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Gaza, tre punti fermi

“Per favore, basta con le donazioni in denaro” dice Maha Hussaini, giornalista e attivista palestinese. “Il soldi a Gaza sono inutili dal momento che non c’è niente da comprare nei supermercati” afferma postando la foto di uno scaffale vuoto. Intanto i medici locali rispondono ai colleghi israeliani che avevano affermato in una lettera che bombardare l’ospedale di al-Shifa, il più grande centro medico di Gaza, fosse un “diritto legittimo”. “Avete tradito la vostra nobile professione e ne portate la responsabilità” scrivono. “Come medici siamo ambasciatori di pace”.

A un mese dallo scoppio delle ostilità, la domanda è: come se ne esce? Forse le parole più sensate che ho letto finora sulla guerra Israele – Hamas sono di Stefano Mannoni (giurista dell’Università di Firenze), pubblicate da Milano Finanza.

Il conflitto ha già fatto oltre diecimila morti palestinesi (molte migliaia sono bambini, come sottolineava il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres). Croci che vanno aggiunte alle 1.400 vittime israeliane dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, e sommate ai feriti, alle devastazioni, ai traumi psicologici che ci porteremo dietro a lungo.

“[….] A mio parere – scrive Mannoni – ne discendono un certo numero di conseguenze. La prima è che gli abitanti di Gaza sono le prime vittime di Hamas e non possono pertanto diventarlo due volte – siamo arrivati a 10.000 morti dichiarati – per la sistematica violazione da parte delle forze armate israeliane dei più basici principi di necessità e proporzionalità sanciti dal diritto internazionale umanitario. La punizione collettiva inflitta ai civili, che comincia a innervosire anche gli americani, deve cessare. Si chiamino pure «pause umanitarie», ma esse devono essere implementate con tutto ciò che ne consegue in termini di approvvigionamento della popolazione. […]

In secondo luogo Benjamin Netanyahu, che aveva posto come punto programmatico del suo governo l’affermazione della sovranità israeliana su «Giudea e Samaria» (sic! Tradotto: Cisgiordania occupata) si deve dimettere insieme ai ministri etnoreligiosi che ha imbarcato nel gabinetto, Ben-Gvir e Smotrich.

Terzo, è necessario immaginare un mandato fiduciario delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea su Gaza e Cisgiordania, strettamente temporaneo, per realizzare quello che si chiama lo State building in aree nelle quali le inadeguate dirigenze palestinesi hanno dilapidato fiumi di denaro in corruzione e armi.

Solo a queste condizioni, la soluzione dei due Stati, rispolverata dal cassetto dopo due decenni di oblio, può sperare di piantare qualche radice profonda”.

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esteri, unione europea

Su Israele “l’UE rischia di perdere ogni credibilità”: lettera dei dipendenti a von der Leyen

Ottocentocinquanta dipendenti delle istituzioni europee (su circa trentaduemila) hanno firmato una lettera indirizzata a Ursula von der Leyen che ne critica il “sostegno incondizionato” a Israele. La notizia è stata riportata da Euractiv. Si tratta di un atto insolito, perché a Bruxelles il personale è abituato a girare tra dipartimenti e uffici nel corso di una carriera che resta ambita, ed è, pertanti, attento a costruirsi un percorso in grado di adattarsi agli inevitabili cambi di vento. Non questa volta.

“In particolare, siamo preoccupati dal supporto incoindizionato della Commissione europea che lei rappresenta per una delle due parti” si legge. “Noi, un gruppo di dipendenti della Commissione e altre istituzioni Ue, condanniamo solennemente su base personale l’attacco terroristico perpetrato da Hamas contro civili inermi […] Ma condanniamo ugualmente e con forza la reazione sproporzionata del governo israeliano contro i 2,3 milioni di civili  palestinesi intrappolati nella striscia di Gaza”. “Proprio per via di queste atrocità, siamo sorpresi dalla posizione presa dalla Commissione europea – e anche da altre istituzioni – che hanno promosso quella che sulla stampa è stata descritta come ‘cacofonia europea’ “. I firmatari si dichiarano preoccupati per “l’apparente indifferenza dimostrata nei giorni scorsi dall’istituzione nei confronti del massacro di civili a Gaza, in violazione dei diritti umani e delle leggi umanitarie internazionali”.

Nei giorni scorsi era arrivato il dietrofront della Commissione dopo che il commissario ungherese all’allargamento Oliver Varhely aveva annunciato che l’esecutivo di Bruxelles avrebbe tagliato “tutti gli aiuti” ai Palestinesi, generando la reazione delle altre entità politiche comuni – la posizione dell’Unione viene espressa dal Consiglio, cioè dagli Stati membri, e le sfumature sono parecchie. “Vi invitiamo con urgenza a invocare, assieme coi leader di tutti gli Stati [membri], un cessate il fuoco e la protezione della vita dei civili. Questo è il cuore dell’esistenza europea” hanno aggiunto i firmatari. “L’Europa rischia di perdere ogni credibilità”.

Sabato 22 ottobre un summit per la pace organizzato al Cairo si è concluso senza una dichiarazione finale: il blocco occidentale chiedeva di inserire nel testo solo un riferimento all’attacco di Hamas, senza menzionare i raid israeliani su Gaza. L’opposizione degli altri partecipanti ha portato il vertice a chiudersi con un nulla di fatto.

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esteri

Il Dio della vendetta

Sembrano ultras di una nazionale di calcio dopo la vittoria inaspettata di un mondiale. Sfilano per le strade su pickup Toyota con i corpi dei nemici a bordo, vivi o morti fa poca differenza. Esultano, fucile in braccio, tra la folla urlante, che li riprende col telefonino, uomini, donne, ragazzini in maglietta col cappellino Nike girato. Perché, come spesso capita, non hai l’acqua, ma il gadegt firmato sì, quello che ti illude di essere un po’ come loro, e in realtà scava goccia a goccia il fossato della consapevolezza: come loro, quelli dall’altra parte del muro, coi bei vestiti, le belle scuole, il lavoro alla moda, non lo sarai mai. Invece degli slogan legati al pallone, sbraitano Allahu Akbar; e dalla frequenza ossessiva, completamente avulsa dal contesto, dal tono rabbioso, dalla pronuncia sguaiata, capisci che in chi urla non è presente alcuna di elaborazione; è sfogo primordiale, è isteria collettiva, è nevrosi, forse transitoria psicosi. Distacco dalla realtà, quando è la personalità della massa a prendere il posto dell’individuo; un animale che si nutre degli istinti più bassi, istintivamente consapevole che la folla protegge, la folla esalta, la folla innalza e dà forza. La folla vendica il sangue col sangue.

La vendetta di Israele calerà come una scure biblica. Senza pietà. Senza distinguo. Il Dio – ma dov’è Dio, oggi? – rabbioso del Vecchio Testamento arma la mano dei figli di Davide, e vendicherà i morti.

Nessuno può giustificare la violenza brutale di Hamas, di cui sono piene le immagini dei notiziari di questi giorni. Ma chiediamoci se ha senso reagire allo stesso modo, fino a che punto ci si può spingere per vendicare i propri morti quando si è uno Stato civile e non un’organizzazione paramilitare. Qual è la differenza? Se una differenza c’è.

I falchi dicono che gli arabi, quegli arabi, non capiscono altro linguaggio che quello brutale della forza. Senz’altro i terroristi che hanno invaso Israele uccidendo e gettando granate persino in fondo ai bunker dove la gente si era rifugiata in cerca di riparo erano bestie senza legge: come quelli dell’11 settembre, come quelli del Bataclan, raccontati da Emmanuel Carrere nelll’ultimo libro mentre erano alla sbarra in un tribunale parigino.

Il punto è forse proprio questo. Uno Stato civile fa processi. Reagire con violenza pari o superiore all’affronto per ripristinare la deterrenza ha senso? Si può realmente sperare che una popolazione disperata, affamata, senza acqua, costretta a vivere schiacciata in pochi chilometri quadrati, possa cambiare idea?

Senza voler scomodare la filosofia morale, un mero e cinico calcolo politico dovrebbe suggerire il contrario.

Il terrore è mancanza di elaborazione, è paura, assenza di appigli, di speranza in un futuro; si stanno allevando due milioni di persone pronte a tutto, a ridere sul cadavere di un uomo martoriato, a farsi saltare in aria, ad attraversare il confine in deltaplano a motore per non perdersi l’assalto, scena tra le più comiche tra quelle viste nei conflitti di ogni tempo.

Io penso che la gente di Israele e Palestina abbia governanti peggiori di quelli che si merita. Governanti che non sono in grado di proteggerla se non facendo abbaiare le armi. Ma Israele è uno Stato compiuto, dove esiste un dibattito pubblico, è una democrazia in grado di tollerare anche le – e non mancano – voci dissenzienti. A Gaza tutto questo non c’è. Parliamo di una società regredita a connotazioni tribali. E spinta sempre un passo più indietro. Reagire in questo modo è un suicidio, un veleno distillato a gocce. Ogni giorno che passa è un anno in più di guerra futura, un anno in più di insicurezza. Il diritto ha superato la legge del taglione dei tempi di Hammurabi. I crimini di guerra sono tali anche se commessi per reazione. Che la comunità internazionale intervenga, una buona volta, se l’Onu, che di questo scempio è responsabile, serve a qualcosa.

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