cinema, politica

Esterno notte, il sequestro Moro visto da Marco Bellocchio

Esterno notte, la serie di Marco Bellocchio sul rapimento Moro, tratteggia bene l’atmosfera, lo smarrimento, la ricerca di senso degli anni del terrorismo,  quando i riferimenti sono caduti uno dopo l’altro sotto i colpi della contestazione ed è necessario sostituirli con qualcos’altro per non rischiare di fare un passo indietro all’ancien regime. Per alcuni, anche a prezzo del sangue.

Dopo il ’68 e le sue molte liberazioni ( dalla famiglia, dalla scuola, dalle ipocrisie della società), nel ’69 la strage di piazza Fontana riporta il Paese con i piedi per terra. Il fronte del lavoro si dimostrerà un terreno  più difficile di altri: in un’epoca ancora contraddistinta dalla produzione industriale di massa, fabbrica, catena di montaggio, capireparto rappresentano il polo di un dualismo tra cui è difficile scegliere: da una parte il salario e la possibilità di acquistare i nuovi prodotti del benessere consumistico, dal giradischi all’automobile; dall’altra, la vita greve, fatta di abusi quasi ottocenteschi ben documentati nelle cronache sindacali di quegli anni.

Le lotte operaie conducono allo Statuto dei lavoratori nel 1970, traguardo storico cui ancora oggi si fa riferimento; rileggerlo è utile per comprendere quale fosse la condizione all’epoca. I colletti bianchi non stavano poi molto meglio: la satira sociale di Paolo Villaggio ne descrive la frustrazione, la “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè anche.

Ma è negli atenei che comincia l’elaborazione di una teoria più o meno organica. In alcuni gruppi comincia a  farsi strada l’idea che è possibile sottrarsi all’imperialismo americano figlio della guerra mondiale e del piano Marshall (l’Italia è un Paese “a sovranità limitata”), al giogo dei padroni e alla dittatura delle multinazionali, tutto in un colpo solo. La risposta, per alcuni, è la lotta armata.

Tra le tante sigle che nascono in quegli anni, ci sono le Brigate Rosse, che imbracciano il mitra quasi subito.

Sono tempi convulsi. Non c’è solo la lotta di classe. Numerose sono le questioni economiche e sociali aperte. Mentre alla radio suonano i Led Zeppelin e Santana, al ’73 risale lo shock petrolifero, che porta alle domeniche a piedi, all’austerity, ma anche a realizzare come, ancora una volta, le crisi colpiscano più forte chi ha di meno.

La droga diventa un problema serio: Lilly, splendido brano di Antonello Venditti, descrive la storia di una ragazza di belle speranze finita nel giro sbagliato.

Si discute aspramente di conquiste sociali come divorzio e aborto, un confronto serrato in un Paese cattolico che, sin dalla proclamazione della Repubblica, è guidato dalla Democrazia Cristiana, ma che conta il Partito Comunista più forte dell’Occidente.

In questo clima, le Br cominciano a rapire e ferire ostaggi selezionati in maniera strategica prevalentemente al Nord industriale: dirigenti pubblici, manager d’azienda, magistrati, fino alla nascita della colonna romana e all’ “attacco al cuore della Stato” attorno al ’75. Al ’78 risale il sequestro di Aldo Moro, che voleva realizzare un storico compromesso tra Dc e comunisti. Personaggio mite ma potente e ben inserito negli apparati statali, il presidente della Dc viene rapito e ucciso in 55 giorni. Non senza opposizione interna nell’organizzazione fondata da Renato Curcio (all’epoca già in galera), e mentre buona parte del Paese scende in piazza per chiederne la liberazione.

La serie di Bellocchio racconta quei due mesi con dovizia di particolari e diversi punti di vista. C’è quello della famiglia – che, nel privato, non riesce a cogliere la grandezza pubblica di Moro – , quello della politica (la crisi del delfino Cossiga , allora ministro dell’Interno; la freddezza di Andreotti; i dubbi sulla linea della fermezza), e naturalmente quello dei terroristi, di cui vengono tratteggiate psicologie e motivazioni,  non sempre inappuntabili dal punto di vista della lotta. C’è anche il Papa, con la sua influenza nelle cose italiane.

Scenografie perfette, dialoghi serrati, una ricostruzione storica che mi pare fedele. Lungo il corso delle sei puntate si viene trasportati dalla regia di Bellocchio negli anni Settanta. I grandi nomi (Toni Servillo e Margherita Buy) ci sono, fanno cartellone ma non sono centrali. La vera star è Fabrizio Gifuni, che interpreta un Aldo Moro drammaticamente reale, disegnandone la personalità delicata ma ferma, la paura, e l’incontro con sentimenti che non credeva di poter provare; quindi, in definitiva, l’umanità. E poi Fausto Russo Alesi (Cossiga), capace di rendere benissimo la caratteristica inflessione sarda del politico, assieme alla ciclotimia e ai tormenti.

Il giudizio di Bellocchio è netto, ma non pedante.

Sono sei puntate su Netflix, poteva essercene forse una in meno, ma è una serie appassionante, non pesante, e da vedere. Nota conclusiva, la sigla iniziale ha un tema che mi è piaciuto molto.

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cinema, cultura

Perché vedere (o non vedere) l’ultimo di Tarantino

Lo dico subito, così non ci pensiamo più. C’era una volta a Hollywood, il nuovo film di Quentin Tarantino, non mi ha convinto. Non che sia una brutta pellicola, ma il regista californiano ci ha abituato fin troppo bene, e il risultato, una volta tanto, delude le aspettative. Che erano, da par suo, altissime.

Tarantino prende spunto dalla strage di Bel Air, eccidio che nel 1969 vide trucidata Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, assieme ad altre quattro persone, mentre il polacco si trovava a Londra.

L’eccidio fu compiuto da una setta di fanatici hippy ispirati da Charles Manson (che però non partecipò all’agguato, preferendo rimanere nascosto nella comune dove viveva), e scioccò il mondo immerso nel flower power del 1968.

Questa la cornice, che fa da sfondo alla storia di Rick e Cliff, un attore di serie B e il suo storico stuntman, amici per la pelle anche se divisi da un abisso in termini di ricchezza. Lo stile di vita, fatta la tara ai guadagni, è più o meno lo stesso: birra, cocktail, sigarette, musica a tutto volume, nessun orario. Il regista descrive le alterne fortune della carriera di Rick, che ha al suo fianco un amico fedele in grado di tirarlo fuori da guai quando occorre.

Un racconto carino dello spirito dei tempi e del mestiere dell’attore. Il problema è che tutto finisce qui. Il film è calato nell’atmosfera di quegli anni formidabili, ma non scava nel rapporto umano tra i due, restando in superficie, e dice poco anche sui tormenti di chi recita e vede la carriera scemare. Non che la specialità del regista di Los Angeles sia insegnare qualcosa, ma personalmente mi è rimasta la sensazione di un‘incompiuta. Manca la tensione narrativa, una trama compatta che riesca a tenere avvinto lo spettatore, per un regista che del climax ha fatto il suo marchio di fabbrica. La pellicola scorre placida e godibile, e questo è tutto. Anche qui, intendiamoci: ciò che a molti sarebbe perdonato, con Tarantino lascia spiazzati.

Il film, nonostante tutto, è carino, con numerosi siparietti divertenti (notevole quello con Bruce Lee), e le due ore e mezzo scorrono, tutto sommato piacevoli.  Le inquadrature sono coloratissime (il regista californiano con la macchina da presa ci sa fare, non è una novità, e lo stile anni Sessanta non passa mai di moda) e anche la colonna sonora è godibile  (ma meno di altre occasioni, vedi Pulp Fiction o Kill Bill).

Brad Pitt e Di Caprio? Che dire, sono bravi e si sapeva. Anche in questa occasione si confermano all’altezza. A giudicare dagli ululati, il pubblico femminile in sala non ne apprezza solo le doti recitative. C’è anche una particina per De Niro, che non si scatena.

Dicono che Tarantino abbia lavorato alla sceneggiatura per cinque anni. A me pare che si sia preso una lunga, lunghissima vacanza in attesa di tornare con il decimo – e a suo dire ultimo  – film. Ci auguriamo che non sia così.

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cinema, musica

A star is born, Bradley Cooper fa centro al debutto come regista

A star in born, è nata una stella. Bradley Cooper sceglie questo soggetto per cimentarsi, per la prima volta, dietro alla macchina da presa. La versione originale è degli anni Trenta, un remake data 1954 e un secondo risale al 1976 (la parte femminile andò a Barbra Streisand). Ora è il turno dell’attore di Filadelfia.

La storia è quella di Jackson Maine, rocker maledetto e di successo, che incontra una cameriera, talento inespresso, voce e melodie da brividi ma ingaggi solo in bar di quart’ordine. I due si sfiorano di notte dopo un concerto. Lui la corteggia e la spinge a provarci sul serio con la musica; lei, inaspettatamente, ce la fa. Il film è il racconto dell’ascesa di Ally, interpretata da Lady Gaga, e del declino di Jack.

Avrebbe potuto essere una commedia sdolcinata, di quelle alla Jennifer Lopez. Invece Cooper, regista e attore protagonista, racconta il vissuto drammatico di un uomo schiavo dell’alcol, perennemente in lotta con i propri demoni, incapace di badare a se stesso. Un uomo che ha avuto tutto, ma vive affacciato su un abisso.

Film intenso, che emoziona, girato benissimo, con due attori protagonisti espressivi ed affiatati. Cooper è così bravo a recitare la parte del rocker maledetto che sembra nella vita non abbia fatto altro che bere, suonare e tirare coca. Lady Gaga dimostra di sapere recitare in maniera convincente. Fotografia alla Sorrentino – alcune scene sono di una delicatezza rara -, colonna sonora da urlo. Il contrasto tra l’artista con un’anima e quello da X Factor. Da vedere al cinema.

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