economia, esteri, media, politica, tech

Similarities

Zuckerberg reportedly asked Trump to block Eu fines on American tech companies. Here’s the reason of the last days’ repositioning on fact checking and diversity and inclusion policies: ingratiating Trump so to put pressure, not only in the Us , but abroad. These new – so to speak – tech oligarchs are getting closer and closer to power, just like their Russian colleagues. In doing so, they could obviously get burned by the flame – and, even in this respect , Russia has something to teach: the same man who can create your lucks can suddenly destroy you. And in the long run, that’s the most probable thing. But companies divide the reality in quarters.

There’s a third similarity to Russia. Or, to better say, with the old Soviet union. Trump is trying to extend America’s area of influence like the Ussr did in the 20th century with Eastern Europe and the Warsaw pact. Canada, Greenland, Panama. “It’s our national interest”, he says. Someone, a hundred years ago, coined an expression for this: “vital space “.

Europe is not a giant in strictly military terms (at all). But it is, actually , in an economic perspective, in regulations (think about the Ai act, the best legislation in the world on Ai), in culture. And it represents an alternative to the American way of living and doing business, not to mention to its perspective on the world. We have fundamentally experienced colonialism and had enough of it, at least in its “open” version, with tanks and soldiers.

Europe’s only strength to resist to these attacks is to deepen the ties between member countries: more integration between us, more autonomy from America in key strategic sectors. More cultural self consciousness. We represent an alternative to the US, a pacific one. No need to get engaged in Trump’s wars. But, nevertheless, we do have to need to stand firmly in front of these menaces.

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esteri

A tre ore da Mosca

Un dettaglio. Prighozin è arrivato a duecento chilometri da Mosca in meno di 24 ore. Può succedere perché non ci sono barriere fisiche a difendere la capitale, solo una sterminata pianura. Questo spiega l’ossessione, sempiterna, di Mosca per il confine occidentale. Inutile ribadire quanto l’invasione di Putin sia stata criminale. Ma , se c’è un portato su cui si può concordare nella girandola di supposizioni di queste ore, quasi nessuna corroborata da fatti, è che l’Ucraina nella Nato resta una pessima idea, così come pure l’ingresso di Svezia e Finlandia. Il Paese, se vorrà (e se ne avrà i requisiti), potrà entrare nell’Unione Europea, accedere al mercato unico, ai fondi per la ricostruzione e lo sviluppo; ma per la Nato, il discorso è molto differente. Kiev, per la posizione geografica che la colloca a fianco di una potenza nucleare, ha il destino, tragico, di restare neutrale. Deve essere tutelata dalla comunità internazionale, che fa bene ad aiutare la resistenza; ma senza cedere alla richiesta di un ingresso in una alleanza per propria natura militare, che significherebbe piazzare i carri armati occidentali a poche ore da Mosca. Non è giusto, da un punto di vista filosofico, ma è pragmatico, e le relazioni internazionali, piaccia o meno, funzionano così. Da sempre.

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Un anno alla Brexit
brexit, esteri, politica

Brexit a metà strada: il rischio per Londra è restare sola

 

Questto articolo è stato pubblicato originariamente su Londra, Italia

Un anno dall’avvio delle trattative, quasi due dal referendum. E dodici mesi esatti all’addio ufficiale fissato per il 29 marzo 2019. La Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione non è ancora avvenuta. Parliamo, allo stato dei fatti, di una eventualità probabile ma non ancora certa. Ma le ricorrenze  simboliche offrono lo spunto per  qualche valutazione.

E’ stato un errore votare Leave e orchestrare una campagna per allargare la Manica? Nigel Farage e Boris Johnson risponderebbero che no, non lo è stato.  Ma tipi come Farage e Johnson sono pronti a negare l’evidenza. E, mancando la controprova, trovano sempre qualcuno disposto a dar loro credito.

I numeri, pur non essendo catastrofici, non depongono a favore dell’esito elettorale: l’economia tiene, ma su una curva più bassa rispetto al passato. La sterlina non è risalita, e le aziende straniere continuano a portare via da Londra i propri uffici, giocando d’anticipo. I fondi europei che verranno a mancare aiutavano proprio le campagne, i territori che si sono dimostrati più ostili a Bruxelles.  Nessuno ha spiegato quale sia il piano adesso, ammesso che esista.

La verità è che nessuno si aspettava la Brexit (52% degli elettori a favore in occasione del referendum del 23 giugno 2016): la vittoria del Leave ha sorpreso persino gli stessi promotori.

Non  se la aspettava David Cameron, che concesse il referendum – pensando di vincerlo – per mantenere un’avventata promessa elettorale. Con le stelle all’alba, tramontò la sua carriera politica.

Non se lo aspettava Nigel Farage, che pensò bene di fare un passo indietro all’indomani del successo: perché un conto è desiderare l’impensabile, e un conto è ottenerlo.

Non se lo aspettava nemmeno Theresa May, che, da sostenitrice del Remain, si trovò a gestire la transizione ripetendo il mantra “Brexit means Brexit“.

Non se lo aspettava nessuno, e invece è accaduto. Come è stato possibile?

La causa sta nel grave errore politico di Cameron, che concesse la consultazione. L’ex premier mostrò qui tutta la propria inesperienza. L’uso disinvolto dei media –  vi dice niente Cambridge Analytica?  – , le fake news e le campagne di stampa orchetrate da politici senza scrupoli e più interessati al proprio tornaconto che all’interesse nazionale fecero il resto.

Si parla di  rispettare la volontà del popolo: ma le questioni di geopolitica sono, da sempre, gestite dai governi, al limite dai sovrani, e mai dal demos; quando si ricorre ai plebisciti, agganciandoli al diritto all’autodeterminazione dei popoli, lo si fa per conflitti di matrice etnica, religiosa, e sempre con maggioranze di ben altra portata. Nel caso della Gran Bretagna, che,  pearaltro, in seno all’UE ha sempre goduto di amplissima autonomia, è stato il 2% dei voti a risultare determinante.

Ma il caso della spia russa avvelenata sul suolo britannico – con ogni probabilità su mandato del Cremlino – ha mostrato a Londra cosa significa rischiare di restare isolati.

In un contesto europeo, la solidarietà ai britannici sarebbe stata scontata e doverosa. Oggi non lo è più. E’ una questione di buoni o cattivi rapporti; insomma, di interesse. E’ arrivata, certo, ma grazie al lavoro sottotraccia dei funzionari; e chi la ha mostrata, lo ha fatto in primis per indebolire il leader russo Putin, tornato prepotentemente sullo scenario globale.

Sessantacinque milioni di abitanti, poche risorse naturali, un’economia basata essenzialmente su servizi. Il Regno Unito è esposto al vento. Poco interessante per l’America, poco interessante per l’Europa.  Per dirla con gli economisti, ciò che prima era gratis, oggi ha un prezzo, e vedremo quale.

A Brexit avvenuta, Londra dovrà reinventarsi un ruolo e uno status che, una volta fuori dall’UE, non avrà più. Potrebbe volerci molto tempo. Potrebbe anche non accadere mai.

La politica internazionale in un mondo multipolare funziona ancora – piaccia o meno – come ai tempi del Congresso di Vienna. Un gioco di diplomazie. E non si decide mai esclusivamente in base ai dati economici; si agisce, piuttosto, guardando agli interessi di potenza, che a volte impongono di rinunciare a benefici immediati per ottenere sicurezza a lungo termine. Spiegare questo ai cittadini infiammati dalla propaganda pro-Brexit era obiettivamente impossibile. Ecco perché quella di farli votare è stata la scelta sbagliata.

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