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Sierologico o tampone? La guerra sotterranea della lobby delle analisi

Sempre più scienziati chiedono di effettuare tamponi a tappeto per imprimere una svolta alla lotta al coronavirus. La situazione è al limite soprattutto al Nord, dove i reparti sono pieni, i medici si ammalano uno dopo l’altro e gli ospedali sono diventati bombe biologiche. Ma, anche nel mezzo di un’emergenza di portata storica, conviene tenere gli occhi aperti.

Nei giorni scorsi le agenzie hanno battuto la notizia di un laboratorio di Afragola (Campania) che prometteva test per il Covid19 alla modica cifra di 120 euro. L’annuncio, postato su Facebook, parlava non di tamponi, ma di test sierologici. Non è un dettaglio, e vedremo perché.

Grazie a quest’ultima tecnica, è possibile individuare gli anticorpi eventualmente presenti nel sangue del paziente: una “traccia”, per così dire, che il virus è passato e l’organismo ha cercato di combattere l’infezione. Seguiva numero di telefono per appuntamenti.

Il cronista (precario, tra l’altro) che ha scoperchiato il caso ha passato la notizia all’ANSA. Pochi giorni dopo è stato sentito dai carabinieri: i test sierologici per il coronavirus ,infatti, non sono validati, non hanno ottenuto, in parole povere, dagli organi competenti il via libera che ne certifica l’affidabilità. Proporli alla popolazione sotto l’onda emotiva di una pandemia potrebbe comportare profili di illiceità, nonostante i distinguo per tutelarsi da azioni legali. Oggi solo poche strutture sono autorizzate a condurre analisi del genere. C’è poi il tema del prezzo: esiste una quota di persone disposta a pagare molto denaro per sapere con certezza se è positiva o meno. L’affare è dietro l’angolo.

Meglio monitorare la situazione, dicevamo. In attesa di accertare se ci siano state violazioni, riporta il “Fatto Quotidiano”, il centro diagnostico campano è stato diffidato dall’Asl dal continuare la “promozione” delle analisi sui social media.

La materia è tanto tecnica che persino molti medici non specializzati in immunologia hanno difficoltà a orientarsi. Proviamo a spiegare.

Le mani sui rimborsi regionali

L’unica metodica attendibile per fare diagnosi, fino a oggi, risulta essere il tampone, divenuto tristemente noto nelle ultime settimane. Si tratta di un test molecolare con cui, in sostanza, si va alla ricerca dell’RNA del virus. Più lungo nelle tempistiche, più costoso, ma decisamente più affidabile del test sierologico; e, soprattutto, validato dall’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità). Per chi non credesse ai “burocrati” di Ginevra, aggiungiamo che così la pensa anche il noto virologo Roberto Burioni, che ne ha parlato sul proprio sito Medical Facts.

Insomma, sembra una storia di quelle tipiche del nostro Sud. E lo è, infatti.  A Milano, come da copione, le cose si fanno in grande.

La diagnostica medica è un settore attorno a cui ruotano denari e interessi, tra vendita di prestazioni specialistiche e, soprattutto, rimborsi regionali. Per il momento, sono pochi i soggetti autorizzati a eseguire i tamponi necessari per cercare il Sars-Cov-2, tutti pubblici.

I laboratori privati di analisi grandi e piccoli si dichiarano pronti da settimane, ma non hanno ancora ottenuto il via libera dalla politica.

Per aprire la serratura, rimasta chiusa fino a questo momento, senza rischiare di incappare in profili penali (come potrebbe accadere nel caso campano) bisogna  procedere per gradi e passare da Palazzo. Significa disporre di risorse non comuni. Capitali economici e relazionali, impiegati con strategia.

Si può cominciare, ad esempio, mettendo assieme un parterre di imprenditori del ramo, startupper e soggetti con conoscenze a diversi livelli, dalla politica alla finanza all’editoria.

Si prosegue, poi, creando gruppi Whatsapp per giornalisti, fornendo presunte anteprime, e annunciando interviste già concordate con importanti testate. Basta ottenerne una per innescare la reazione a catena. Se sono di più, e al codazzo si aggiungono le televisioni, tanto meglio.

A questo punto, si può procedere a diffondere le paginate pubblicate da un importante quotidiano nazionale per convincere i cronisti scettici di essere rimasti indietro. Si sa, il terrore delle redazioni è “prendere un buco”. Qualcuno, nella fretta, ci casca sempre, e riprende la notizia.

Non può mancare la petizione. Siamo pur sempre nell’era degli influencer. Per preparare il terreno e guadagnare credibilità grazie a uno dei numerosi strumenti disponibili online basta  far sottoscrivere a importanti (e ignari) nomi della scienza una raccolta firme in cui si parla, genericamente, della necessità di eseguire test a tappeto per combattere la diffusione del contagio. Senza specificare, in quella sede, se si tratta di tamponi o di sierologici.

Da giorni sul web circolano appelli dai toni enfatici, a prima vista condivisibili. Le petizioni, rivolte al Governo e al Comitato tecnico scientifico creato nelle scorse settimane, chiedono screening di massa per arginare il contagio. Leggiamo l’elenco dei firmatari: molti sono noti, altri lo sono diventati in questi giorni. Professori, personaggi della cultura, imprenditori. E, ovviamente, direttori di centri diagnostici, che hanno tutto l’interesse a “liberalizzare” gli esami. Ma attenzione: nessuno degli appelli specifica che tipo di analisi si chieda di effettuare sulla popolazione.

Ottenuto l’appoggio dei grandi sponsor, il più è fatto: non resta, a questo punto, che usare la petizione per supportare l’offerta alle autorità politiche… di collaborazione disinteressata. E di test sierologici estensivi, ovviamente.

Test contro test: una guerra tra laboratori

Ecco come si crea nuovo business ai tempi del coronavirus, partendo da un’idea semplice: se la politica non apre le porte spontaneamente, e in fretta, la strada buona è metterla sotto pressione sfruttando l’onda emotiva e creando un movimento di opinione. Se poi i giornali si inseguono l’un l’altro convinti di perdere lo scoop del momento, c’è il rischio che la mossa riesca. Anche se in gioco c’è la salute pubblica, e l’operazione potrebbe rivelarsi del tutto inutile dal punto di vista della lotta al virus, dato che gli esami sono inaffidabili. Ma tant’è.

Così, sottotraccia e lontano dai riflettori, si sta combattendo una guerra tra laboratori: quelli disposti ad assumersi il rischio di proporre un esame non ancora validato con un’operazione spericolata, e quelli che si limitano a suggerire il “vecchio” tampone. Più costoso, ma più attendibile, nonostante un percentuale di falsi negativi che può sfiorare il 30%.

Ma vediamo meglio la differenza.  “I test sierologici – spiega ai colleghi in una chat riservata un medico e professore universitario esperto nelle materie di riferimento – non hanno valenza diagnostica, ma di solo accertamento della positività anticorpale. Il che, in corso di epidemia, serve a poco o a nullla“. Sapere che una persona si è infettata senza conoscere se è ancora contagiosa può avere una valenza statistica a posteriori, insomma, ma non certo preventiva.

L’isolamento dei soggettiprosegue infatti il medicosi basa sull’infettività, non sul fatto che in qualche momento della loro vita abbiano incontrato il virus e generato anticorpi (che, per quel che ne sappiamo finora, possono essere rivolti contro qualsiasi coronavirus)”. Cioè: oggi come oggi, il test potrebbe confondere il Sars-CoV-2 con un’infezione diversa.

L’OMS aggiunge: “Alla data odierna, i test basati sull’identificazione di anticorpi (sia di tipo IgM che IgG) diretti contro il virus Sars-CoV-2 non sono in grado di fornire risultati sufficientemente affidabili e certi per la diagnosi rapida in pazienti che sviluppano il Covid 19” scrive in una nota. Insomma, “non possono sostituire il classico test basato sull’identificazione dell’RNA virale” anche se l’organizzazione avverte di stare conducendo studi su oltre 200 test rapidi. I risultati saranno disponibili nelle prossime settimane.

Pressione sui decision maker

Sull’affare dei test sierologici si sono fiondati in tanti. In Toscana, secondo quanto riportato dall’agenzia Impress, il presidente della Regione Enrico Rossi avrebbe firmato un’ordinanza per effettuare test sierologici su 7.800 sanitari. I casi positivi dovranno poi essere confermati con tampone. Ma l’inaffidabilità del primo esame rende il meccanismo traballante.

Inutile negarlo, il morale è allo stremo. Ma la domanda è se abbia senso, per un ente pubblico, inseguire gli umori della popolazione, e farlo battendo una strada la cui efficacia non è stata ancora riconosciuta nemmeno dal Comitato Tecnico Scientifico creato ad hoc dal Governo per fronteggiare l’emergenza.

Nel gioco delle parti, anche in piena crisi, ognuno agisce pro domo sua. Ma la politica dovrebbe fare gli interessi di tutti. Difficile immaginare che decisioni – operative e di spesa – tanto delicate siano prese sulla base della semplice emotività. E, magari, di campagne stampa martellanti che soffiano sul fuoco della paura.

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salute

Verga, l’ospedale brianzolo che l’Europa ci invidia

Il pezzo qui sotto è stato pubblicato su tiSOStengo.

Quando Giovanni Verga, colpito al cuore dalla morte prematura della figlia, iniziò ad accarezzare il sogno di far vivere la piccola almeno in un’associazione, non avrebbe pensato di veder nascere il miglior ospedale per la cura delle leucemie pediatriche d’Italia, e forse d’Europa. Un centro dislocato su quattro piani, dove ogni dettaglio è curato pensando ai giovani ospiti e persino ai genitori, che assieme ai figli vivono l’esperienza della malattia e possono sentirsi a casa.

Ci sono voluti quattordici milioni di euro e l’aiuto di centinaia di familiari, volontari, associazioni e industrie del territorio per erigere quello che, più che un nosocomio, è un monumento all’Italia che sa darsi da fare. Un modello di collaborazione fra iniziativa privata (tanta) e sistema pubblico diventato caso di scuola. Per i risultati, non per le intenzioni.

Siamo a Monza, in Brianza, terra operosa, votata al lavoro e al sacrificio. Da sempre, il buen retiro della borghesia milanese. Qui i ricchi e i nobili venivano a trascorrere le vacanze lontano dal fracasso della città. Un lembo verde nella sconfinata pianura industrializzata che si distende fino a Varese, a Bergamo e a Brescia. Il comitato Maria Letizia Verga vede la luce a Milano nel 1979, ma bastano un paio d’anni perché la mancanza di spazio imponga di cercare una nuova sede; Monza ne ha.

La storia è quella di una ragazzina colpita da leucemia: le terapie non funzionano, e la piccola spira tra le braccia dei genitori. Il trauma smuove il padre. Per non lasciarsi annientare al dolore, Verga cominciò a raccogliere fondi per migliorare, un giorno, le condizioni dei bambini come la sua, che trascorrevano le giornate in reparti plumbei e anonime camerate da sei letti. Accanto a loro, genitori stremati che si addormentavano sulle sedie.

L’idea prende corpo. Parliamo di trentasette anni fa, ai tempi di leucemia si moriva quasi sempre. L’idea è buona, vale la pena di sostenerla. Il carisma di Verga, un “founder” molto diverso da quello tratteggiato nella recente pellicola, trova una valida sponda nella comunità locale. E così tra un evento di beneficenza e un banchetto in piazza, le donazioni cominciano ad arrivare.

Gli sforzi si moltiplicano, come fiori al principio di primavera. Sono passati undici anni dall’approdo in Brianza quando, nel 1993, nasce il day hospital, che consente di risparmiare ai piccoli pazienti lo stress dell’ospedalizzazione e ai genitori di dormire finalmente a casa propria. Una rivoluzione copernicana, che permette di mantenere abitudini e riferimenti in un’età delicata, e di tagliare i costi di gestione. Per chi viene da lontano, nel 1999 vede la luce il residence Maria Letizia Verga: una cascina completamente ristrutturata a spese del Comitato, dotata di 16 appartamenti, a cui le famiglie possono appoggiarsi per i lunghi periodi richiesti dalle cure. Nello stesso anno nasce anche il centro Trapianti Midollo Osseo, che oggi, da solo, effettua il 10% degli interventi eseguiti in Italia.

Il nuovo millennio si apre all’insegna della ricerca. Nel 2002 viene inaugurato un laboratorio all’avanguardia di Terapia Cellulare, che nel 2007 riceve l’autorizzazione dall’AIFA (l’Agenzia Italiana per il Farmaco) a produrre farmaci sperimentali.

Mancava ancora qualcosa, però. Bisogna attendere il 2013 perché prenda vita il progetto più ambizioso: la costruzione di un vero e proprio ospedale, autonomo rispetto al vicino San Gerardo, ma che potesse, al contempo, integrarsi con esso. Fino ad allora, i bambini leucemici erano curati all’undicesimo piano della struttura monzese. Spesso le grandi idee nascono da un imprevisto; in questo caso la scintilla scocca quando il personale medico scopre che i lavori di ristrutturazione del nosocomio sarebbero durati almeno sei anni: troppi per i piccoli pazienti, senza contare il rischio altissimo di contaminazione con le polveri.

Verga capisce che è l’occasione per provarci. In pochi mesi, mobilita le risorse economiche e il network relazionale costruiti in 30 anni di attività, e comincia a dare forma al progetto che vale una vita. Si avvale della consulenza “qualificata” dei piccoli pazienti – che hanno espresso le loro richieste: vogliono un ambiente colorato, accogliente, dove trascorrere una parte importante della loro vita in serenità e non essere semplicemente curati – e di quella dei genitori, ma tiene conto anche dell’esperienza del personale sanitario.

Gli architetti disegnano un complesso di quattro piani, ispirato ai criteri della cromoterapia, dotato di spazi per i bambini piccoli e di un angolo per i teenagers, di stanze singole e di un day hospital dove poter effettuare i trattamenti. Gli infermieri sono collocati al centro della stanza, con un bancone circolare che offre una panoramica completa di quanto accade. Una struttura di respiro europeo, più che italiano. Il San Gerardo cede il terreno, i soldi arrivano da associazioni, imprese, e anche da privati: comincia la corsa per mettere insieme il necessario ad accendere un mutuo e avviare i lavori.

Ogni stanza, ogni ambiente, è “preso in carico” da un soggetto, dal supermercato di zona alla grande realtà della distribuzione mondiale. Al pianterreno i corridoi colorati, i locali e le stanze per il relax, richiamano un immaginario asilo. Al piano interrato, invece, moderni laboratori di ricerca e diagnostica studiano nuove terapie. La malasanità è un ricordo lontano.

La ricetta, del resto, era collaudata. Passione contro svogliatezza. Precisione contro approssimazione. Trasparenza contro spreco. A garantire per tutti, la mano pesante di Verga, che motiva il personale e lo sprona con lo spirito di un guerriero. Bastano un sorriso e una pacca sulla spalla per ricominciare più forte di prima.

Ma libri economici e partite doppie non sono orchi malvagi, esistono davvero. E i conti vanno pagati, anche quelli di un ospedale pediatrico. Per mandare avanti il Centro (nato da iniziativa privata, ma pubblico e accessibile a tutti tramite il Sistema Sanitario Nazionale) è necessario mantenere costante il flusso di cassa. Non sempre facile, anche perché la raccolta di denaro si rivolge soprattutto al territorio monzese e milanese. “Le radici del nostro finanziamento – confermano i responsabili del fundraising – al momento sono più che altro locali”: e se è vero che la comunità ha sempre risposto all’appello, la ricerca e la cura, fatte a questi livelli, costano care. Ma sono le stesse che in tre decenni hanno consentito di elevare il tasso di sopravvivenza dei bambini dal 30% all’80% . Nasce una struttura dedicata alla raccolta fondi, che si occupa di tutto. Il tessuto economico risponde; ma chi vuole dare una mano, può farlo anche donando il proprio tempo: tra le attività che si svolgono nel centro, non è difficile trovare il modo di rendersi utili. Dall’intrattenimento all’aiuto nei compiti, c’è sempre qualcosa da fare.

Oggi il sogno si è realizzato. Un modello replicabile? Forse. Sicuramente, serve un territorio ricco e socialmente impegnato, condizione che in Brianza, senza dubbio, ricorre. Serve un leader carismatico capace di guidare il progetto e garantire sull’impiego dei fondi; e serve la cooperazione degli enti locali e delle aziende ospedaliere, che, se non finanziano, devono quantomeno spianare la strada dal punto di vista burocratico. In un periodo in cui la sanità pubblica sta cedendo il passo a quella privata (per chi può permettersela), il centro Maria Letizia Verga di Monza propone un modello misto, una terza via dal sapore nordico. L’impressione è che l’ingrediente fondamentale per oliare i meccanismi sia la fiducia. Fiducia nel futuro e nella possibilità di realizzarlo, fiducia che quanto donato non sarà sprecato, fiducia nei medici. Probabilmente, più dei soldi, è questo l’ingrediente raro.

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