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Un crowfunding per Hope, documentario sulla Cop30

Li ho conosciuti in questi anni passati in giro per il mondo a seguire conferenze sul clima, le Cop: da Glasgow a Sharm El Sheikh, da Dubai a Baku loro c’erano, cellulari e pc alla mano, per raccontare quello che accadeva. Sono giovani, svegli, preparati. Soprattutto, lavorano bene sui media digitali per portare a un pubblico ampio i temi del cambiamento climatico – quello che in ambito universitario viene chiamato disseminazione della conoscenza: perché la ricerca non basta, se non impara a uscire dai corridoi degli atenei.

L’associazione è Change For Planet, e per la Cop30 di Belém (Brasile, in scena a novembre) ha pensato di girare un documentario che racconti le contraddizioni dello Stato sudamericano. “Nel cuore pulsante dell’Amazzonia, tra Belém e Manaus, seguiremo il cammino di giovani attivisti e attiviste dall’Europa e dall’America Latina, uniti a ong e comunità indigene che ogni giorno affrontano, vivono e combattono gli effetti della crisi climatica”, dice la presidente Roberta Bonacossa. Un lavoro ambizioso e indipendente, per raccontare gli aspetti meno mediatici dell’appuntamento.

Hope, questo il nome del progetto, sarà finanziato da un crowdfunding. Aiutarlo con un piccolo contributo è un’idea da considerare (qui ci sono tutte le informazioni per farlo): Change for Planet ha svolto un ottimo lavoro in questi anni, e merita la chance di salire sull’aereo per il Sudamerica. L’opera di divulgazione che l’associazione ha portato avanti non ha padrini compromessi con il mondo delle fonti fossili  ed è ritenuta da molti giovani più affidabile (non a torto) di quella di tanti giornali.

Ma la scelta di finanziare questi ragazzi ha anche il senso di farli crescere come professionisti, consentendogli di lavorare a un progetto strutturato e più ambizioso di quelli realizzati finora. La Cop30 brasiliana sarà una conferenza mediatica, preparata per Instagram e per catturare like, e c’è bisogno di voci alternative, fuori dal coro. In bocca al lupo.

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Troppi partecipanti: chi può permettersi di organizzare le Cop?

Dubai – Pare che nessuno voglia organizzare le prossime Cop. O possa permetterselo. La conferenza viene assegnata a turno, procedendo per macroaree , ma è necessario il consenso di tutti i paesi della zona per ottenere l’incarico. L’anno prossimo toccherebbe all’Europa dell’est, ma il veto della Russia, contraria a paesi Ue per via del sostegno all’Ucraina, rischia di bloccare tutto. Se l’accordo non arrivasse, le regole prevedono che tocchi all’ultimo organizzatore, cioè gli Emirati. Ma il presidente Sultan al Jaber ha già detto, in sostanza, che il Paese non è disponibile.  Si valuta l’idea di andare a Bonn, dove tutto cominciò negli anni Novanta. Ma anche la Germania non ci tiene. E nelle ultime ore ha preso quota l’ipotesei Azerbaijan. Come finirà lo vedremo.

Il fatto è che le conferenze stanno diventando sempre più grandi: quest’anno ci sono circa ottantamila partecipanti. Anche una città come Dubai e una struttura come quella del centro congressi costruito per l’Expo 2020 faticano a ospitarle. Il record precedente appartiene a Sharm el Sheikh l’anno scorso: praticamente un raddoppio in dodici mesi. Bonn, città di trecentomila abitanti, non potrebbe permetterselo. Anche per la difficoltà di alloggiarle: come si vide bene a Glasgow, con stanze affittate anche a cinquemila euro a notte dagli speculatori, e delegati che dormivano a due ore di treno.

A Dubai invece gli spazi ci sono, ma il problema sono le code dovute ai controlli che le procedure antiterrorismo impongono. I primi giorni servivano anche due ore per entrare. Il che pesa, e parecchio, sulla fatica dei delegati, le cui giornate cominciano molto presto e finiscono, al solito, molto tardi. La situazione è migliorata, ora che ci si avvia alla fine.

Insomma, per fare una battuta, a causa delle code pare che non ci sia la fila per organizzare le Cop. Il Brasile ha già prenotato quella del 2025 a Belem, in Amazzonia. Darebbe visibilità a un Paese che si trova ad affrontare una crisi dopo l’altra, l’ultima la siccità proprio nel polmone verde.

Ma se organizzare una conferenza delle parti è il modo per ottenere l’attenzione che molte tematiche richiedono e di cui molti Stati hanno bisogno, il problema è che non tutti sono in grado di gestire un impegno del genere a livello logistico. Da conferenze di nicchia, per esperti, come erano nate negli anni Novanta (la prima a Bonn fece registrare tremila delegati, tutti tecnici), le Cop si sono democratizzate di  pari passo con il ruolo che la crisi del clima ha assunto nel dibattito pubblico.

È il paradosso dell’inclusività – dice Jacopo Bencini, policy advisor della rete di scienziati Italian Climate Network -. Si è risposto sì alle richieste di incremento badge da parte delle delegazioni, che si sono costruite delle professionalità di cui nei primi anni non disponevano e le portano con sé per dare forza all’azione negoziale; ma si è risposto in maniera affermativa anche alle nuove richieste di rappresentanza da parte di media, osservatori e società civile”. Senza parlare dei lobbisti, un esercito che cresce di anno in anno e comprende molti grandi gruppi coinvolti nelle fonti fossili, in grado di mettere pressione ai governi e ai negoziatori. Quest’anno si è toccato il numero record di 2.456 persone con legami con l’industria del petrolio e delle fonti fossili, secondo la stima della rete Kick Big Polluter Out.

Non solo. L’attenzione internazionale può trasformarsi facilmente in un boomerang: tutto deve essere perfetto, nessuno può permettersi di sbagliare con il meglio della stampa internazionale radunato in massa per coprire l’evento. L’anno scorso a Sharm el Sheikh divenne virale il video di una perdita del sistema fognario: un odore nauseabondo per un paio di giorni si sparse sulla vasta area della conferenza, con liquami che scorrevano tra i viali. Non una bella fotografia. Per non parlare del fatto che la costruzione dei siti spesso viene portata a termine con l’impiego di manodopera a basso costo, e l’attenzione mediatica attira le inchieste.

Inoltre, il tema delle proteste: se gli Stati mediorientali negli ultimi due anni non si sono fatti problemi a vietarle nonostante le critiche a livello internazionale, in alcune realtà la faccenda può diventare più problematica, se non altro per una questione di reputazione: non sono molti i governi che ci tengono ad apparire come autoritari.

La somma porta alla difficoltà, per le Nazioni unite, di trovare un sito. L’Australia si è offerta per il 2026; il presidente indiano Modi ha proposto l’India per il 2028. La partita è aperta. Un altro dei nodi da sciogliere per i prossimi anni, e nemmeno il più semplice. In crisi c’è il criterio della turnazione: quello, cioè, che fornisce rappresentatività anche alle aree del mondo meno mediatiche.

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