cronaca, lavoro

La disperazione dei Forconi

Sui volti di tutti si legge la delusione. Sono quelli che non hanno speranza,  quelli che fino a ieri credevano nei Cinque Stelle, e oggi li trovano superati.

Quelli così disperati che da un momento all’altro potrebbero perdere la brocca, e darsi fuoco. O aprire il gas, e lasciarsi addormentare.

Perché normalmente il traffico lo si blocca dietro al paravento di un’associazione, di un movimento. Questi bloccano Milano fregandosene.  Molti di loro non hanno più niente. E chi non ha niente da perdere, si sa, è pericoloso.

I Forconi  paralizzano l’Italia. Ma chi sono, cosa vogliono i manifestanti che da tre giorni si sono presi le piazze della Penisola?

La risposta è una: lavoro. E magari anche un futuro.

Difficile catalogarli: in piazza c’è di tutto. Idee che sono un mix difficile da interpretare.   Quelle che si intravedono nel pomeriggio confuso del capoluogo lombardo girano attorno al nazionalismo, al ritorno alla Costituzione e al rifiuto dell’euro e dell’Europa. E naturalmente, della politica.

Mario e Maria sono qui da un paio d’ore. Sono sposati da 35 anni, ma  – raccontano – “siamo qui per i nostri tre figli, anche se alcuni di loro hanno già famiglia”. Il lavoro non va bene.

A fianco c’è Nicola, tre anni di scuola alberghiera in curriculum: non è riuscito a finirla, e adesso che vorrebbe continuare fino al diploma gli mancano i soldi.  “Non posso neanche emigrare, sull’aereo non ci sali gratis” dice. Così si rifugia nei sogni. Il suo?  Fare l’attore,  “ma sono stanco di vedere ragazze senza talento che vanno in televisione solo perché la danno via al produttore di turno”. La voglia ci sarebbe, ma le idee sono un po’ confuse.

Vincenzo invece ha 44 anni, montone e una sciarpa tipo pashmina.  Sembra un intellettuale, in un certo senso lo è. “Mi sono morti madre e padre nel giro di un anno – dice – e devo mantenere un fratello disabile. Senza lavoro”. Fino a qualche anno fa organizzava eventi, ma ormai  per quelli come lui c’è rimasto poco o niente, e adesso si aggira per la manifestazione con l’I-pad in mano alla ricerca di una speranza.
Anche lui sta pensando di emigrare. La novità sta nel modo: ci racconta che si stanno organizzando dei veri e propri gruppi di gente che va a cercare fortuna all’estero. Tutti assieme. Nuovi viaggi della speranza, moderne carovane che ricordano quelle dei tempi bui; l’unica differenza è che oggi si parte in aereo. Su uno dei prossimi  voli cercherà di imbarcarsi anche lui.

E’ l’Italia da terzo mondo, quella di piazzale Loreto. Nel luogo dove un tempo finì il fascismo, oggi c’è chi rimpiange il Duce. “Ci vorrebbe lui –  si lascia scappare un altro signore, sulla quarantina – Con Mussolini non saremmo ridotti così”. Di politica nessuno vuole sentir parlare, ma  si respira aria di nazionalismo: tante le bandiere italiane, si canta l’inno tutti assieme come ai mondiali di calcio. La sinistra qui non scalda i cuori.

La verità è che più si cerca di capire cosa leghi queste persone, più si fa fatica. A rendere ancora più confuso un quadro già abbastanza improbabile ci si mette pure  lui, Leone di Lernia. Il deejay è impegnato in una sorta di diretta alla radio, parla al telefono con l’emittente ma tra uno spezzone e l’altro fa comunella e simpatizza coi manifestanti. Contrariamente al solito, le sue battute non mi fanno ridere.

“La Fornero! E’ colpa della Fornero quella p…”. La voce è di un signore  anziano, uno che campa con la minima  di 500 euro e se ne va in giro sbraitando contro l’ex ministro, mentre due ragazzi brasiliani bevono birra e una mamma cerca di farsi largo in auto assieme al compagno per raggiungere l’ospedale e partorire. Anche questo significa bloccare il traffico in pieno giorno.

Un tizio grande e grosso cerca di tirare giù dal camion a suon di manate sul cofano un autista di passaggio: unica colpa, avere un lavoro, e non “solidarizzare” scendendo. Per fortuna, qualcuno lo fa ragionare. “Io ho lasciato il mio ristorante per essere qui, devono scendere anche loro” si giustifica l’energumeno.

Non ci sono capi, nel movimento dei Forconi, e se ci sono, danno l’idea di essere improvvisati.  Sembra non ci sia un responsabile, una gerarchia, manca persino un indirizzo email a cui fare riferimento. Sono poche centinaia, ma hanno paralizzato tutto. Qualcuno passava di lì per caso e si è lasciato coinvolgere, qualcun altro  è arrivato qui grazie al tam tam sui social network: ma resta un mistero, ad esempio, chi gestisca la pagina milanese su Facebook,

Non ci sono slogan preparati (a parte l’inno di Mameli cantato a squarciagola), manca una cultura di riferimento. Insomma,  mancano i classici appigli  per dare delle coordinate e capire chi sono, e cosa vogliono, questi manifestanti. E magari, provare a dare delle risposte. Al ministero dell’Interno dicono che l’intelligence monitora tutto. Buono a sapersi.

Ma c’è un disagio forte, fortissimo. Si avverte chiaro, e non è canalizzato.  Per questo fa paura. Mi viene in mente la profezia di Beppe Grillo: “Se non ci fosse il Movimento Cinque Stelle, la gente avrebbe già preso le armi”. Mai avrei pensato di arrivare a dargli ragione.

Meglio i pentastellati che una situazione come questa. In piazzale Loreto ognuno fa quello che vuole. La polizia si limita a guardare:  gli è stato ordinato di non aumentare la tensione, e forse in fondo si immedesimano.

Il fatto è che molti poliziotti senza casco  non se la passano tanto meglio dei manifestanti.  Qui non c’è la retorica dei partiti. C’è la vita vera, quella grezza, la lotta quotidiana per non crepare tra una bolletta, la rata del mutuo e le malattie di corpi segnati dagli anni.

Si torna casa, e non c’è l’Internazionale da ascoltare per sentirsi parte di un gruppo: tra le pareti domestiche,  si è più soli di prima. L’odio non è  neanche più di classe, manca una distinzione chiara tra “amici” e “nemici”: senza riferimenti,  tutti possono passare da una parte all’altra con processi sommari. Hanno ragione ad essere incazzati, ti dici; ma come si fa a non avere paura della piazza in rivolta senza una logica ?

Mi colpisce il fatto che nella piazzale Loreto di oggi sono accampate tutte quelle componenti  sociali che fino a non molto tempo fa si accontentavano di campare con poco e che forse  adesso  non si sentono rappresentate da nessuno. Gente che  a 35 anni vive  ancora coi genitori perché non ha un’occupazione, e questo gli bastava: prendeva un sussidio, magari arrotondava con un po’ di nero. Questo era l’Italia: e fino a poco tempo fa, il sistema ha retto. Ma oggi quel poco non c’è più: e a loro non è rimasto niente.

Una parte del paese sopravvive a fatica, e nei Forconi ha trovato il solo mezzo per farsi sentire. Dove torneranno quando tutto questo finirà?

Non sono cattivi. Il fatto è che, senza gerarchie, senza regole,  vale la legge del più forte. Anche all’interno del movimento. Ma loro, le regole, le rifiutano a prescindere.

Tra le città della Penisola esiste un “coordinamento nazionale di gruppi”, ma la sensazione è di totale improvvisazione: mancano pure i volantini da distribuire. Su quei pochi che girano, tra le altre, ci sono le sigle di Azione Rurale Veneto, dei Cobas del Latte, del Movimento Autonomo Autotrasportatori. Piccolo cabotaggio, sconosciute ai più.

Sono le sedici, il pomeriggio sta finendo. Quattro ragazzini sono sdraiati con il loro zaino nel bel mezzo della piazza.  Avranno 15 anni al massimo.  Gli chiedo cosa li accomuna a questo movimento, perché sono qui. Non sanno rispondere. Non sono i soli, se è per questo. Di fianco hanno gli zaini. Niente scuola, oggi?  “Mah, guarda…tanto per noi non c’è futuro”.  La scena  peggiore di tutta la giornata.

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