“Diffidate delle persone che sorridono sempre: a volte non hanno semplicemente altra scelta”.
Con queste parole si chiude la lettera di Pietro, 19enne milanese, che ha gettato la fidanzata dal settimo piano prima di lanciarsi nel vuoto.Pare avesse qualche problema di depressione, e che non si trattasse del primo tentativo di suicidio.
Una missiva scritta a mano, in stampatello, con le abbreviazioni tipiche degli adolescenti; una scrittura nervosa, storta, come quella di chi sta maneggiando un argomento troppo grande per lui; un epilogo lucido e metropolitanamente tragico per una storia d’amore finita.
Non voglio entrare nello specifico di questo caso; al di là dell’orrore per la morte di due ventenni, nessuno può farlo.
Ma sono le parole che chiudono la lettera ad avermi colpito più di tutto. Mi hanno colpito perché travalicano l’individuo, e si riferiscono, invece, al contesto sociale. Credo che la chiave del delitto sia racchiusa lì. “Non fidatevi di chi sorride sempre”: forse Pietro, dopo una disamina delle torture psicologiche che aveva progettato di infliggere alla ex fidanzata per pareggiare i conti dopo l’abbandono, cercava di farsi perdonare mettendo in guardia la società da se stessa. Quando tutto ormai è perso, abbiamo finalmente il coraggio di guardare in faccia i demoni che ci trasciniamo dentro e di descriverli con lucidità spietata.
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E’ una perversione tutta moderna quella che sia possibile essere sempre felici, attivi, in salute.
La verità è che l’umore, come la salute, è un fatto ciclico, soggetto a mutamenti, variazioni. E’ una curva che va su e giù, e la vita – di tutti – è fatta per lo più di momenti molto poco “cinematografici” (quelli dove ci starebbe bene una musica da film), di noia, di vuoto che cerchiamo o meno di riempire, di senso di inadeguatezza e nostri relativi tentativi di accettarlo, e quindi accettarci.
La media, la “cifra” che contraddistingue ciascun individuo, è il risultato di giornate positive, e di altre che lo sono meno. Tutte insieme, una di fila all’altra, senza senso apparente. Poi Freud e la psicanalisi insegnano che forse un senso c’è, ma detto tra noi: a volte è difficile intravederlo.
Però si va avanti, si deve andare avanti, non si può far altro che andare avanti. Il lavoro, le bollette, la mancanza di aspettative, persino le amicizie e il divertimento: gli indicatori devono essere sempre al massimo. Non ci si può permettere di perdere un giro. Non si può stare fermi ai box. E, a 19 anni, può essere troppo.
Nella società della produttività e del prozac, la tristezza non va mostrata. Mai. Ma la realtà non è un curriculum.
Io credo che il mondo, sottotraccia, non sia poi così cambiato rispetto a duemila anni fa. Le strutture di base sono le stesse, le dinamiche sociali pure: sono solo più veloci, più fluide (“liquide”, direbbe Bauman), soprattutto negli strati superficiali.
Ci sono più effetti speciali, più luminarie, ma la sostanza resta identica in tutti gli aspetti della vita, del lavoro, delle relazioni.
Perché, allora, nonostante i progressi del secolo scorso nella comprensione della psiche, i mali dell’anima continuano a tormentarci?
La risposta, a mio parere e riprendendo in un certo senso Bauman, è una sola, quasi ridicola nella sua banalità: la mancanza di tempo. Senza, niente può sedimentare; senza, non è possibile costruirsi un Io abbastanza forte per difendersi dalle migliaia di stimoli a cui siamo esposti. Non c’è tempo per comprendere i mutamenti attorno a noi, quelli che accadono nelle nostre vite. Non c’è tempo per progettare, per soffrire, per rinascere.
Si sa: vivere il dolore di un lutto, di una perdita, della fine di una relazione è l’unica strada possibile per uscirne. Ma c’è bisogno di spazio, raccoglimento. Sapere di non averne, di dover essere sempre pronti, sentire la pressione di non poter sbagliare di nuovo, uccide. Non solo l’anima.
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Non sappiamo se Pietro, trovando il tempo di elaborare il dolore per la fine di una storia d’amore che probabilmente presentava dei tratti problematici anche quando sembrava serena, avrebbe ucciso la fidanzata e si sarebbe tolto la vita. Non sappiamo cosa sarebbe accaduto se avesse potuto contare su un supporto terapeutico valido, sulla possibilità di avere un lavoro, una prospettiva, un’alternativa a lei. Credo, ma potrei sbagliarmi, che non sarebbe accaduto.
Le reti, al tempo della Rete. Vanno per la maggiore quelle lavorative e quelle basate sui social network. Non esistono più, in città almeno, quelle familiari e amicali. Né a Londra, né a Milano, né altrove. Certo, a suo dire, l’omicida era circondato da amici che gli erano stati vicini; ma forse si è trattato di un fuoco di paglia, di una presenza avvertita solo nel momento peggiore, e che invece era mancata nel quotidiano.
E torna il tema della solitudine. Mi viene in mente Adam Kabobo, che ammazzò tre persone a Niguarda colpendole con un piccone all’alba. Solo, senza lavoro, con disturbi mentali in un paese straniero di cui ignorava la lingua. Vivere così significa essere ridotto ad animale, perdere ogni umanità. Oppure quel pugile ucraino che, forse dopo una delusione amorosa, nel 2010 uccise una donna a casaccio, la prima che passava in viale Abruzzi. Una povera colf che andava al lavoro, morta straziata dai pugni di un energumeno. E ancora, Cinisello Balsamo, poco fuori Milano: un grafico fuori di sé ammazza senza apparente ragione il gestore di un autolavaggio e accoltella altri due passanti: anche lui, pare, avrebbe scelto senza logica, anche lui era disoccupato e definito “un ragazzo normale, che ama il calcio”. Fu arrestato poco dopo, mentre correva nudo per strada, in un gesto estremo ed orgiastico di liberazione dalle catene di una società che non gli apparteneva più.
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Le tragedie greche (una su tutte: Medea) dipingono l’enorme dolore che può annidarsi nella mente di una persona; un dolore che pulsa, lavora nell’oscurità, un tarlo che può portarla a perdere qualunque barlume di umanità.
Duemila e cinquecento anni fa – tanti ne sono passati da quando scriveva Euripide – la vita scorreva molto più lenta di oggi. Eppure le tragedie sono opere senza tempo, immortali, proprio per la capacità di parlare agli uomini di tutte le epoche, in preda agli stessi, laceranti, conflitti. Sarebbe folle pensare che nel 2014 quegli stati d’animo non esistano più. E, infatti, sono presenti: ma vengono ricacciati indietro, compressi, dimenticati, fino a che un detonatore fa esplodere la bomba.
Ecco di nuovo il fattore tempo: allora, quando il dolore si faceva atroce, c’era forse la possibilità di riflettere, di viverlo, di soffermarsi, per poi lasciarlo scorrere via. Oggi, in tutta onestà, mi sembra molto più difficile.
Epoca veloce. Si vive in alveari di decine di piani e centinaia di appartamenti, senza radici, condannati a correre per (non) sopravvivere, a lavorare per essere sfruttati, a non vedere sbocco per sé e la propria famiglia. Una corsa all’oro che vede individui più adatti e altri che lo sono meno, ovvio. Tragedie metropolitane apparentemente senza senso puntellano i contesti urbani a tutte le latitudini.
Qualcuno si adatta, dicevamo, qualcuno no: ma la selezione naturale è l’esatto opposto della civiltà. Dove la prima uccide, la seconda cerca di compensare e correggere.
Oggi, come sempre del resto, vince il migliore. La differenza è che in questi anni sporchi crediamo di poter diventare tutti, i “migliori”, un giorno . “Purtroppo – scrive ancora Pietro – [l’appoggio degli amici, ndr] mi ha fatto anche desiderare una vita perfetta a cui prima non avevo mai aspirato, perciò posso dire che nel mio caso, sia stata la speranza a fregarmi”. Ma cosa vuol dire “vita perfetta“?
Averla o meno – questo il mantra dal sapore a stelle e strisce – dipende solo da noi, dall’impegno che ci mettiamo. Le possibilità ci sono per tutti, sta a noi coglierle. Dipende da quanto siamo disposti a spingerci avanti nel cinismo e nel disprezzo dell’altro. Dipende da quanto riusciamo a lasciare da parte la compassione, a dimenticare la nostra natura umana.
Non è così.
E chi non ce la fa, chi resta indietro, a volte, come Pietro, non riesce ad accettarlo. Si rifugia nella droga, negli eccessi, nella depressione. Oppure ride, schiaccia il dolore dentro, e poi, alla fine, uccide. Poco importa a chi legge i fogli Excel con gli indici di produttività del Paese che nelle periferie urbane il tasso di abbandono scolastico si impenni di anno in anno, che tra gli immigrati (il 19 enne era arrivato dal Brasile in fasce) sia ben sopra la media, che a lui mancasse il papà (se ne era andato tempo fa), e che la madre, provata dalla vita, ripetesse che in fondo “facciamo tutti un po’ schifo”. E di storie come queste, che attendono solo un innesco, ce ne sono centinaia.
La città ammazza chi non è pronto. La corsa al successo ammazza chi non è pronto. La velocità ammazza chi non è pronto. Mi rendo conto che sto divagando, ma ne avevo voglia stamattina.