cronaca, milano, politica

Calati iuncu

Non è come sembra, dice il marito trovato a letto con l’amante. Innumerevoli film della commedia sexy all’italiana su questa litania hanno fatto fortuna. Ma, per chi amasse riferimenti più colti, torna ancora una volta utile il milanese Alessandro Manzoni, con il dottor Azzeccagarbugli dei Promessi Sposi (duecento anni fa, quattrocento nella finzione): uno che annegava nel latinorum, un intruglio di parole con l’obiettivo di non far capire nulla ai malcapitati clienti e ai giudici. Spieghiamo.

In sostanza, l’immobiliarista Manfredi Catella e gli altri indagati nell’inchiesta sulla suburra dell’urbanistica meneghina si difendono (chi con memorie scritte, chi nel corso di audizione ) disseminando dubbi, facendo distinguo riguardo alle chat messe agli atti. Non è come sembra, sostengono tutti assieme. Così, in questa narrazione, le parole intercettate dai magistrati diventano poca cosa, chiacchiere informali tra conoscenti.
Ma in altri ambiti, distanti dall’urbanistica lombarda, quando si discute di questioni scomode si prendono certe precauzioni: si parla solo in presenza e ,quando lo si fa, non manca chi lascia il cellulare nell’altra stanza. Essere lassi al riguardo tradisce l’idea di sentirsi all’interno di una bolla dove nulla di male può accadere. Perché Roma ha assegnato a Milano il ruolo di locomotiva del pil italiano, un mandato ampio, tanto più dopo la crisi di inizio millennio: e il lavoro sporco qualcuno deve pur farlo. Tanto poi le cose si sistemano.

Nei tribunali non si fa giustizia: si applica la legge. Ed è per questo che le norme a Milano hanno cercato di scriverle da sé , arrivando a far votare al Parlamento un salvacondotto fortunatamente bloccato.

Con queste premesse, vedremo cosa dirà l’esame dei magistrati. Quello politico, però, è altra cosa. Si può evitare la galera, che peraltro è da poveracci: ma non il giudizio della Storia. E quello difficilmente sarà clemente. Una generazione di architetti, amministratori e faccendieri merita di essere allontanata dalla cosa pubblica: ed è strano che debba intervenire la magistratura per ricordarcelo. È strano che la gente abbia dato forma ed espressione alla propria rabbia solo dopo le inchieste della procura, come se prima fosse stata avviluppata dalle narrazioni marchettare all’americana, per cui “vivi in una città che offre tutto quanto si possa desiderare”, e se non ce la fai a tenere il passo “è solo perché non ti sei impegnato abbastanza”. È strano che a protestare contro l’andazzo del capoluogo lombardo fosse solo una ristretta cerchia di – chiamiamoli così – intellettuali, mentre gli altri, il popolo, si rifugiavano nel non voto, segno di una sfiducia ormai cronica verso il sistema. Come gli adolescenti che si chiudono in camera perché non si sentono compresi dagli adulti, e non hanno speranza di esserlo. L’adolescenza poi passa, di solito, e ci si prende la responsabilità della propria vita: è quello che c’è da augurarsi anche per Milano. A volte serve un supporto esterno: uno psicologo , un insegnante, un prete, ed è questo il ruolo della stampa. Ora che la questione è posta, non deve farsi irretire ancora una volta dai quattrini dei costruttori (Catella ha visto aperture, interviste e titoli accomodanti su troppi giornalini e giornaloni durante il suo regno). Perché il nostro non è e non sarà mai un popolo equilibrato; saremo sempre tentati parimenti dall’esaltazione e dalla forca; e in questo scenario, navigare fuori dalle acque tempestose non è facile. Tradotto: non facciamola finire in una bolla di sapone. Il potere di condizionamento di certi soggetti è suadente. E fra poco, passata la buriana e caduta qualche testa, ricominceranno a comprarsi le copertine, secondo i dettami della “comunicazione di crisi”, che ricalca il detto siciliano: calati juncu, che passa la china (piegati giunco, intanto che la tempesta passa ).

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esteri

Sul prossimo papa

Chissà chi sarà il prossimo papa, se proseguirà nella linea di apertura di Francesco o la Chiesa tornerà a una scelta conservatrice. La notizia sarebbe questa seconda ipotesi, non improbabile, che si attaglierebbe, peraltro, alla corrente che percorre il mondo in questi anni. Un papa che consolida, non apre. Come fu per Ratzinger, e la sua lotta contro il relativismo seguita all’11 settembre, anni in cui le istanze delle comunità islamiche cominciarono a guadagnare importanza anche in Occidente. Bergoglio era un uomo di pace. Non privo di contraddizioni, ma un buono. Se la scelta della Chiesa – o meglio, del conclave, dal momento che le istituzioni sono fatte di persone – sceglierà per la conservazione, perderemo un pontiere e ci ritroveremo un altro belligerante in campo.

Tanti piangono un papa umano, che ai salamelecchi di corte ha preferito la gente. Francesco è pianto anche da chi – come il sottoscritto – è di una religiosità agnostica, e sicuramente anticlericale.

Ma lo sfarzo che tuttora caratterizza il Vaticano non può impedire di sentire la mancanza di una figura che, nel contesto del cinismo del potere, si è distinta per la capacità di mettere in discussione il sistema in cui pur era inserito. E dai prossimi giorni dipenderà una parte della pace dei prossimi anni.  E neanche la più piccola.

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esteri, politica

Elezioni in Germania, la partecipazione all’83,5% alimenta la speranza contro i populismi?

Elezioni in Germania, vincono i conservatori della Cdu/Csu con il 28,5% delle schede. Non certo una sorpresa il secondo posto di Alternative für Deutschland, partito di estrema destra che al timone vede Alice Weidel. Afd, questa la sigla con cui è noto, duplica il consenso rispetto alla scorsa tornata elettorale

(che risale al 2021) e piazza un 20,8% che la rende una forza con cui il paese dovrà necessariamente fare i conti. Male la Spd (centrosinistra), il partito del cancelliere uscente, Olaf Scholz: 16,4% delle schede, per la peggior prestazione dalla fondazione della compagine, un secolo e mezzo fa. 

Quello che mi colpisce, anche più della prestazione di Afd (quasi inevitabile di questi tempi), è il dato sulla partecipazione: 83,5%, il più rilevante dalla riunificazione. In un momento di disaffezione alla politica, 8 eventi diritto su 10 si sono recati alle urne per dire la propria. E, considerato che il populismo e l’estrema destra allignano  tra chi fatica a tradurre le proprie sensazioni in una scelta politica, preferendo un generico rifiuto di tutto il sistema, mi pare un buon segnale. Se uno ce n’è. 

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economia, esteri, media, politica, tech

Similarities

Zuckerberg reportedly asked Trump to block Eu fines on American tech companies. Here’s the reason of the last days’ repositioning on fact checking and diversity and inclusion policies: ingratiating Trump so to put pressure, not only in the Us , but abroad. These new – so to speak – tech oligarchs are getting closer and closer to power, just like their Russian colleagues. In doing so, they could obviously get burned by the flame – and, even in this respect , Russia has something to teach: the same man who can create your lucks can suddenly destroy you. And in the long run, that’s the most probable thing. But companies divide the reality in quarters.

There’s a third similarity to Russia. Or, to better say, with the old Soviet union. Trump is trying to extend America’s area of influence like the Ussr did in the 20th century with Eastern Europe and the Warsaw pact. Canada, Greenland, Panama. “It’s our national interest”, he says. Someone, a hundred years ago, coined an expression for this: “vital space “.

Europe is not a giant in strictly military terms (at all). But it is, actually , in an economic perspective, in regulations (think about the Ai act, the best legislation in the world on Ai), in culture. And it represents an alternative to the American way of living and doing business, not to mention to its perspective on the world. We have fundamentally experienced colonialism and had enough of it, at least in its “open” version, with tanks and soldiers.

Europe’s only strength to resist to these attacks is to deepen the ties between member countries: more integration between us, more autonomy from America in key strategic sectors. More cultural self consciousness. We represent an alternative to the US, a pacific one. No need to get engaged in Trump’s wars. But, nevertheless, we do have to need to stand firmly in front of these menaces.

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esteri, politica

Tenere Musk fuori dalla politica

Cosa succede con il silenzio stampa sul caso di Cecilia Sala? Quello che è successo ieri. Giorgia Meloni ha chiesto un incontro a Trump, ottenuto pare grazie all’intercessione di Elon Musk, che di Meloni è sostenitore. “Lasciateci lavorare, fidatevi di me” aveva detto alla famiglia.  Qualche ora dopo l’agenzia di stampa economica Bloomberg batte la notizia che, nel corso della visita negli Stati Uniti,  la presidente si sarebbe impegnata con Space X, società di Elon Musk, per un miliardo e mezzo di dollari. L’azienda dovrebbe fornire sistemi di comunicazione militare all’Italia.

Mettere sistemi di comunicazione vitali nelle mani di Musk è la nemesi di ogni strategia di sicurezza nazionale. Musk è un oligarca, un cane sciolto che risponde solo a se stesso. In virtù di una ricchezza esorbitante e del possesso di un importante social network – oltre che  di una spregiudicatezza fuori dal comune – è in grado di condizionare le democrazie globali. Andrebbe tenuto lontano dalla politica. Invece Trump l’ha coinvolto nell’amministrazione entrante, e potrebbe affidargli un ruolo di pontiere con l’Iran, di cui l’imprenditore ha incontrato l’ambasciatore all’Onu nei mesi scorsi. Meloni pure.

La contropartita per ottenere il rilascio di Cecilia Sala deve essere il rilascio dell’ingegnere iraniano. Bastano le questioni di diritto, numerose,  come leva negoziale per tenere a bada gli Usa: se ne faranno una ragione.

Ma i politici sono esseri umani, e, più spesso che no, agiscono in maniera irrazionale. Meloni vuole restare in carica fino al 2027, ed essere l’interlocutore privilegiato di Trump in Europa la aiuterebbe non poco. Per questo non può permettersi di indispettirlo a inizio mandato.

Ma la strada che sta seguendo non è corretta, è contraria all’interesse nazionale. E rimarcarlo è compito della stampa. Altro che silenzio stampa, altro che “Lasciateci lavorare”:  quando Tajani piagnucola che l’Iran negozia a carte coperte, “mentre ogni nostra mossa finisce sui giornali”, ammette di non essere all’altezza del compito che gli è stato affidato. Della democrazia i giornali fanno parte. Per il resto, il governo faccia il suo lavoro.

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cronaca

Perché è sbagliato pubblicare i nomi degli stupratori di Gisele Policot

Sono tanti gli organi di informazione internazionali (dalla BBC al New York Times al Guardian, compresi alcuni media italiani) ad aver pubblicato la lista e le biografie dei cinquanta uomini (o solo di alcuni) condannati per aver abusato di Gisele Pelicot. La donna francese, ha riconosciuto in primo grado una giuria di Avignone, sarebbe stata drogata e abusata inconsapevolemente per anni con la regia del marito Dominique.

Sarebbe stato proprio il consorte a reclutare gli uomini sul web. Secondo la corte, gli uomini – camionisti, dipendenti informatici, un giornalista, carpentieri – sarebbero stati consapevoli dello stato di incoscienza della donna. Persone che avresti potuto avere come vicini di casa, commentava la stampa transalpina.

Una vicenda che ha scosso il mondo, e non solo la Francia. La corte ha proceduto a effettuare i rilievi e ha preso una decisione meditata per il reato commesso da Dominique Pelicot e dagli altri cinquanta uomini. Il primo ha preso vent’anni, massimo della pena, gli altri condanne variabili. Ci sono dieci giorni per fare appello.

Eppure, se l’indignanzione per il reato è comprensibile, non capisco, e non giustifico, l’esposizione al pubblico ludibrio della lista dei nomi.

Tra le torture medievali c’era la gogna. Poi, fortunatamente, in Europa abbiamo avuto l’Illuminismo. Quindi, Cesare Beccaria. Quindi, la civiltà giuridica, che tanto ancora stenta se guardiamo alle nostre carceri.

Ecco: in questo contesto che ha superato la barbarie, le sentenze e le pene le comminano i tribunali.

Non le persone in piazza, men che meno i giornalisti, categoria che ha ben poco di cui vantarsi. E verso cui, mediamente, non nutro particolare stima per la supponenza e l’arroganza che ne caratterizzano buona parte.

Scrivere su internet i nomi dei condannati per reati sessuali – notoriamente puniti anche dal codice non scritto dei detenuti – è un orrore civile.

Sono pubblici, si dirà. Ma che si vadano a cercare alla fonte, obietto. E il diritto all’oblio? Il fatto che queste persone resteranno marchiate a vita, in spregio alla funzione rieducativa della pena? La legge del taglione, la vendetta sono concetti barbari, che meglio sarebbe restassero confinati nel passato.

E invece mi pare che la nostra civiltà sia sempre più plasmata dalla pubblica piazza dei social network e dei talent show, regno dei leoni da tastiera e dei polemisti di professione. Manca la calma, manca la riflessione. Manca l’autocritica. Che porta alla consapevolezza che si può sbagliare, si deve per questo pagare, e che poi, si può, si deve tornare alla vita. Perché lo diceva qualcuno un paio di millenni fa: chi è senza peccato scagli la prima pietra.

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città, economia, tendenze

La Milano della solitudine

Servizio di Presa Diretta, da vedere. La Milano descritta è quella della solitudine, resa strutturale – letteralmente – dalle nuove tendenze immobiliari. Che separano le funzioni: casa con case, negozi con negozi, una scuola ogni tanto. Si rischia di meno, dicono gli esperti: lo sviluppatore (chi costruisce, cioè) non rischia il negozio fastidioso sotto i portici, men che meno chiassosi assembramenti. Metti la macchina in garage e sali con l’ascensore dritto fino a casa senza incontrare nessuno: lì ti aspetta Alexa, il metaverso o qualunque scemenza digitale prodotta in questi anni. C’è, però, il punto di ritiro per i pacchi: il commercio elettronico, così impersonale, è il perno dei nuovi aggregati come Cascina Merlata. Ogni tanto, come accaduto a Santa Giulia, si scopre che non hanno fatto le bonifiche e si abita sotto le scorie: e, a occhio e croce, c’è da aspettarsi altri casi, nei prossimi anni.

Ma la vita, osserva uno degli intervistati, sono proprio quegli incontri a volte indesiderati, quella fastidiosa mescolanza: evitarli è una scorciatoria per ridurre il dolore; ma, al contempo, rinunci alla gioia. Un Prozac di mattoni e vetro. Che funziona, aggiunge la docente Elena Granata, fino a che stai bene. Ti crei una bolla domestica in cui vivere connesso, e uscire (se si è fortunati) per gli happy hour, i weekend all’estero, le cinquantadue something week che caratterizzano la Milano degli ultimi anni.
Come sottolinea Manfredi Catella, patron di Coima, uno dei più grandi sviluppatori immobiliari italiani, ognuno fa il suo mestiere. E’ alla politica che spetta il compito di stabilire le regole, dice: gli affari, sintetizzo, restano affari. Catella è uno degli uomini più potenti in città: per influenza e relazioni stacca di gran lunga il sindaco del capoluogo lombardo. Con il vantaggio di non essere legato a nessuna famiglia politica, e poter, quindi, lavorare con tutti, indipendentemente dal colore.

Un amico mi diceva di vivere a Maciachini. Pensavo fosse un po’ fuori. “Guarda che tutta Milano è centro: fra qualche anno non ci sarà differenza, vedrai”. Non comprendevo. Poi sono passato in viale Isonzo, circonvallazione esterna, le colonne d’Ercole tra due mondi: l’inizio della fine. Una volta, forse. Dietro al vicino scalo di Porta Romana, dove sorgerà il Villaggio per le Olimpiadi invernali senza montagna dell’anno prossimo e che diventerà uno studentato una volta archiviato l’evento, vedo un capannello di ragazzi: l’italiano è una lingua staniera, quella ufficiale è l’inglese. Sono gli ospiti del primo edificio del complesso, riuniti nella pizzeria costruita lì sotto. Stessi vestiti, stessi profumi, stessi discorsi dei coetanei di Londra, Varsavia, Madrid. Stesse ambizioni (Ral, e beato chi non capisce l’acronimo): stesso retroterra economico (privilegiato) e culturale (in massima parte, figli di professionisti), che possono pagare 1.500 euro al mese per una stanza con bagno e cucinino, oltre alla retta delle università private più à la page. Era periferia, ed è stata inghiottita dal centro: a pochi passi c’è la Fondazione Prada, che, quanta lungimiranza, quindici anni fa investì nell’area, diventandone il perno. Più dietro viale Ortles, dove c’è un dormitorio per senzatetto, chissà per quanto. A quel punto ho capito. “Fanno il deserto, e la chiamano pace”: mi vengono in mente le parole di Tacito, un risuonare sinistro e senza tempo per una città che sta perdendo l’anima.

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cultura

Se l’arte è (anche) politica

Edison Vieytes è un artista di Montevideo in Italia dal 1982. L’ho conosciuto su una spiaggia calabrese che frequento da molto tempo. Il caldo ci costringe a spogliarci degli abiti, e con essi, di buona parte dei nostri costrutti sociali. In costume, sulla battigia, si resta, più o meno, quello che siamo.

Presentati da un amico, ci siamo rapidamente piaciuti e trovati a parlare di Sudamerica, disuguaglianze, ambiente. Del ruolo dell’arte e della cultura in una società sempre più tecnica, parcellizzata, distante dall’essenziale. Il poeta- albatros (il pittore, nel suo caso) – guarda il mondo dall’alto, supera i confini tra le discipline, scova significati appannati dalla coltre di rumore.

Il mare, l’acqua, conciliano le chiacchiere. Mi ha raccontato delle praterie dell’Uruguay, dalle natura, della colonizzazione delle multinazionali. Di solito gli artisti hanno ego smisurati: non è il suo caso.

La Calabria, come tanti altri territori, sta sperimentando il cambiamento climatico. Fa più caldo, e più a lungo. L’erosione costiera è una realtà. Ma, tra i tanti problemi di questa terra, all’ambiente non spetta un posto. Compito dell’arte, allora, è riportarci all’essenza. Mentre scrivo queste righe, ho sul comodino, come tutti gli anni quando vengo qui,“L’utilità dell’inutile” (Bompiani), del compianto Nuccio Ordine, indimenticato studioso di Diamante (Cosenza), apprezzato un po’ ovunque e mancato troppo presto lo scorso anno.

Ordine, con penna leggera e senza mai trascendere nel giudizio pedante, insiste sull’importanza di non abbandonare l’arte e lo studio dei classici, di non cedere alla mera cultura della tecnica: a non lasciarsi, cioè, guidare solo da ciò che è utile, pur riconoscendone il valore. Le sue pagine, che ormai hanno oltre dieci anni, sono un appiglio solido in questi tempi di frenetico nonsenso. Uno dei pochi, e meritano di essere rilette.

Nelle foto:
Salvezza
@vieytesedison

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politica

Perché inchieste come quella di Fanpage servono alla destra

L’inchiesta di Fanpage sulle propensioni fasciste (quando non proprio francamente razziste e naziste) di Gioventù nazionale, cantera di Fratelli d’Italia, ha il merito di aver scoperchiato la pentola. Ai limiti del consentito dall’etica giornalistica? Sì, e ci vuole il pelo sullo stomaco per infiltrarsi, conquistarsi la fiducia di altre persone, e poi tradirle. Lo si può fare per un fine che si ritiene superiore: politico (per rendere un servizio al Paese), oppure semplicemente narcisistico, componente che nel nostro lavoro esiste e non è secondaria. Per tutti, compreso chi scrive.

Più probabilmente ( come quasi sempre) si tratta di entrambe. Ma il giornalismo è tollerato – nonostante i noti limiti – perché, alla fine, serve alla società. È meglio averlo, e averlo in salute, rispetto al contrario.

Da questa storia, c’è da augurarsi, la destra italiana uscirà ripulita, migliore. Sarà chiaro, una volta di più, che non c’è posto per chi inneggia al razzismo, al nazismo, o a stagioni della storia nazionale in cui qualcuno si arrogava il diritto di decidere per tutti, in ogni aspetto della vita: non solo economico (quella sarebbe la destra), ma anche nel quotidiano. Si chiamano totalitarismi proprio per questo. Anche il comunismo – lo dico prevenendo la critica – appartiene alla stessa schiera.

Perché non è possibile ammettere propensioni verso il fascismo? Non è un’intollerabile intrusione nella libertà di pensiero privare qualcuno delle proprie idee? In fondo, la cessione di una certa quota di libertà individuale è funzionale alla vita sociale: non si può organizzare una società lasciando ognuno libero di fare tutto ciò che vuole, e contando sulla sua capacità di regolarsi autonomamente. Non è possibile – se non nei sogni di qualche militante – fare a meno di un governo. Ma l’esecutivo (pur necessario perché una società prosperi in maniera armonica) deve aver cura di non essere troppo rigido, invasivo, dirigista.

E’ facile comprendere come nei momenti di confusione come quello che attravrsiamo la tentazione autoritaria e messianica guadagni fascino. Sosteneva Freud che “l’umanità ha sempre scambiato un po’ di libertà con un po’ di sicurezza”, e c’è chi offre questa preziosa merce a prezzi di saldo.

Ma la visione di chi, in nome della seconda, sacrifica la prima appartiene all’infanzia delle società. Oggi disponiamo di tutti gli strumenti culturali per gestire la complessità crescente che ci troviamo a fronteggiare senza cedere alla tentazione di accontentarci di risposte semplici, di un deus ex machina in grado di risolvere pronblemi che richiedono responsabilità e sforzo. Le classi dirigenti sono un buon compromesso. E qui no, non siamo tutti uguali: uno non vale uno, se devi guidare un Paese. A patto, però, che queste elite siano illuminate, propense al bene comune, e non portabandiera dei valori di una sola nicchia a scapito di tutte le altre.

Immagino che la destra italiana uscirà più forte da questa storia, avendo fatto, una volta di più, i conti con il proprio passato e la propensione all’uomo (o donna) forte. Processo lungo, ma che altrove non hanno ancora affrontato. Probabilmente alla Francia toccherà lo stesso destino.

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città

Ripensare le città: un’intervista a Carlos Moreno

Può capitare che si organizzi un’intervista, e che per qualche motivo non esca. Può capitare anche che ce la si dimentichi in una cartella del pc. Mi è accaduto – mea culpa – con Carlos Moreno, il teorico della città dei quindici minuti, di gran moda a livello globale e con cui avevo parlato un annetto fa durante la presentazione del progetto del nuovo piazzale Loreto, di cui è sponsor. La riporto qui. Cerniera tra centro e periferia, piazzale Loreto, uno dei luoghi più transitati del capoluogo lombardo, sarà completamente ridisegnato. Spariranno o quasi le auto; appariranno pedoni, alberi e negozi.
Tutto bene? Non proprio. In una città dai valori immobiliari impazziti come la Milano di oggi, un progetto del genere allarga la portata della bolla, espellendo residenti e storici negozianti per far posto a chi può permettersi di reggere il passo. E’ già accaduto nella vicina NoLo (nuovo nome con cui si è chiamata una delle strade più scalcagnate di Milano e la si è resa appetibile); sta avvenendo a Porta Romana e in molti altri quartieri. Il fatto è che una città è un organismo per propria natura imperfetto; cercare la perfezione genera mostri. Vendibili, forse, ma inabitabili. E non sempre i cittadini sono d’accordo. Ecco il pezzo.

Lei è il teorico della città dei quindici minuti, modello applicato in diverse metropoli mondiali. Per esempio, la Parigi di Anna Hidalgo. Come sintetizza il suo pensiero?

Se dovessimo riassumerlo,  potremmo dire che l’obiettivo è definire una città policentrica, decentralizzata, dotata di molti servizi differenti, con una forte riduzione delle distanze. Una città che sviluppi infrastrutture dalla destinazione d’uso plurima. E ultimo, ma non per importanza, una città in grado di sviluppare nuovi modelli economici, per dar luogo a un’economia locale più vibrante, occupazione locale, minore uso delle materie prime.

Da dove, da cosa ha tratto ispirazione?

Da molti pensatori, ma la mia maggior fonte di ispirazione è stata Jane Jacobs, attivista e scrittrice nordamericana, che ha sviluppato il concept della “living city” . Ma non solo: ci sono il new urbanism, il new pedestrianism. In Italia avete la grande scuola di Aldo Rossi. Ho proposto un nuovo paradigma nel punto di convergenza tra le idee di molti pensatori e doers, per attualizzarle al ventunesimo secolo. Un tempo di grandissima urbanizzazione, segnato dalla crisi climatica e da altre come il covid e la guerra.

La pandemia ha fermato il mondo per mesi, costringendoci a ripensare le nostre abitudini. Quanto ha cambiato il covid la prospettiva dei sindaci?

Si è trattato di un crisi molto profonda, ma anche di una grande opportunità per trasformare il modo in cui lavoriamo. Innanzitutto, invece di continuare con lunghe ore di pendolarismo molte persone hanno imparato a lavorare in maniera diversa con la ibridazione tra presenza fisica e attività in remoto. Il secondo punto è che le persone, specialmente tra i venti e i quarant’anni, hanno scoperto il “tempo utile”, cioè la possibilità di avere tempo a disposizione per attività personali, familiari, sociali. E’ una conseguenza del nuovo modo di lavorare: se la gente ha la possibilità di ridurre i lunghi tragitti da pendolare, questo tempo in più  offre finestre per sviluppare nuove attività sociali e amicali. Terzo, con il covid molti hanno scoperto nuove risorse di prossimità: aree verdi , negozi locali, attività culturali e sportive: risorse che si trovano già nello spazio urbano e sono vicine a noi.

Ci sono già molte città in cui le sue teorie sono state applicate: quali sono?

Ne abbiamo tante, in effetti, sparse per il mondo. La novità è l’impegno del C40, di cui fanno parte Roma e Milano. A Milano, il sindaco Sala è totalmente coinvolto. La campagna elettorale per la sua rielezione è stata basata sulla città dei 15 minuti; Roma è nella stessa situazione. Anche in Europa gli esempi non mancano: Lisbona, Barcellona, la nazione scozzese – non solo una città, ma tutta una regione – . Recentemente non solo Parigi, ma tutta la regione dell’Ile de France ha abbracciato questo concept. E poi Buenos Aires, Bogotà, Portland, Cleveland,  Seattle,  Seul, Susa (tra le più grandi città della Tunisia). In Senegal, la capitale Dakar e in Polonia persino molte zone rurali.

Con la pandemia è cambiato il modo di percepire le città,. Ma gli effetti non hanno solo segno positivo.  A volte, migliorando la città l’effetto è espellere certe fasce della popolazione. Milano probabilmente sta commettendo questo errore. Che ne pensa?

Dobbiamo sviluppare il concept della città dei 15 minuti con l’idea di ribilanciare le città. Alcune dinamiche si ripropongono simili in tutti i continenti: una gentrification forte e importante, una frammentazione, una zonizzazione. Con la città dei 15 minuti vogliamo proporre una nuova politica urbana, per arrivare a un nuovo processo decisionale e a un ribilanciamento verso una città policentrica. Ognuno di questi nuovi poli deve offrire servizi culturali, negozi, sport e rigenerare l’occupazione locale. Per quanto riguarda l’housing, dobbiamo promuovere policy per avere social housing e limitare i prezzi di affitti e appartamenti.

Insomma, questo concept deve essere accompagnato da policy sociali.

Con l’esperienza che abbiamo oggi, è molto chiaro che dobbiamo mixare l’housing per la classe media con quello di alto livello. La chiave di volta per implementare con successo la città dei 15 minuti è il mix massivo di categorie sociali e funzionalità. E’ possibile se ci diamo l’obiettivo di creare un percorso che conduca a un ecosistema pubblico-privato. Dobbiamo creare queste alleanze per generare nuovi modelli di business, e sviluppare questa coesistenza.

Il processo di ridefinizione di una città nell’ottica dei quindici minuti può essere vissuto dalla popolazione come top-down: il sindaco decide, la popolazione esegue. Ci sono altri approcci più partecipativi che sostengono, invece, che sia necessario ascoltare di più la voce dei residenti. Per esempio, ci sono esperimenti in Svezia al riguardo. Che ne pensa?

Dopo anni di lavoro con tanti sindaci e associazioni civiche posso dire che non c’è una ricetta valida per tutti: [ridisegnare una città] è un processo di lungo termine il cui punto cruciale è combinare tutti gli elementi in maniera ottimale. Per seguire questa traiettoria, abbiamo senz’altro bisogno di un forte impegno dei sindaci a sviluppare nuove policy urbane, ma allo stesso tempo è necessario sviluppare un impegno rilevante da parte dei cittadini. Un grande esempio è proprio qui a Milano con la community Loreto 2026. Oggi c’è una rotonda completamente dedicata alle macchine, che potremo definire un attrattore di ingorghi. Molti passano un sacco di tempo in auto, eppure si rifiutano di abbandonarla. Per cambiare, dobbiamo creare accettabilità sociale: questa è la grande domanda per me, perché questa trasformazione coinvolge un sacco di persone differenti. Dobbiamo combinare le decisioni strategiche degli amministratore con la partecipazione. Col mio gruppo di lavoro all’università abbiamo sviluppato un nuovo tool che si chiama Proximity Fresk, un gioco materiale per sviluppare la partecipazione dei cittadini: prendono una mappa del territorio, cominciano a ragionarci, e si chiedono quali sono gli ostacoli che impediscono la trasformazione. Dobbiamo combinare visione strategica e partecipazione, e per questo occorre creare nuovi strumenti.

Come può aiutare la tecnologia?

Può aiutare a visualizzare i differenti stadi del progetto, per esempio a far vedere come diventerà l’area su cui oggi sorge la rotonda di piazzale Loreto dopo la trasformazione. Ci saranno fasi molto dure per gli abitanti durante i lavori: i trasporti saranno disturbati per più di un anno, per esempio. Le tecnologie potranno servire per spiegare quello che accade e monitorare, e avere in questo modo un ruolo pedagogico.

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