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Un leader che resterà nella storia

A pochi giorni dai terribili attacchi di Hamas, il 24 ottobre 2023, nel momento in cui la sola retorica della vendetta dominava i media e le dichiarazioni della politica, un unico leader ebbe il coraggio di contestualizzare e ripetere che, per quanto tragico, quanto accaduto “didn’t happen in a vacuum“. Era il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres. Un funzionario (non un politico) che sarà ricordato a lungo per l’audacia nel prendere posizioni scomode e scagliarsi contro lo status quo. Non solo in questo caso.

Con le sue affermazioni (che gli attirarono la reazione rabbiosa di Israele), Guterres consentì di fatto alla stampa di uscire dall’angolo e cominciare a raccontare un’altra versione della storia, più aderente alla realtà. La stessa che ha portato alle manifestazioni di solidarietà con il popolo martoriato di Gaza delle settimane scorse. Non è un mistero che i giornali (con poche, lodevoli eccezioni) siano pavidi di fronte al potere, agli investitori, ma anche – negli ultimi anni – al politicamente corretto. Molto di quello che leggiamo riflette la preoccupazione di non disturbare. Onore, dunque, ad Antonio Guterres, uomo vero in un mondo di pagliacci.

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Qualche pensiero sulla partecipazione

Era un’esperienza legata alle grandi battaglie civili, e il riferimento in Italia sono sicuramente i radicali di Marco Pannella; negli anni è diventata una moda alimentare, non sempre con l’ausilio del buonsenso. Ma, prima ancora, era un’esperienza mistica, i cui riverberi si sentono nel Ramadan musulmano e nella quaresima cristiana. Atti politici, di penitenza, o di benessere. Ma il digiuno resta, prima di tutto, l’assenza di cibo. Una mancanza non autoinflitta. Cattivi raccolti, tempo inclemente, grande freddo o caldo: il piatto resta vuoto. Non solo. Più spesso che no è stato usato come arma di guerra. Gaza non è il primo caso:  in Somalia, per esempio, durante la guerra civile all’inizio degli anni Novanta. Ma la storia non manca di ammonimenti. Si imprime la fame nel corpo e nella mente di una popolazione per fiaccarne la resistenza, per risvegliare gli istinti animaleschi che la cività ha sopito; per riportarla all’homo homini lupus (l’uomo è lupo per l’uomo), sintesi filosofica di Hobbes per qualcuno insuperata.

Quando mia moglie (che lavora in un ospedale) mi ha proposto di aderire al digiuno per Gaza di medici e operatori sanitari il 28 agosto – la campagna era aperta anche ai cittadini comuni -, ho subito accettato: apprezzavo che lo spunto arrivasse da una persona con un pensiero preciso su molte questioni del nostro tempo, ma che di solito tende a tenere per sé le proprie considerazioni quando si tratta di dimostrazioni pubbliche. Credo, invece, che ci sia bisogno di atti politici. Così, senza pensarci troppo, abbiamo cominciato queste 24 ore. Proverò a lasciare qui qualche ricordo.

Il primo è l’acuirsi dei sensi. Il corpo è sveglio, lucido, concentrato. Sin troppo. Si torna sempre con la testa al cibo, ma è come se la mente diventasse più affilata, come se sgombrasse il campo da tutto quanto è superfluo – forse il cibo è la metafora del sovraccarico interiore – . Mi ha fatto venire in mente l’esperienza del Ramadan, il digiuno dal tramonto all’alba dei musulmani, portato avanti un mese all’anno. Per domare la mente e i morsi della fame è necessario tornare alla motivazione, che, in questa maniera, viene accarezzata con costanza. Mi è diventato più semplice capire come l’atto del privarsi del cibo in nome di una ricerca spirituale possa aumentare la fede. Si tratta, in un certo senso, di un investimento emotivo, che lega chi lo pratica al suo oggetto. Tornare ogni volta, tante volte al giorno, con il pensiero alla motivazione consente di vincere la tentazione di mangiare o bere: e rinsalda, così, il proposito con la ripetizione. In tempi vacui, in cui l’attenzione mediamente non dura più di otto secondi per l’influsso dell’ecosistema digitale e visuale in cui siamo immersi, in tempi in cui è possibile parcellizzare anche il lavoro quotidiano in micro-unità da prendere e lasciare quando ci fa comodo, è sempre più raro trovare il senso della continuità. Una sorta di flusso, concetto che mima lo stato mentale sperimentato dai mistici, dove la mente è così concentrata da toccare il sublime. La sto facendo troppo lirica, forse, e le mie sono state solo ventiquattro ore: ho fatto poco. Ma ha permesso, anche a me che non salto mai un pasto, di avvicinarmi a un concetto che mi era sconosciuto.

Altra scoperta: la forza viene dalla disciplina. A volte qualcuno ti chiede come stai. Fa molto piacere, perché aiuta. Ma, inspiegabilmente, si sente un’energia diversa. Forse dovuta al fatto che il corpo non ha risorse impegnate nella digestione, e quindi ne restano di più per il resto; forse per il potere che ha la mente di favorire la secrezione di ormoni del benessere quando ci sentiamo motivati e partecipi di qualcosa di più grande di noi; forse perché, se riusciamo a vincere tante piccole battaglie, cominciamo a intravedere la possibilità di vincerne anche qualcuna più rilevante.

Non lo so. Sta di fatto che il digiuno ha rinforzato la mia motivazione a sostenere la causa di Gaza. E questo non me lo sarei aspettato: credevo fosse un atto dimostrativo, un sacrificio rivolto all’esterno; invece il suo valore è stato anche, e per una buona metà, quello di rinsaldare il mio personale proposito di fare qualcosa per quella terra martoriata; e, in generale, per le cause che mi stanno a cuore. Trovare del tempo, soprattutto. Come diceva Seneca duemila anni fa, quanto la vita era meno frenetica di oggi: non ne abbiamo poco, ne sprechiamo molto. Riuscire a riportare la mente costantemente e tranquillanente su un obiettivo aiuta. Lo yoga lo fa con il respiro. E, come spesso accade, ha ragione.

***

Fin qui la componente individuale. Ce n’è chiaramente un’altra, che distingue l’atto del digiunare per una causa da quello di ricerca interiore, di fede o di penitenza: la dimensione politica.

In questo senso, è necessario comunicare quello che si fa. Nell’epoca dei social network, è un’attività quotidiana per tutti. Eppure, ho visto che tanti hanno mostrato sincero apprezzamento, e sostegno quando ho scritto un post, come richiesto dalla campagna. Ho avuto la sensazione che, se un atto politico arriva da una persona che conosciamo o stimiamo, questo riesca a superare il filtro razionale che mettiamo di fronte alle notizie del telegiornale. Una persona a noi nota che racconta di aver fatto un digiuno per Gaza spinge a riflettere più dei resoconti degli inviati. Sto probabilmente scoprendo l’acqua calda; chi organizza campagne di comunicazione lo sa benissimo, e per questo arruola personaggi pubblici; ma fa un certo effetto sapere di avere questo potere. E non è solo di chi, lavorando nei media, ha più visibilità: è – ovviamente con gradazioni differenti – di tutti. Il concetto è che se si conosce una persona, la si ritiene credibile, e quindi ci si concede lo spazio mentale per una riflessione. Che in qualche caso porta a ripetere il gesto e a innescare una reazione a catena; più spesso resta solo un pensiero. Ma è già abbastanza.

Arriviamo al concetto di partecipazione. Come prevedibile, i commenti sui social non sono stati tutti positivi. C’è chi la ritiene una mera operazione di self marketing (difficile convincerli del contrario: ma comunque, come detto, aderivo a una campagna, e l’ho fatto, peraltro, non senza timore); altri lo ritengono inutile. Questi ultimi, a mio parere, meritano una risposta tratta proprio da questa breve esperienza. Anche qui non scopro niente di nuovo. In sintesi: la partecipazione politica è sempre positiva, in qualunque forma. L’importante è che non tracimi nella violenza. Dalla lettera al giornale al post sul social network, dalla presenza alla maniestazione, al sit-in e ovviamente al voto: tutto conta. Ci sono, chiaramente, azioni più efficaci di altre; ma ogni cosa è meglio dell’inazione. Il politico misura la temperatura alla realtà con il termometro del consenso, e sulla base di questo – che per lui si traduce in possibilità di rielezione – prende le proprie decisioni. Persino i leader autoritari stanno attenti a non esagerare, a non far “venire la febbre”, passatemi l’espressione, al popolo, perché percepiscono che, se le masse si svegliano dal torpore, hanno il potere di rovesciare qualsiasi regime (per sostituirlo con cosa? è la domanda che segue; e anche quella che, non avendo risposta, spesso blocca sul nascere qualunque atto rivoluzionario).

Da quanto sopra discende che constatare una partecipazione pubblica e coordinata a un’azione dimostrativa preoccupa chi decide; e quindi serve, eccome. Oggi gli strumenti digitali permettono molto; se poi si uniscono alla presenza fisica, questa ibridazione amplifica ancora di più. L’idea non è solo quella di mettere in piedi un teatrino social, ovviamente, anche se molti campaigner si accontentano dei like: è quella, più strutturale, di portare gli individui a riflettere, in maniera che orientino le proprie scelte elettorali e di consumo verso obiettivi in linea con i propri valori, senza lasciare la scelta al caso o al mercato con il suo potere di condizionamento. Qui si può trovare la scala della partecipazione, così come disegnata dalla scienza politica sulla base di molti anni di osservazioni. L’essenziale è ricordare che l’atto deve essere pubblico.

Vale la pena ricordare un paio di cose, al riguardo. All’inizio della guerra a Gaza (chiamiamolo pure per quello che è: un genocidio) era molto difficile, per giornalisti e cittadini, mettere le cose in prospettiva. Pur senza negare l’orrore del 7 ottobre e i massacri di Hamas, mantenere lucidità veniva di per sé associato ad antisemitismo; e in questo modo, irretendo chi avrebbe voluto protestare, si giustificava qualunque eccesso. Se l’inerzia è cambiata e oggi ci si può esprimere liberamente  si deve a quei pochi che, sin da subito, hanno con coraggio e non senza timore operato dei distinguo, rischiando pesanti accuse – e anche il lavoro, in certi casi – ; e al segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che un mese dopo il massacro precisò, dopo aver espresso solidarietà agli israeliani, che it didn’t happen in a vacuum (non è successo senza contesto). Quello che dice Guterres, ogni volta che si pronuncia, è notizia per qualunque giornale: e così anche chi era timoroso si è sentito autorizzato a riportarne le parole, e a sdoganare un concetto fondamentale per capire quello che sta accadendo in Medio oriente.

La seconda cosa è che i politici sono abili con la comunicazione: e che oggi, domani e per sempre, un governo e lo stesso Nethanyhahu potrebbe infilare quelli che non si sono espressi di fronte al genocidio di Gaza nel conteggio di chi non era contrario: e questo è intollerabile.

Chiudo con un’ultima considerazione. Ancora una volta ho visto che la migliore risposta all’aggressività è ignorarla; e, se proprio si vuole rispondere, argomentare abbassando i toni. Inutile lasciarsi trascinare: anzi, è degradante. Spero che questo lungo flusso di pensieri possa stimolarne altri.  

(Nella foto, medici di un ospedale marchigiano in digiuno. Altre potere trovarle sotto l’hashtah #digiunogaza)

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Due o tre riflessioni sul giornalismo digitale al tempo del Covid

La crisi pandemica ha avuto qualche effetto positivo, oltre alla tragedia globale delle vittime del Covid. Non sembri blasfemo, a volte è necessario cercare di guardare il bicchiere mezzo pieno per affrontare tempi difficili, pur evitando di gli eccessi dell’ottimismo a priori (che, osservava qualcuno, è un’arma di difesa essenzialmente tragica: vi si ricorre quando ogni tentativo razionale di spiegare un fenomeno è andato a farsi benedire).

Parlo di giornalismo, perché è il settore che conosco meglio.
Qualche premessa. Internet, non è una scoperta, ha cambiato completamente l’approccio all’informazione. Innanzitutto, non si parla quasi più di articoli ma, genericamente, di “contenuti”. Un calderone dove si può infilare tutto, dal tweet griffato alla foto d’autore allo screenshot rubato dal cellulare di un passante che lo ha pubblicato sui social media senza curarsi di impostare la privacy. Ciò è dovuto in buona parte al fatto che la metrica fondamentale con cui si valutano le performance di un sito web è quella delle pagine visitate: e dato che ogni “contenuto”, con un adeguato lavoro di “cucina” redazionale, può equivalere a una pagina, si assiste a una frammentazione che, peraltro, ben si sposa con i ritmi e le esigenze di una vita sempre più frenetica.

Il concetto di informazione si è lentamente imbastardito inglobando quello – uso un termine inglese tipico dell’ambito business non a caso – di entertainment, intrattenimento. Cellulare alla mano, dieci applicazioni aperte contemporaneamente, più un paio di giochini, si salta da una finestra all’altra con l’unica guida di ciò che colpisce di più l’attenzione; che, a questo punto, diventa essenzialmente visuale. A quel punto, ci si ferma per dieci secondi, esattamente il tempo per leggere un titolo, o un tweet, notare un brand di pubblicità, e il gioco ricomincia.

In questo modo, si è progressivamente persa la visione di insieme. Direi a livello sociale. Il cervello è una macchina che si atrofizza se non usata, e chi scrive appartiene alla generazione a cui veniva vietata la calcolatrice. Insomma, ricordo come si fa una divisione a mano.

Sostanzialmente, il pubblico si è abituato da anni a assumere la realtà in microdosi: poco efficaci per curare una malattia, chiamiamola così, quale l’ignoranza. Ogni argomento viene spezzettato. È come assumere un frammento di pastiglia al giorno: quale cura funzionerebbe?

In un’epoca non troppo lontana, non era raro incontrare ferrovieri con la quinta elementare e una cultura sindacale e di diritto del lavoro da far presumere ben più blasonati studi. I cretini laureati, dal canto loro, ci sono sempre stati; ma, francamente, ne giravano meno.

Torniamo a noi. Il modello di business per le aziende editoriali – che, va detto, non sono opere di carità – si è dovuto adeguare. Anche perché, e qui ritorniamo all’attenzione, per catturare l’interesse del lettore ha assunto sempre più importanza il ruolo della “firma”. Leggere un articolo di Gramellini, di Mattia Feltri, o degli altri bravi colleghi che scrivono in prima pagina vale il prezzo del biglietto, come si suol dire. Queste grandi star del giornalismo portano lettori e si fanno pagare di conseguenza, incidendo non poco sui bilanci.

Chiaramente, l’esempio più illustre è quello di Vittorio Feltri, capace di creare un personaggio e persino un giornale a propria immagine e somiglianza. Alzi la mano chi ha letto un articolo di Libero oltre agli editoriali: pochi. E, in certi casi, non sono neanche scritti male. Il punto, però, è un altro: quel quotidiano si compra più che altro per la figura del direttore. Il resto conta poco, e lo si cerca, di solito, altrove. Non parliamo degli epigoni, da Sallusti a Belpietro: una progenie che si limita più che altro a riprenderne le pose.

Nelle redazioni si è creata così una divisione estremamente netta tra grandi firme strapagate (ci sono anche dei giovani, anche se pochi) e redattori ordinari, con stipendi quasi proletari. Mi riferisco ai nuovi assunti: perché gli anziani godono ancora dei contratti sottoscritti quando le vacche erano grasse per tutti (e la ricchezza meglio distribuita). Ah, i diritti acquisiti. Questi contratti pesano ancora parecchio sui bilanci, anche se gli intestatari, bontà loro, non scrivono quasi più. Il resto dei lavoro lo fanno i freelance, i quali, in molti casi, sono pagati in visibilità e buonanotte al secchio. O poco più.

In queste condizioni, chi ha potuto è corso a cercare gloria altrove. Non in altri giornali, perché la situazione dell’editoria è la stessa ovunque. Mi riferisco a uffici stampa, pr, ma anche posizioni da segretaria in aziende. Ho visto personalmente colleghi dotati cambiare mestiere esasperati per la mortificazione e la frustrazione di non arrivare alla fine del mese dopo 30 anni di onorata carriera, trascorsi anche in testate nazionali.

In un mercato lasciato a se stesso, si è creata la solita polarizzazione. Capita anche nelle aziende. Negli anni Sessanta, un amministratore delegato guadagnava trenta volte un operaio. Oggi diverse centinaia. Chi resta, a queste condizioni, spesso lavora di fretta (“breaking news” è un’espressione inflazionata) e senza maestri, sapendo, peraltro, che l’errore è concesso, perché sul web basta poco per correggerlo. Così, capita che sul primo quotidiano nazionale un omicidio venga definito “killing”, senza che alcun caporedattore lo segni in rosso. Linguaggio da Instagram. Peraltro, il termine inglese sarebbe murder, o manslaughter.

Benvenuti nell’informazione digitale anno domini 2020.
Concludo. In questa accozzaglia, farsi un’idea è diventato sempre più difficile. Se prima bastava leggere un articolo lungo, scritto da un giornalista che teneva alla propria firma e che si era preparato a dovere per cominciare a capire qualcosa, oggi il lettore medio compone il quadro giustapponendo pezzi presi da ogni dove. Un po’ come il personaggio della Nausea di Sartre, che voleva farsi una cultura leggendo il volumi della biblioteca dalla a alla z: quello che conta non è la quantità. E’ la gerarchia.

E veniamo al Covid. La cosa positiva è che la pandemia, dopo uno sbandamento iniziale, ha rimesso in primo piano la competenza, marcando la differenza tra prodotti editoriali di serie a e altri di serie b.

Cominciano ad apparire (e a guadagnare spazio) firme meno blasonate ma più preparate dei tuttologi da prima pagina. Mi viene in mente Sandro Modeo del Corriere. Questo articolo nasce dopo aver letto l’ennesimo suo bel pezzo.

Modeo (ma non è l’unico) scrive articoli lunghi, documentati, precisi ma caratterizzati dallo sforzo di rendere comprensibili concetti ostici. Anche sul web, nel regno dell’effimero.

Si sta (finalmente) superando il concetto che l’articolo lungo non renda. Al contrario. Il longform è quello che ci vuole per spiegare al lettore che l’informazione di qualità va pagata, così come, peraltro, è sempre stato fino a 20 anni fa. E non con i dati. Oggi come oggi, superata la fase in cui abbonarsi al digitale costava parecchio, con pochi euro alla settimana è possibile accedere ai contenuti premium. Credetemi: dopo aver provato, non tornerete più indietro.

I nomi storici hanno cominciato a perdere i lettori più attenti (che spesso fa rima con fedeli) a vantaggio di realtà più piccole ma in grado di guadagnarsi credibilità senza rincorrere l’ultima idiozia, ogni giorno, a tutte le ore, si tratti di Salvini o dei testi sierologici. Niente di nuovo, in fondo: una mensilizzazione, potremmo dire, di una parte del web.

Sono anche nate (o meglio, si sono evolute) forme più raffinate di introiti. Dai branded content (che hanno una propria dignità, quando fatti bene: guardate l’esempio della serie Cocainomics del Wall Street Journal, sponsorizzata da Netflix prima del lancio di Narcos) alle testate che stanno in piedi grazie ai bandi. A volte li emettono soggetti privati, a volte sono aziende, come Google, che ha lanciato numerosi progetti e sta cercando di rifarsi una reputazione dopo essere finita nel mirino dei regolatori e di una parte sempre più consistente di pubbloco. Come sempre, per il lettore, la cosa più importante è sapere con esattezza chi ci mette i soldi: e tenere presente che è difficile parlare male di chi ti finanzia.

Insomma: alla pandemia dobbiamo la prima, e più importante, crepa in quella che era la vera barriera alla transizione digitale: la reticenza del lettore a pagare per i contenuti, a fare il gesto di inserire i dati della propria carta di credito per avere notizie che, credeva, avrebbe potuto avere gratis. Il problema non è solo questo: più spesso di quanto sembri, è una questione di pigrizia (nessuno ama alzarsi a cercare i codici nel portafoglio quando vuole solo leggere un articolo in santa pace), senza contare la paura di frodi informatiche. La nuova abitudine al commercio elettronico sta travolgendo molte resistenze ataviche.

Inoltre, la pandemia – che riguarda proprio tutti, mettendo a rischio il bene più prezioso, la salute – ha reso più chiara la differenza tra informazione di qualità (fatta da persone competenti, dove , come dicono gli anglosassoni, less is more e conta la gerarchia) – e l’accozzaglia di notizie confuse e prive di un reale significato proposta da molti media mainstream.

Al momento si sta ancora seminando, ma penso che manchi poco: i frutti arriveranno. C’è ancora posto per qualcuno sul treno: ma chi ha scommesso due o tre anni fa, riuscendo a restare in piedi nel frattempo, si appresta a raccogliere i risultati.

Anche le redazioni cominciano a cambiare assetto. Qualcuno va in pensione, qualcun altro, si diceva cambia mestiere.

Ogni tanto sui forum della nostra categoria un giovane chiede se fare o meno del giornalismo la propria strada. Personalmente, sconsiglierei. Ma è sempre stato così: solo chi è motivato comincia qualcosa dopo avere sentito tutto il male possibile. Aggiungerei, però, una cosa: se vuoi fare questo mestiere, ragazzo, devi studiare. Tanto. Il tempo del “sempre meglio che lavorare”, se mai è esistito, è finito. Il livello si è alzato: chi non lo ha capisce, verrà travolto. Ci sono, tra i restii al cambiamento, anche tanti padri e madri di famiglia.

La rivoluzione digitale ha impattato sull’editoria scardinando tutto quanto era vero fino a 20 anni fa. Certo, a far da guida, restano i capisaldi dell’etica professionale. Ma il problema, anche per noi che ci lavoriamo, è un altro. È che siamo solo agli inizi.

(Foto di Shutterbug75 da Pixabay)

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