% a partire dal primo gennaio 2017: pressappoco quanto è calata la sterlina rispetto all’euro.

Nei piani strategici delle aziende, la Gran Bretagna è legata a doppio filo all’Europa, e Microsoft è solo la prima di una serie di compagnie che saranno costrette a cambiare. Gli effetti non sono calcolabili.

Nessuno, al momento, sa cosa accadrà. La Brexit come ce l’eravamo immaginata non è ancora avvenuta. L’articolo 50 del Trattato europeo non è stato attivato da Downing Street, e la data continua a slittare. Le stoccate nei confronti dei cittadini Ue residenti sul suolo inglese lasciano intendere che il governo voglia usare i loro diritti come merce di scambio al tavolo delle trattative. Ed esiste l’ipotesi che, calmati gli animi, si stia lavorando a una exit strategy che dia l’impressione di salvaguardare l’esito del referendum. Ma che, al contempo, ne eviti gli effetti disastrosi. (foto: The Independent)

Antonio Piemontese
@apiemontese

(L’articolo originale è uscito su Londra, Italia del 26 ottobre 2016

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Brexit, che succede adesso?

Brexit, siamo day after. Dopo la sbornia elettorale, nella capitale inglese si pensa a come gestire un risultato che molti, forse neppure chi lo ha caldeggiato, si aspettava. Boris Johnson, l’ex sindaco di Londra capofila del fronte Leave, e’ apparso teso in conferenza stampa. Cameron ha dato le dimissioni, mentre l’Unione Europea precisa che il divorzio non sara’ consensuale e spinge a fare presto. Bruxelles teme l’effetto domino, e deve tutelarsi.

Intanto, Scozia e Irlanda – che hanno votato per il Remain – minacciano di lasciare il Regno Unito: gli scozzesi, in particolare, riproporrebbero il referendum per l’indipendenza che nel 2014 non ebbe esiti, per tentare di restare nella UE.

Ma c’è un altro spettro che si aggira per Londra. Il timore, fondato, di una crisi immobiliare, che potrebbe avere conseguenza devastanti sull’economia.

L’articolo originale è stato pubblicato su Londra, Italia, e lo trovate qui.

Canary Wharf, il nuovo distretto finanziario, l’emblema della Londra capitale globale, rischia di diventare una città fantasma, tra viali vuoti e i grattacieli rimasti a memoria del tempo che fu. I bei negozi di lusso e i palazzi con portieri in livrea non si riempiranno ogni mattina di manager dal portafoglio imbottito e il gusto per il gessato, di neolaureati rampanti in cerca di denaro e signore in tallieur con tacco a spillo e borsa di Prada che lavorano in finanza. La reazione all’uscita sarà rapida e i mercati, come al solito, non stanno a guardare.

Brexit, il giorno dopo. Separata de facto dall’Unione, ma divisa anche all’interno, la Gran Bretagna è confusa. Qui sotto un grafico con le 5 domande sull’Unione Europea più poste a Google in UK il day after: la seconda è “What is the EU?”, segno che molti hanno votato senza conoscere lontanamente la questione. Credendo, in sostanza, di votare contro la crisi e gli immigrati, i britannici si sono auto-inflitti una recessione che potrebbe lasciare macerie dietro di sé.

goggle questions brexit

Smaltita la sbornia per la vittoria, le dimissioni di Cameron hanno lasciato un vuoto proprio nel momento in cui ci sarebbe bisogno di una guida. Il premier, ovviamente, non può restare: ma Boris Johnson, ex sindaco di Londra e capo del fronte del Leave, in conferenza stampa è apparso contratto, nervoso: come non si aspettasse di vincere, e dover gestire una patata bollente che non può passare a nessuno. La sterlina si alleggerisce, e brucia nelle tasche di chi la possiede, e assieme al calo della Borsa determina una situazione esplosiva  cui si aggiunge un possibile (e probabile) crollo del mercato immobiliare.

L’indice FTSE 100 ieri ha chiuso in perdita del 3.15%. Calo contenuto? Non proprio. Nell’indice, che considera le prime 100 imprese per capitalizzazione, compaiono molte compagnie che con il Regno Unito non hanno niente a che fare, a parte la residenza per fini fiscali. Un dato più significativo si ottiene guardando all’FTSE 250, che comprende una quota maggiore di imprese concore business nel Regno Unito: questo scende del 7,19%. “Depurandolo” ulteriormente dalle aziende sostanzialmente estranee al paese dal punto di vista strategico, e considerando le aziende inglesi in tutto e per tutto insomma, si stima, invece, una perdita attorno al 10%.

Le cose non vanno meglio sul piano monetario. Verso l’una del mattino di venerdi, quando le voci di corridoio sui risultati dei primi collegi “sentinella”  hanno cominciato a diventare definitive, il valore della divisa britannica è crollato. Dopo il risultato di Gibilterra, che aveva votato al 96% per il Remain, l’entusiasmo è calato ben presto. Già un’ora dopo, il fronte del Leave è passato in testa, e non ha mai più ceduto il passo. Nei comitati e nelle sale stampa le facce hanno cominciato a rabbuiarsi solo verso le due, come vi abbiamo raccontato in diretta, ma la finanza non dorme e a quell’ora chi aveva in portafogli titoli vendibili se ne era già sbarazzato. Per quanto possibile, si intende.

I mercati hanno reagito al Brexit peggio di quanto abbiano fatto dopo il crac di Lehman Brothers” spiega Andrea Beltratti, direttore dell’Executive Master in Corporate Finance alla Bocconi in un’intervista. In Gran Bretagna non si produce più quasi nulla: si trasformano materie prime, e si forniscono servizi ad alto valore tecnologico. La finanza è il motore dell’impressionante flusso di denaro che gira su Londra, dove, chi è ricco, è veramente ricco, a dispetto di una working class ampia che fatica a tirare la fine del mese.

Per la City si aggira lo spettro di una crisi immobiliare. Il grafico qui sotto (fonte: Halifax) mostra l’andamento del mercato di settore in UK negli ultimi dieci anni, e la situazione patrimoniale delle principali banche, esposte in mutui immobiliari per miliardi di pounds: Barclays per £126bn, Lloyds (il cui titolo  ha perso il 21%) addirittura per £289bn. Cosa potrebbe accadere?

Proviamo a immaginare lo scenario più catastrofico. Il valore delle case a Londra dal 2008 (crisi dei mutui, crisi Lehman) al 2016 è salito di quasi l’80 %. Una bolla senza precedenti. La Gran Bretagna, anche grazie all’ampia autonomia, è uscita dalla crisi meglio e più in fretta rispetto agli altri, e la capitale si è lanciata verso un periodo di sviluppo che sembrava destinato a durare. Nuove costruzioni, le Olimpiadi, un’attenzione internazionale che tornava.

mercato immobiliare ukLe banche, attente a non ripetere gli errori del passato, hanno concesso mutui a giovani rampanti della finanza, considerati pagatori affidabili, con cifre pari anche al 100 del valore dell’immobile: assieme al mutuo per la casa, l’istituto ne concedeva un altro con cui lo yuppie poteva comprarsi la macchina dei sogni. Unico vincolo, versare tutti i propri introiti sul conto corrente. Pochino. I mutui si concedono in base all’affidabilità, e questo segmento di popolazione è caratterizzato da alto reddito, scarsa propensione al risparmio e tenore di vita al top.

Ma se la miccia è già stesa a terra, il fiammifero potrebbe essere la decisione delle grandi banche d’investimento di muovere i propri headquarters da Londra ad altre zone del mondo fiscalmente vantaggiose. Ad esempio il Lussemburgo, ma anche Hong Kong. Già il 16 giugno, una settimana prima del voto, il Times riportava che JP Morgan ed Hsbc avevano cominciato a prepararsi a un’eventuale Brexit valutando lo spostamento di alcune divisioni in Lussemburgo, per evitare le regole che rendono oneroso condurre il business al di fuori dell’Eurozona. Con l’uscita che si materializza (e l’UE che mette pressione perché accada in fretta) molti altri istituti potrebbero seguirle. Le conseguenze? Chi lavora in finanza sa cosa sta per accadere: prima ancora di essere licenziato, cercherà un altro lavoro altrove, magari all’estero. Si determinerà una forte pressione di vendita sull’immobiliare, e un rapido calo dei prezzi.

Torniamo per un momento ai Lloyds, la banca più a rischio con il 65% dei propri libri contabili esposti a una crisi nell’immobiliare UK. Se i prezzi sono saliti tanto rapidamente, significa che sull’onda dell’entusiasmo le case sono state pagate più di quello che valgono. Per chi ha un lavoro si tratta, semplicemente, di un investimento che si deprezza; il problema comincia con chi perde l’impiego, e il Brexit potrebbe mettere molti a rischio. In caso di insolvenza, le banche si rifanno vendendo all’asta la casa del debitore per rientrare. Ma con il mercato in picchiata, gli introiti non riuscirebbero a coprire l’importo prestato per il finanziamento. Quei mutui, come nel 2008, venivano considerati sicuri dalle agenzie di rating, e piazzati in fondi acquistati da chi cercava garanzie. Le conseguenze sono note: si diffonde il panico, e la spirale comincia ad avvitarsi. La crisi, dalla finanza, passa all’economia. Chi si ritrova invischiato nel settore va in rovina.

Il futuro del paese dipende, quindi, dai rapporti che il Regno Unito riuscirà a negoziare dopo l’uscita dalla UE, e non c’e’ da aspettarsi buonismo. Nonostante la procedura sia stata creata con il Trattato di Lisbona del 2009 non ha mai trovato impiego. Il presidente della Commissione Europea Juncker ha chiesto alla Gran Bretagna di formalizzare quanto prima l’uscita dall’Unione, precisando che non sarà un divorzio consensuale. Fino ad allora, il paese è vincolato ai doveri di appartenenza, oltre a goderne dei relativi diritti.

Il problema, per Bruxelles, è il contagio: senza una punizione esemplare, c’è il rischio che la voglia di uscire dall’Unione Europea si diffonda a macchia d’olio sulla scorta dei movimenti populisti interessati alla propria sopravvivenza immediata piu’ che al futuro. La tornata referendaria ha avuto se non altro il merito di individuare i temi caldi che potrebbero portare altri paesi a chiedere una consultazione analoga:  spesa pubblica alta, benefit eccessivi, terrorismo, immigrazione e allargamento a Est, soprattutto, alla Turchia.  La lobby di chi esporta verso l’UK eserciterà pressioni nei confronti dei governi, e della stessa Bruxelles, per continuare le relazioni economiche con la Gran Bretagna: ma il paese, non producendo quasi nulla, sarà ugualmente costretto a importare, a condizioni di favore o meno.

Intanto, si apre il fronte interno. Il Regno Unito è diviso come non mai. Il “giorno dopo”, alcune delle grandi bugie raccontate durante la campagna elettorale cominciano a rivelarsi per quello che sono, frottole. Le cifre sui risparmi che si preparano nell’immediato grazie all’uscita sfigurano rispetto a quelle sui costi, per non parlare dei benefit agli stranieri, che con gli accordi a febbraio erano stati bloccati per anni e quindi si sarebbero fermati comunque.  Tra ritrattazioni e precisazioni, non sono in molti a volersi prendere la responsabilità di gestire la crisi, almeno nella fase piu’ delicata.

Scozia e Irlanda vogliono restare attaccate al treno del Vecchio Continente. Gli scozzesi potrebbero convocare un secondo referendum dopo quello del 2014 per decidere se separarsi dall’Inghilterra: come dire, il problema siete voi, non l’Europa. L’Inghilterra stessa è spaccata: nel complesso ha votato contro l’Unione, ma la capitale, Londra, si è espressa a favore. Le polarizzazioni sono evidenti e nessuno sa sul serio come gestirle.

Le analisi, infine, dicono che a votare Remain sono stati tanti giovani sotto i 24 anni e molti laureati, a cui sarà tolta la possibilità di girare il continente come è concesso ai loro coetanei. Il conto dell’uscita decisa dagli anziani sarà pagato, come sempre, dalle generazioni che c’entrano meno.

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La Gran Bretagna divisa lascia: è Brexit

Erano le sei ora italiana quando è stato chiaro che aveva vinto il Leave. Le colpe di Cameron, il nazionalismo di Farage, il personalismo di Boris Johnson, persino il maltempo: tutto ha giocato contro la permanenza. Dopo una lunga notte passata a coprire il referendum in diretta per Londra, Italia, le analisi vanno a farsi benedire e le parole sgorgano dal cuore. Riporto integralmente il pezzo che ho scritto a caldo per il quotidiano della capitale britannica come documento, o forse solo per condividere una delle emozioni più forti che mi è capitato di provare durante la mia carriera di giornalista.

“Sarà Brexit. Mentre si contano gli ultimi voti, il risultato vede il Leave raccogliere il 51,8% dei consensi, mentre il Remain si ferma al 48,2%. Il paese si è spaccato ma la maggioranza ha deciso, puntando sull’uscita di Londra dall’Unione Europea. La sterlina crolla su se stessa. Il Regno Unito, guidato da un leader che prima ha voluto il referendum e poi lo ha perso, si ritrova praticamente privo di un governo. Se, anzi quando, David Cameron lascerà il passo, sarà molto probabilmente Boris Johnson a succedergli.

Lungi dall’essere un esempio, come tante volte è stata, la Gran Bretagna mette in luce i limiti della democrazia diretta ponendo fine al sogno europeo. Ai sudditi di Sua Maestà, si sa, piace scommettere, ma questa volta l’azzardo potrebbe costare caro. Le conseguenze arriveranno a cascata. Chi ha il patrimonio in pounds si trova da un giorno all’altro impoverito, mentre l’instabilità dei mercati non gioverà a nessuno, a partire dal Vecchio Continente. La Brexit ha creato un precedente, e adesso si sa che si può uscire dall’Unione, e come farlo. E pazienza se è il risultato di uno sforzo che definire populista è riduttivo, dove qualcuno degli attori (Nigel Farage, leader dell’Ukip) è arrivato ad accusare gli immigrati del troppo traffico sulle strade dopo essersi presentato con sei ore di ritardo a un convegno. Si apre una fase nuova. Londra ha scritto una pagina di Storia, un’altra volta. Con l’alba tramonta l’Unione Europea come l’abbiamo conosciuta. Sarebbe cambiata comunque, ma in questa maniera è tutta un’altra cosa.

Il pensiero va ai nostri connazionali che hanno puntato sul Regno Unito per rifarsi una vita, in maggioranza giovani, ma non solo. Londra ha accolto tutti, ha dato una possibilità anche a chi era avanti negli anni, e adesso tutto questo, semplicemente, rappresenta il passato. Senza visto, niente lavoro. Semplice. Un po’ come da noi. E improvvisamente ci scopriamo – ma chi a Londra ci vive lo sapeva da tempo –  immigrati. Trattati con sufficienza, poco integrati, anche se fondamentali. Trattenere i migliori, gli altri si arrangino. E’ accaduto in una fredda notte d’inizio estate. Forse è giusto così. Ma adesso lasciateli provare a immaginare un futuro lontano dal paese in cui avevano riposto i sogni”.

 

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esteri, londra

Brexit, le colpe di Cameron

Ci siamo. Dopodomani si decide sul Brexit (Great Britain Exit), espressione giornalistica per definire l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. La consultazione è stata convocata dal premier David Cameron, che con questa arma guadagnò parte del sostegno necessario a vincere le elezioni del 2015 e a formare un governo monocolore contro buona parte delle previsioni.

Nel febbraio scorso Cameron volò a Bruxelles per un summit tra i vertici UE. L’obiettivo era strappare una modifica degli accordi, una specie di statuto speciale per la Gran Bretagna che garantisse un sostegno alla campagna per restare in Europa. La strategia era quella di depotenziare il referendum concordando a livello politico garanzie particolari: servivano prede da dare in pasto a un paese sempre più allarmato dalla violenza, dal costo della sanità pubblica e dai benefit profusi agli stranieri che arrivavano in massa. Argomenti sfruttati dalla propaganda nazionalista in maniera spesso alquanto discutibile, ma efficace (vedi foto).farage road delays

Le negoziazioni a Bruxelles furono estenuanti. Il premier non ottenne tutte le concessioni, ma anche se la vittoria non fu netta, riuscì a garantire al paese mani sciolte rispetto a un’Unione che mirava a diventare “sempre più stretta”, oltre che lo stop temporaneo dei benefit agli stranieri. Last but not least, le modifiche sarebbero state cristallizzate con l’inserimento del testo nei trattati UE, da effettuare alla prossima “apertura” dei documenti: al momento è limitato al rango di semplice  accordo intergovernativo.

Tanto doveva bastare, nella mente dell’ex Eton e Oxford, a rassicurare gli elettori. Io “non amo Bruxelles, amo la Gran Bretagna e il mio lavoro è proteggere il mio Paese”, sottolineava allora, garantendo che, grazie all’accordo, Londra sarebbe stata “fuori da un’Unione sempre più stretta, fuori da un super-stato europeo e non adotterà mai l’euro”. In sintesi? “Credo che sia abbastanza per raccomandare che il Regno Unito rimanga nell’Unione Europea, prendendo il meglio dei due mondi”. La filantropia, al contrario del pragmatismo, non è mai stata il piatto forte alla corte di Sua Maestà.

LE MOTIVAZIONI – Per capire in che modo il Brexit sia arrivato all’ordine del giorno, bisogna partire da qualche anno fa, e precisamente dall’allargamento a Est della UE e dalla crisi economica cominciata nel 2008.
Non è un mistero che l’UK, e Londra in particolare, siano la Mecca per moltissimi cittadini europei senza lavoro. Stipendi alti per gli specializzati (la “fuga dei cervelli”) e la possibilità di un impiego, almeno quello, per tutti gli altri, con una serie di benefit statali pronti a scattare quasi subito, tra cui l’assistenza sanitaria gratuita.

Italiani, spagnoli, francesi lo sapevano da anni: ma negli ultimi anni ad attraversare la Manica sono stati sempre più i cittadini  che vivevano al di là di quella che un tempo fu la Cortina di ferro, in cerca della possibilità di rifarsi una vita. I documenti comunitari consentono di passare la frontiera senza problemi per approfittare delle occasioni che la Gran Bretagna può offrire.
Gli imprenditori, in massima parte, apprezzano: manodopera a basso costo, composta da disperati senza possibilità di contrattare e disposti a fare i lavori che i Britons scartavano. Le procedure burocratiche per i comunitari erano ridotte ed esentavano i nuovi venuti dall’obbligo del visto di lavoro. Una pacchia per le migliaia di ristoranti della capitale, per l’edilizia, l’assistenza domiciliare di malati (badanti e infermieri). E infatti, complice la ricchezza circolante e la crisi che colpiva ovunque, ma non qui,  Londra si è trasformata parecchio negli ultimi anni.
Interi quartieri sono stati costruiti o riqualificati, il valore delle case è salito alle stelle e la sterlina si è rafforzata. Come meta turistica, la capitale inglese ha pochi paragoni, complici anche eventi di risonanza mondiale come le Olimpiadi del 2012, l’offerta di concerti e prime visioni di risonanza globale, il teatro.

Non solo. Sempre più lavoratori qualificati hanno continuato a prendere il traghetto a Calais (o l’Eurotunnel alla Gare du Nord) per cercare gloria in UK: ingegneri, scienziati, medici, e così via. La strategia del soft power inglese prevede che questi “talenti” siano incentivati a legarsi alla Gran Bretagna a livello affettivo, per averli sempre a disposizione al servizio della nazione. A volte funziona, a volte meno. Nell’industria e nella ricerca, di solito, lo fa. Ma nelle sale d’aspetto dei pronto soccorso non è infrequente trovare un medico greco che cerca di curare un paziente del Bangladesh: entrambi parlano un inglese approssimativo (sempre ammesso che il paziente lo conosca),si comunica a gesti, il  tutto sotto gli occhi di un’infermiera magari spagnola che non può fare niente per aiutarli.

UMANO, TROPPO UMANO – Da qui  a prendersela con gli immigrati il passo è breve per politici che intravedono la possibilità di fare il colpo della vita. Legarsi al treno del Leave è una tentazione forte; non solo per Farage e la sua Ukip, ma per un clan trasversale che trascende gli schieramenti e vede lo stesso David Cameron contrapposto a ministri e parlamentari conservatori di peso. Non sta meglio Jeremy Corbin, leader dei laburisti: simpatie – e anche qualcosa in più – a sinistra, ma una base e un gruppo dirigente divisi.

Ma per chi conosce un po’ le cose del Regno Unito, l’impressione è che la questione sia stata ampiamente strumentalizzata. Da Cameron, innanzitutto.
La Gran Bretagna gode da sempre di uno status particolare all’interno dell’Unione Europea, il cui aspetto più visibile è che non ha aderito alla moneta unica. A Londra si usa ancora la sterlina, e i trattati di Schengen sulla libera circolazione sono applicati solo parzialmente.

Il referendum è stato un ottimo argomento da campagna elettorale: ma probabilmente l’arma è sfuggita di mano al leader britannico che ora si trova a gestire una patata bollente. Certo Cameron non poteva prevedere il terrorismo e l’insicurezza diffusa di questi mesi. Ma la democrazia diretta presuppone questioni semplici e basi elettorali  informate e ristrette: due condizioni che in questo caso mancano del tutto, rendendo la votazione un’incognita. Il premier non ha la statura e l’eloquio di Obama,  forse nemmeno di Blair: è un cinquantenne di ottima famiglia con l’aria da bambinone, che si trova al comando di una delle nazioni più influenti del mondo, ma non è in grado di spostarne gli equilibri col carisma personale.

LE CONSEGUENZE – In caso di vittoria del Leave, le conseguenze di un’uscita della Gran Bretagna sull’economia interna sarebbero importanti, a partire dal valore della sterlina, che crollerebbe. I contratti internazionali e gli accordi intergovernativi andrebbero discussi da capo introducendo un vuoto normativo e una fase di incertezza che potrebbe protrarsi per una decina d’anni. Le conseguenze sull’economia reale non sarebbero da meno. La manovalanza disperata e a basso costo che adesso abbonda scarseggerebbe, mettendo in crisi moltissime attività costrette a chiudere.
Molti capitali lascerebbero la City, e si aprirebbe una crisi dell’immobiliare con un calo dei prezzi dovuto alla perdita del ruolo di capitale finanziarie dell’Unione Europea. Gli headquarters delle grandi società potrebbe muoversi altrove (Francoforte, qualcuno anche a Milano), impoverendo la città e costringendo a ripensarne la geografia a partire dallo skyline di aree come Canary Wharf. Sarebbe la fine della libera circolazione delle merci tra l’Isola e il continente, con conseguenti dazi e dogane a gravare sulle merci made in UK.
Risulta difficile immaginare che i rapporti a livello governativo possano essere gli stessi. L’uscita del Regno Unito potrebbe essere interpretata – per una volta – come una sfida da un’Unione Europea in cerca di identità.
Oltre Atlantico, gli USA, interessati alla stabilità dei mercati, hanno mostrato di preferire la permanenza della Gran Bretagna all’interno dell’Unione. Non solo: Londra rappresenta una testa di ponte troppo importante per contrattare con la UE, ad esempio sul  recente trattato di libero scambio, la cui approvazione è osteggiata nel Vecchio Continente  da una discreta fetta di popolazione.
Per la Gran Bretagna si aprirebbe, in sintesi, un periodo di incertezza difficile da gestire, che richiederebbe mano ferma e capacità di governo di cui probabilmente non dispone.

I vantaggi ovviamente non mancano. La sovranità monetaria senza scadenza, mano libera negli accordi internazionali, possibilità di chiudere le frontiere e di cercare alleanze su misura per un mondo che sta cambiando. Russia (ma con quali complicazioni?), Cina e India sono tra i possibili partner. Uscire dalla UE renderebbe inoltre nulle le disposizioni comunitarie, consentendo politiche su misura e un risparmio economico sulle cifre versate ogni anno nelle casse dell’Unione: un ottimo specchietto per le allodole.

INCERTEZZA – Come andrà a finire, nessun lo sa. Dopo l’assassinio di Jo Cox, pare che il vento, che nelle scorse settimane spirava in favore del Brexit, stia cambiando. La cronaca nera potrebbe aver scosso l’opinione pubblica dal torpore più delle parole dei leader. Non essendoci precedenti in Europa, non è possibile fare stime accurate dell’affluenza alle urne, variabile importante. Ma, comunque vada a finire, di questo lungo giugno resteranno due lezioni. La prima è il patrimonio di conoscenze sulle motivazioni che spingono a un popolo a voler uscire, e che rimarrà a disposizione di chi resta. In UK il dibattito è stato snocciolato, sviscerato da mesi: molti nodi sono stati individuati, a beneficio di chi saprà farne tesoro.
La seconda è che quando si usa la politica per fini personali, spesso se ne paga il conto.

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