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Ripensare le città: un’intervista a Carlos Moreno

Può capitare che si organizzi un’intervista, e che per qualche motivo non esca. Può capitare anche che ce la si dimentichi in una cartella del pc. Mi è accaduto – mea culpa – con Carlos Moreno, il teorico della città dei quindici minuti, di gran moda a livello globale e con cui avevo parlato un annetto fa durante la presentazione del progetto del nuovo piazzale Loreto, di cui è sponsor. La riporto qui. Cerniera tra centro e periferia, piazzale Loreto, uno dei luoghi più transitati del capoluogo lombardo, sarà completamente ridisegnato. Spariranno o quasi le auto; appariranno pedoni, alberi e negozi.
Tutto bene? Non proprio. In una città dai valori immobiliari impazziti come la Milano di oggi, un progetto del genere allarga la portata della bolla, espellendo residenti e storici negozianti per far posto a chi può permettersi di reggere il passo. E’ già accaduto nella vicina NoLo (nuovo nome con cui si è chiamata una delle strade più scalcagnate di Milano e la si è resa appetibile); sta avvenendo a Porta Romana e in molti altri quartieri. Il fatto è che una città è un organismo per propria natura imperfetto; cercare la perfezione genera mostri. Vendibili, forse, ma inabitabili. E non sempre i cittadini sono d’accordo. Ecco il pezzo.

Lei è il teorico della città dei quindici minuti, modello applicato in diverse metropoli mondiali. Per esempio, la Parigi di Anna Hidalgo. Come sintetizza il suo pensiero?

Se dovessimo riassumerlo,  potremmo dire che l’obiettivo è definire una città policentrica, decentralizzata, dotata di molti servizi differenti, con una forte riduzione delle distanze. Una città che sviluppi infrastrutture dalla destinazione d’uso plurima. E ultimo, ma non per importanza, una città in grado di sviluppare nuovi modelli economici, per dar luogo a un’economia locale più vibrante, occupazione locale, minore uso delle materie prime.

Da dove, da cosa ha tratto ispirazione?

Da molti pensatori, ma la mia maggior fonte di ispirazione è stata Jane Jacobs, attivista e scrittrice nordamericana, che ha sviluppato il concept della “living city” . Ma non solo: ci sono il new urbanism, il new pedestrianism. In Italia avete la grande scuola di Aldo Rossi. Ho proposto un nuovo paradigma nel punto di convergenza tra le idee di molti pensatori e doers, per attualizzarle al ventunesimo secolo. Un tempo di grandissima urbanizzazione, segnato dalla crisi climatica e da altre come il covid e la guerra.

La pandemia ha fermato il mondo per mesi, costringendoci a ripensare le nostre abitudini. Quanto ha cambiato il covid la prospettiva dei sindaci?

Si è trattato di un crisi molto profonda, ma anche di una grande opportunità per trasformare il modo in cui lavoriamo. Innanzitutto, invece di continuare con lunghe ore di pendolarismo molte persone hanno imparato a lavorare in maniera diversa con la ibridazione tra presenza fisica e attività in remoto. Il secondo punto è che le persone, specialmente tra i venti e i quarant’anni, hanno scoperto il “tempo utile”, cioè la possibilità di avere tempo a disposizione per attività personali, familiari, sociali. E’ una conseguenza del nuovo modo di lavorare: se la gente ha la possibilità di ridurre i lunghi tragitti da pendolare, questo tempo in più  offre finestre per sviluppare nuove attività sociali e amicali. Terzo, con il covid molti hanno scoperto nuove risorse di prossimità: aree verdi , negozi locali, attività culturali e sportive: risorse che si trovano già nello spazio urbano e sono vicine a noi.

Ci sono già molte città in cui le sue teorie sono state applicate: quali sono?

Ne abbiamo tante, in effetti, sparse per il mondo. La novità è l’impegno del C40, di cui fanno parte Roma e Milano. A Milano, il sindaco Sala è totalmente coinvolto. La campagna elettorale per la sua rielezione è stata basata sulla città dei 15 minuti; Roma è nella stessa situazione. Anche in Europa gli esempi non mancano: Lisbona, Barcellona, la nazione scozzese – non solo una città, ma tutta una regione – . Recentemente non solo Parigi, ma tutta la regione dell’Ile de France ha abbracciato questo concept. E poi Buenos Aires, Bogotà, Portland, Cleveland,  Seattle,  Seul, Susa (tra le più grandi città della Tunisia). In Senegal, la capitale Dakar e in Polonia persino molte zone rurali.

Con la pandemia è cambiato il modo di percepire le città,. Ma gli effetti non hanno solo segno positivo.  A volte, migliorando la città l’effetto è espellere certe fasce della popolazione. Milano probabilmente sta commettendo questo errore. Che ne pensa?

Dobbiamo sviluppare il concept della città dei 15 minuti con l’idea di ribilanciare le città. Alcune dinamiche si ripropongono simili in tutti i continenti: una gentrification forte e importante, una frammentazione, una zonizzazione. Con la città dei 15 minuti vogliamo proporre una nuova politica urbana, per arrivare a un nuovo processo decisionale e a un ribilanciamento verso una città policentrica. Ognuno di questi nuovi poli deve offrire servizi culturali, negozi, sport e rigenerare l’occupazione locale. Per quanto riguarda l’housing, dobbiamo promuovere policy per avere social housing e limitare i prezzi di affitti e appartamenti.

Insomma, questo concept deve essere accompagnato da policy sociali.

Con l’esperienza che abbiamo oggi, è molto chiaro che dobbiamo mixare l’housing per la classe media con quello di alto livello. La chiave di volta per implementare con successo la città dei 15 minuti è il mix massivo di categorie sociali e funzionalità. E’ possibile se ci diamo l’obiettivo di creare un percorso che conduca a un ecosistema pubblico-privato. Dobbiamo creare queste alleanze per generare nuovi modelli di business, e sviluppare questa coesistenza.

Il processo di ridefinizione di una città nell’ottica dei quindici minuti può essere vissuto dalla popolazione come top-down: il sindaco decide, la popolazione esegue. Ci sono altri approcci più partecipativi che sostengono, invece, che sia necessario ascoltare di più la voce dei residenti. Per esempio, ci sono esperimenti in Svezia al riguardo. Che ne pensa?

Dopo anni di lavoro con tanti sindaci e associazioni civiche posso dire che non c’è una ricetta valida per tutti: [ridisegnare una città] è un processo di lungo termine il cui punto cruciale è combinare tutti gli elementi in maniera ottimale. Per seguire questa traiettoria, abbiamo senz’altro bisogno di un forte impegno dei sindaci a sviluppare nuove policy urbane, ma allo stesso tempo è necessario sviluppare un impegno rilevante da parte dei cittadini. Un grande esempio è proprio qui a Milano con la community Loreto 2026. Oggi c’è una rotonda completamente dedicata alle macchine, che potremo definire un attrattore di ingorghi. Molti passano un sacco di tempo in auto, eppure si rifiutano di abbandonarla. Per cambiare, dobbiamo creare accettabilità sociale: questa è la grande domanda per me, perché questa trasformazione coinvolge un sacco di persone differenti. Dobbiamo combinare le decisioni strategiche degli amministratore con la partecipazione. Col mio gruppo di lavoro all’università abbiamo sviluppato un nuovo tool che si chiama Proximity Fresk, un gioco materiale per sviluppare la partecipazione dei cittadini: prendono una mappa del territorio, cominciano a ragionarci, e si chiedono quali sono gli ostacoli che impediscono la trasformazione. Dobbiamo combinare visione strategica e partecipazione, e per questo occorre creare nuovi strumenti.

Come può aiutare la tecnologia?

Può aiutare a visualizzare i differenti stadi del progetto, per esempio a far vedere come diventerà l’area su cui oggi sorge la rotonda di piazzale Loreto dopo la trasformazione. Ci saranno fasi molto dure per gli abitanti durante i lavori: i trasporti saranno disturbati per più di un anno, per esempio. Le tecnologie potranno servire per spiegare quello che accade e monitorare, e avere in questo modo un ruolo pedagogico.

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cronaca, reportage, sostenibilità

Quale futuro per Napoli?

Questione di atmosfera, profumi, suoni, vociare: al viaggiatore giunto a Napoli, bastava scendere dal treno per capire di trovarsi all’ombra del Vesuvio. Ma l’altro giorno ho provato una sensazione diversa, di deja vu. In città per festeggiare lo scudetto – festa rimandata, peraltro – mi è sembrato, mai accaduto, di trovarmi in un posto simile a molti altri. Una Venezia, una Firenze, solo un po’ meno linda. Cosa accomuna queste città d’arte universali? Il sovraturismo, direi, che le ha rese quasi parodie, caricature di sé stesse.

Non è accaduto subito. Ci ho messo un po’ ad accorgermene, a decodificare quella sensazione. Ma camminando per le vie dei Quartieri Spagnoli invase da tifosi e bandiere, tra souvenir, chincaglieria e odore di fritto, mi è parso ci fosse meno spontaneità di una volta.

Intendiamoci, la gioia dei napoletani per la vittoria (quasi certa) dello scudetto è vera, viscerale. Nulla può spiegarla a chi non l’abbia avvicinata, magari a casa di amici di amici, dopo una conoscenza durata pochi minuti. Ci è accaduto al rione Sanità, “salvato”, dice un residente, “dalle telecamere a circuito chiuso”. Ma in questo caso siamo lontani dai riflettori.

In centro, tra i bassi, qualcosa non torna a chi conosce il capoluogo campano. Tutto è vero, eppure niente lo pare completamente. Come se l’anima pittoresca della città di Totò fosse stata colorata a tinte troppo brillanti; come dopo un filtro su Instagram, o in una foto dalla postproduzione eccessiva.  

Coordinamento, forse è questa la parola giusta, quello che stona. Al posto della confusione che è il marchio di fabbrica di una città che ha saputo elevare il caos ad arte, i festoni si succedono seguendo linee dalle geometrie sin troppo regolari. Degli storici locali in cui si veniva presi a maleparole se non ci si affrettava a liberare posto, restano tanti ristorantini ordinati e pronti per accogliere i turisti, con tavolinetti disposti in bella fila sui lastroni e menu in inglese più o meno perfetto. Ogni tanto qualche anziana si affaccia a spiare da dietro le imposte questo flusso che ha una fisionomia diversa da quella delle passeggiate domenicali di chi abita nei comuni della cintura: è lo sciame dei turisti vestiti alla stessa maniera, da Milano a Santorini, da Amsterdam a Londra. Stesse scarpe, stessi giubbotti, stessi telefoni. Largo Maradona, un anfratto tra i vicoli dedicato al compianto numero dieci celeste, è un luogo troppo ingenuo per essere vero, sovraccarico com’è di memorabilia, bandiere, dediche.  

Dove sta andando Napoli? Confesso di non avere una risposta.

Presto per parlare di gentrification, ma si tratta di fenomeni già visti altrove, che un amministratore deve tenere presenti.

Un amico, buon conoscitore della città, mi dice: si trova nel pieno di un vorticoso processo di sviluppo, non si può sapere ora dove e come finirà. In certi quartieri, aggiunge, prima era difficile anche pensare di mettere piede: bisogna ricordarselo, prima di giudicare.

Ha ragione, penso. Ma c’è qualcosa che ancora non mi convince, un dubbio che mi punge. Qualcosa di cui è difficile parlare, perché mancano il tempo e lo spazio per provare ad argomentare, e farlo espone alla replica – facile –  di chi contrappone sviluppo turistico e povertà. Napoli non ha forse il diritto di promuoversi e provare ad attirare i viaggiatori come le altre?

Certo che sì, ma forse dovrebbe confrontarsi con qualche domanda, ora che va di moda e Mare fuori è la serie tv più vista tra le decine che affollano i palinsesti. Di chi sono le attività che sorgono come funghi tra i vicoli? In che maniera il denaro che arriva dai turisti si redistribuisce sul territorio e diventa un’opportunità per il futuro dei residenti?

E ancora: che ne sarà, di questi residenti? Si è visto a Venezia, svuotata negli anni, trasformata in un enorme albergo. Potrebbe accadere anche qui.

Non vorrei che la città, una delle poche ad averne ancora una, perdesse la proprie identità.

La questione, tutto sommato, è vecchia, e forse bisogna rassegnarsi al fatto che prima o poi anche le (poche) realtà che hanno resistito cadranno nel gorgo dei selfie stick, degli occhiali a specchio, dei viaggi con le Hogan (abbiamo anche avuto giornalisti che ci sono andati in Ucraina, con le Hogan, se è per questo).  Eppure mi chiedo: possibile che non esista un modello diverso? Un modello di turismo che possa portare benessere senza sovraccaricare i quartieri, trasformandoli in luoghi da selfie, in fondo violentandoli? Pongo la domanda a chi ne sa più di me, perché mi è difficile rispondere.

Mi viene in mente Medellìn, in Colombia. Una città profondamente cambiata dai tempi di Pablo Escobar, che è diventata la più moderna del Paese, l’unica, ad esempio, ad avere una metropolitana. Ci sono aziende e un grande incubatore di startup per i giovani “talenti” che garantiscono copertine e articoli, uno dei quali vergato da chi scrive. E gli altri, i dimenticati? Agli angoli delle strade sono sdraiati i fumatori di crack, ombre senza speranza. Si può passeggiare – con una guida – per la Comuna 13, un sobborgo tra i più problematici; ma può facilmente capitare di essere rapinati, tranne nel lussuosissimo quartiere del Poblado, dove hamburgerie veg, cocktail bar e saloni di bellezza all’europea appartengono a individui poco raccomandabili. Alcuni dei quali, nostri connazionali.

Anche in Colombia emerge la contraddizione forse insanabile: il turismo, le carovane di turisti che sfilano tra le case della Comuna 13 sono mal sopportate dai residenti; ma rappresentano forse l’unica salvezza per i ragazzi che imparano le lingue su YouTube, hanno visto omicidi mentre andavano a scuola, e sognano un futuro in Europa quando si scambiano indirizzi e email con chi arriva. C’è la corruzione, il degrado, e la tensione verso il futuro, la modernità. Dove sta la verità?

Come si cambia – stavo per scrivere: si salva – una città senza snaturarla?

Certe scelte vanno fatte adesso che Napoli è di moda, e la sigla di Mare fuori la cantano anche a Milano sui tram.

Non vorrei che la città fosse svenduta alla speculazione di chi è sempre a caccia di nuove occasioni di investimento.

Non vorrei mai vedere, anche qui, i residenti storici cacciati dal centro perché i prezzi degli apppartamenti aumentano a causa degli affitti brevi, per finire in periferie destinate a restare ghetti. I riflettori accesi da una parte, le luci spente dall’altra. Fenomeni cui abbiamo già assistito. Non vorrei, insomma, che Napoli, che finora è rimasta un passo indietro, finisse per cedere e diventasse un’altra galleria di immagini da cartolina, che il turista si vede scorrere davanti, senza riuscire a coglierne l’anima e il dolore, che in quei vicoli è sempre esistito ed esiste. Insomma, che l’odore di un benessere improbabile proprio perché improvviso ne cancellasse l’umanità: ciò che da sempre la contraddistingue.

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