cinema

Oppenheimer, o l’epica americana dell’atomica

Un vero filmone all’americana, lungo tre ore, con tutta l’epica a stelle e strisce, musiche incalzanti comprese. Oppenheimer ha preso il testimone di Barbie e sbanca al botteghino. La pellicola racconta la storia dello scienziato newyorkese padre del progetto Manhattan, il programma che condusse alla bomba atomica. Il regista Christopher Nolan mette assieme due piani: la ricostruzione storica (della vita dello scienziato, degli anni a Los Alamos, e del processo postbellico) e i dubbi etici di Oppenheimer. Sono praticamente due film separati, entrambi girati bene, ma che sommati  appesantiscono l’insieme. Nolan avrebbe potuto concentrarsi su uno solo dei due aspetti , ma avrebbe perso la patente epica a cui probabilmente teneva.

Cillian Murphy nei panni di Oppenheimer è credibile, riuscendo a immedesimarsi in tutte le stagioni della vita del fisico con naturalezza, e a renderne evidente chiarezza di pensiero, capacità organizzative e abilità di piazzista , come gli rinfaccerà un collega (“Sei un piazzista della scienza”).

Chi non conosceva la vicenda di Oppenheimer nei dettagli (come il sottoscritto) esce dalla sala arricchito, e con più di una domanda. Se è certo che un ordigno nucleare sarebbe prima o poi stato costruito da qualcuno, il film si chiede giustamente se fosse necessario sganciarlo su Hiroshima e Nagasaki, al prezzo di una carneficina di civili innocenti, quando peraltro il Giappone stava già segretamente trattando una resa. La posizione di Nolan sfuma verso il no, e tratteggia in pochi istanti la realtà di un Paese dotato di enorme potenza bellica ma guidato da una figura priva di cultura (Truman). Corsi e ricorsi della storia.

Nel complesso, a mio parere, il film dura mezz’ora di troppo ma è godibile. Un lavoro accurato, non la pellicola del decennio, ma questo potremo dirlo con cognizione di causa solo a posteriori. Francamente mi ha sorpreso vedere la sala strapiena (ed era la versione in lingua originale, con sottotitoli: tutte esaurite le altre proiezioni). Potere del marketing, del caldo o il segnale di un rinnovato interesse per la scienza in tempi dilaniati dal conflitt tra ricerca ed etica? Il tema era già stato sfiorato da Don’t look up l’anno scorso, e probabilmente segna la nostra epoca più di molti altri.

Standard
cinema

Il Principe, di Beatrice Borromeo

Il principe è la nuova serie di Netflix diretta da Beatrice Borromeo e dedicata a Vittorio Emanuele di Savoia. La donna torna sulle scene dopo il matrimonio con il monegasco Pierre Casiraghi. L’ho guardata ieri sera. Cosa ne penso? Ben confezionata dal punto di vista tecnico e del montaggio, lascia molto a desiderare da quello giornalistico. A partire dall’errore principale: la regista omette di specificare il proprio profondo coinvolgimento familiare nella storia. La madre Paola Marzotto è intervistata più volte, ed era presente all’omicidio di Dirk Hamer, attorno a cui ruota la vicenda. Gli amici ( anche loro intervistati) sono tutti suoi, il gruppo con cui trascorreva le vacanze. Birgit, coraggiosa sorella di Dirk che si è ostinata a cercare la verità, è stata, e forse è ancora, tra le migliori amiche di Paola. 

Vittorio Emanuele non sarà mai simpatico (al contrario del figlio, che a me personalmente piace). Probabilmente ha ucciso per sbaglio ed eccesso d’impeto una persona innocente, e non ha pagato il debito con la giustizia. Ma il girato lascia l’impressione che sia stato attirato in trappola. Insomma, non parlerei nemmeno di docuserie; piuttosto, di invettiva. Quello di Borromeo è un prodotto se vogliamo promettente, ma acerbo, che sarebbe accettabile da una giornalista ventenne (quale lei è stata) ma non da una professionista di quaranta. Su un argomento semplice, per chi gode di certe entrature, che non ha richiesto grossi sforzi: probabilmente è bastato alzare il telefono, e l’entourage ( principe compreso) ha risposto.

Peccato, perché c’erano margine e le premesse per fare un lavoro diverso. Mi resta l’idea che alla regista sia mancata una guida. Che questo sia, insomma, il vezzo di una quarantenne desiderosa di rimettersi in gioco, ma senza troppa convinzione. E che per farlo, la via più semplice sia stata la ricerca del colpo a effetto. Piccolo spoiler: forse la cosa più interessante arriva alla fine, con la battuta su Juan Carlos.

Standard
cinema, politica

Esterno notte, il sequestro Moro visto da Marco Bellocchio

Esterno notte, la serie di Marco Bellocchio sul rapimento Moro, tratteggia bene l’atmosfera, lo smarrimento, la ricerca di senso degli anni del terrorismo,  quando i riferimenti sono caduti uno dopo l’altro sotto i colpi della contestazione ed è necessario sostituirli con qualcos’altro per non rischiare di fare un passo indietro all’ancien regime. Per alcuni, anche a prezzo del sangue.

Dopo il ’68 e le sue molte liberazioni ( dalla famiglia, dalla scuola, dalle ipocrisie della società), nel ’69 la strage di piazza Fontana riporta il Paese con i piedi per terra. Il fronte del lavoro si dimostrerà un terreno  più difficile di altri: in un’epoca ancora contraddistinta dalla produzione industriale di massa, fabbrica, catena di montaggio, capireparto rappresentano il polo di un dualismo tra cui è difficile scegliere: da una parte il salario e la possibilità di acquistare i nuovi prodotti del benessere consumistico, dal giradischi all’automobile; dall’altra, la vita greve, fatta di abusi quasi ottocenteschi ben documentati nelle cronache sindacali di quegli anni.

Le lotte operaie conducono allo Statuto dei lavoratori nel 1970, traguardo storico cui ancora oggi si fa riferimento; rileggerlo è utile per comprendere quale fosse la condizione all’epoca. I colletti bianchi non stavano poi molto meglio: la satira sociale di Paolo Villaggio ne descrive la frustrazione, la “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè anche.

Ma è negli atenei che comincia l’elaborazione di una teoria più o meno organica. In alcuni gruppi comincia a  farsi strada l’idea che è possibile sottrarsi all’imperialismo americano figlio della guerra mondiale e del piano Marshall (l’Italia è un Paese “a sovranità limitata”), al giogo dei padroni e alla dittatura delle multinazionali, tutto in un colpo solo. La risposta, per alcuni, è la lotta armata.

Tra le tante sigle che nascono in quegli anni, ci sono le Brigate Rosse, che imbracciano il mitra quasi subito.

Sono tempi convulsi. Non c’è solo la lotta di classe. Numerose sono le questioni economiche e sociali aperte. Mentre alla radio suonano i Led Zeppelin e Santana, al ’73 risale lo shock petrolifero, che porta alle domeniche a piedi, all’austerity, ma anche a realizzare come, ancora una volta, le crisi colpiscano più forte chi ha di meno.

La droga diventa un problema serio: Lilly, splendido brano di Antonello Venditti, descrive la storia di una ragazza di belle speranze finita nel giro sbagliato.

Si discute aspramente di conquiste sociali come divorzio e aborto, un confronto serrato in un Paese cattolico che, sin dalla proclamazione della Repubblica, è guidato dalla Democrazia Cristiana, ma che conta il Partito Comunista più forte dell’Occidente.

In questo clima, le Br cominciano a rapire e ferire ostaggi selezionati in maniera strategica prevalentemente al Nord industriale: dirigenti pubblici, manager d’azienda, magistrati, fino alla nascita della colonna romana e all’ “attacco al cuore della Stato” attorno al ’75. Al ’78 risale il sequestro di Aldo Moro, che voleva realizzare un storico compromesso tra Dc e comunisti. Personaggio mite ma potente e ben inserito negli apparati statali, il presidente della Dc viene rapito e ucciso in 55 giorni. Non senza opposizione interna nell’organizzazione fondata da Renato Curcio (all’epoca già in galera), e mentre buona parte del Paese scende in piazza per chiederne la liberazione.

La serie di Bellocchio racconta quei due mesi con dovizia di particolari e diversi punti di vista. C’è quello della famiglia – che, nel privato, non riesce a cogliere la grandezza pubblica di Moro – , quello della politica (la crisi del delfino Cossiga , allora ministro dell’Interno; la freddezza di Andreotti; i dubbi sulla linea della fermezza), e naturalmente quello dei terroristi, di cui vengono tratteggiate psicologie e motivazioni,  non sempre inappuntabili dal punto di vista della lotta. C’è anche il Papa, con la sua influenza nelle cose italiane.

Scenografie perfette, dialoghi serrati, una ricostruzione storica che mi pare fedele. Lungo il corso delle sei puntate si viene trasportati dalla regia di Bellocchio negli anni Settanta. I grandi nomi (Toni Servillo e Margherita Buy) ci sono, fanno cartellone ma non sono centrali. La vera star è Fabrizio Gifuni, che interpreta un Aldo Moro drammaticamente reale, disegnandone la personalità delicata ma ferma, la paura, e l’incontro con sentimenti che non credeva di poter provare; quindi, in definitiva, l’umanità. E poi Fausto Russo Alesi (Cossiga), capace di rendere benissimo la caratteristica inflessione sarda del politico, assieme alla ciclotimia e ai tormenti.

Il giudizio di Bellocchio è netto, ma non pedante.

Sono sei puntate su Netflix, poteva essercene forse una in meno, ma è una serie appassionante, non pesante, e da vedere. Nota conclusiva, la sigla iniziale ha un tema che mi è piaciuto molto.

Standard
cinema, cultura

Il Signore delle Formiche, l’Italia bigotta descritta da Amelio

Il Signore delle formiche è un film bello da vedere, forse leggermente lungo, ma ben realizzato. E che fa riflettere. La pellicola di Gianni Amelio ha il merito di dipingere tutti i chiaroscuri di un caso giudiziario realmente accaduto, il processo per plagio ad Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio) negli anni Sessanta, primo caso di applicazione del reato in Italia.

Il professore piacentino, personalità magnetica, era accusato di abusare dei propri allievi sfruttando la propria influenza. Dettaglio centrale, Braibanti era omosessuale. Amelio descrive in maniera efficace come il processo sia stato condizionato dal clima sociale, ai tempi estremamente moralista. E induce lo spettatore a pensare come, da allora, il nostro Paese abbia percorso parecchia strada, anche grazie a chi non è rimasto in silenzio.

Bravi gli attori (applauso all’esordiente Leonardo Maltese, Ettore), dialoghi mai banali, bella fotografia. Stupenda l’ambientazione nella campagna piacentina, il contrasto, così profondamente italiano tra la bellezza della provincia e il bigottismo cinico che si consuma all’ombra dei campanili.

Standard
cinema, cultura

Perché vedere (o non vedere) l’ultimo di Tarantino

Lo dico subito, così non ci pensiamo più. C’era una volta a Hollywood, il nuovo film di Quentin Tarantino, non mi ha convinto. Non che sia una brutta pellicola, ma il regista californiano ci ha abituato fin troppo bene, e il risultato, una volta tanto, delude le aspettative. Che erano, da par suo, altissime.

Tarantino prende spunto dalla strage di Bel Air, eccidio che nel 1969 vide trucidata Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, assieme ad altre quattro persone, mentre il polacco si trovava a Londra.

L’eccidio fu compiuto da una setta di fanatici hippy ispirati da Charles Manson (che però non partecipò all’agguato, preferendo rimanere nascosto nella comune dove viveva), e scioccò il mondo immerso nel flower power del 1968.

Questa la cornice, che fa da sfondo alla storia di Rick e Cliff, un attore di serie B e il suo storico stuntman, amici per la pelle anche se divisi da un abisso in termini di ricchezza. Lo stile di vita, fatta la tara ai guadagni, è più o meno lo stesso: birra, cocktail, sigarette, musica a tutto volume, nessun orario. Il regista descrive le alterne fortune della carriera di Rick, che ha al suo fianco un amico fedele in grado di tirarlo fuori da guai quando occorre.

Un racconto carino dello spirito dei tempi e del mestiere dell’attore. Il problema è che tutto finisce qui. Il film è calato nell’atmosfera di quegli anni formidabili, ma non scava nel rapporto umano tra i due, restando in superficie, e dice poco anche sui tormenti di chi recita e vede la carriera scemare. Non che la specialità del regista di Los Angeles sia insegnare qualcosa, ma personalmente mi è rimasta la sensazione di un‘incompiuta. Manca la tensione narrativa, una trama compatta che riesca a tenere avvinto lo spettatore, per un regista che del climax ha fatto il suo marchio di fabbrica. La pellicola scorre placida e godibile, e questo è tutto. Anche qui, intendiamoci: ciò che a molti sarebbe perdonato, con Tarantino lascia spiazzati.

Il film, nonostante tutto, è carino, con numerosi siparietti divertenti (notevole quello con Bruce Lee), e le due ore e mezzo scorrono, tutto sommato piacevoli.  Le inquadrature sono coloratissime (il regista californiano con la macchina da presa ci sa fare, non è una novità, e lo stile anni Sessanta non passa mai di moda) e anche la colonna sonora è godibile  (ma meno di altre occasioni, vedi Pulp Fiction o Kill Bill).

Brad Pitt e Di Caprio? Che dire, sono bravi e si sapeva. Anche in questa occasione si confermano all’altezza. A giudicare dagli ululati, il pubblico femminile in sala non ne apprezza solo le doti recitative. C’è anche una particina per De Niro, che non si scatena.

Dicono che Tarantino abbia lavorato alla sceneggiatura per cinque anni. A me pare che si sia preso una lunga, lunghissima vacanza in attesa di tornare con il decimo – e a suo dire ultimo  – film. Ci auguriamo che non sia così.

Standard
cinema, musica

A star is born, Bradley Cooper fa centro al debutto come regista

A star in born, è nata una stella. Bradley Cooper sceglie questo soggetto per cimentarsi, per la prima volta, dietro alla macchina da presa. La versione originale è degli anni Trenta, un remake data 1954 e un secondo risale al 1976 (la parte femminile andò a Barbra Streisand). Ora è il turno dell’attore di Filadelfia.

La storia è quella di Jackson Maine, rocker maledetto e di successo, che incontra una cameriera, talento inespresso, voce e melodie da brividi ma ingaggi solo in bar di quart’ordine. I due si sfiorano di notte dopo un concerto. Lui la corteggia e la spinge a provarci sul serio con la musica; lei, inaspettatamente, ce la fa. Il film è il racconto dell’ascesa di Ally, interpretata da Lady Gaga, e del declino di Jack.

Avrebbe potuto essere una commedia sdolcinata, di quelle alla Jennifer Lopez. Invece Cooper, regista e attore protagonista, racconta il vissuto drammatico di un uomo schiavo dell’alcol, perennemente in lotta con i propri demoni, incapace di badare a se stesso. Un uomo che ha avuto tutto, ma vive affacciato su un abisso.

Film intenso, che emoziona, girato benissimo, con due attori protagonisti espressivi ed affiatati. Cooper è così bravo a recitare la parte del rocker maledetto che sembra nella vita non abbia fatto altro che bere, suonare e tirare coca. Lady Gaga dimostra di sapere recitare in maniera convincente. Fotografia alla Sorrentino – alcune scene sono di una delicatezza rara -, colonna sonora da urlo. Il contrasto tra l’artista con un’anima e quello da X Factor. Da vedere al cinema.

Standard
Toni Servillo nei panni di Berlusconi
cinema

Loro 1/2: l’Italia di Berlusconi ritratta da Sorrentino

Scenografico, avvolgente. Malinconico. E’ il Sorrentino di Loro, ultima opera del cineasta italiano premio Oscar nel 2014 con La Grande Bellezza. E senza quel film, come senza Il Divo, non avrebbe potuto nascere questo lavoro, che affresca la corte berlusconiana di stanza a Roma negli anni attorno al 2008.

Sembra passato un secolo, ma si tratta solo di un decennio. Mascherati –  ma non troppo – sfilano Tarantini, la D’Addario, Sabina Began (l’Ape Regina), Nicole Minetti, Noemi Letizia, Sandro Bondi, Daniela Santanché, nomi entrati nell’immaginario collettivo a colpi di intercettazioni pubblicate e scoop giornalistici.

Non ci sono rivelazioni, tutto ciò che si vede è ampiamente noto. E’ un punto di vista, quello di Sorrentino, che non tralascia la grandezza dell’uomo Berlusconi, la sua genialità, pur evidenziandone i limiti.

Il primo episodio è francamente piuttosto lento e noioso, un’introduzione  per larghi tratti ripetitiva. Sesso, droga, e le miserie umane dei governanti, una sfilata di corpi che si trascina senza sorprese. La seconda parte è, invece, il cuore dell’opera, decisamente più valida e con un approfondimento psicologico degno di nota.

Girato magistralmente dal punto di vista tecnico, la fotografia di Bigazzi conferisce ai paesaggi della Sardegna una intensità nuova mentre la colonna sonora, come sempre, è all’altezza. Toni Servillo si è calato nel personaggio del tycoon milanese fino a imitarne la postura, i gesti, le manie, insomma, ha fatto quello che ci si aspettava da un interprete del suo spessore.

Discorso a parte merita, invece, la sceneggiatura. Non si tratta di un film politico, di un’invettiva. E’, piuttosto, un’opera dal sapore storico, quasi una biografia. Come spesso capita in Sorrentino, la trama è liquida, diffusa, e l’insieme conta più della somma delle parti.

Pur evidenziandone i limiti, si diceva,  il regista non tralascia la genialità dell’uomo Berlusconi, il suo talento. La sua solitudine. L’ex premier appare un uomo stanco, circondato da una pletora di yesmen pronti a tradirlo, incapace di trovare un interlocutore con cui confrontarsi, tranne – forse – gli amici Confalonieri e Doris.

Veronica Lario è ben interpretata da Elena Sofia Ricci. Il rapporto di coppia tra i due è descritto con la delicatezza che si deve a un amore che, probabilmente, è stato tale agli inizi, e poi si è perso nella vita frenetica del capitano d’azienda, del presidente di calcio, del leader politico. Veronica, la donna legata a un uomo di cui conosce e accetta le debolezze, perennemente scontenta eppure incapace di staccarsi, rassegnata, e forse anche irretita da una vita fatta di case vacanza e viaggi in Cambogia. Fino a Noemi.  Silvio, incapace di uscire dalla torre d’avorio di un narcisismo che lo condanna all’isolamento, un analfabeta dei sentimenti. Sembra quasi di conoscerli, i due ormai quasi ex coniugi, mentre in cucina scrivono l’epitaffio del loro rapporto. L’interpretazione di Servillo e Ricci dà sostanza a ciò che tante volte si è letto sui giornali, e riesce a caricarsi dei sentimenti ambivalenti che segnano il decorso di ogni storia.

Bravo Riccardo Scamarcio nel ruolo di Tarantini, brava la Smutniak nel ruolo di Sabina Began. Un altro film  di Sorrentino da guardare a notte fonda, in silenzio. Non adatto alla televisione.

Standard
cinema

American Pastoral

America, anni ’60. La storia dello Svedese, il prototipo del vincente a stelle e strisce, prima dell’era di Wall Street. Kalos kai agathos, come dicevano in Grecia, quando alla bellezza del fisico si accompagna quella dell’animo. Una personalità semplice, ingenua, baciata dalla vita, colpita dall’invidia degli dei. Mentre il ’68 scuote il mondo dalle fondamenta, lui si ritira in campagna per non sentire, tornando in città solo per lavorare nella sua fabbrica di guanti. Si costruisce una vita perfetta, sposa una reginetta di bellezza, si rifugia nella quiete bucolica assieme alla moglie, che aveva altre ambizioni. Ma la campana di vetro non regge all’urto. Finirà solo in mezzo a tanti, consumato da un dolore sordo. Alla fine sarà il più forte di tutti a rivelarsi il più debole e fragile. Il campione che eccelleva nello sport, dove le regole rendono la pugna prevedibile, crolla nella lotta da strada, quando i colpi arrivano da tutte le parti, senza un ordine. E senza regole a premiare i buoni.

Passione  e bontà d’animo non bastano, al di là della retorica: questo il messaggio di Roth. La realtà è molto diversa. E intanto l’America va avanti, come sempre, col pragmatismo che le impone di lasciare indietro chi non ce la fa.

Ewan Mac Gregor è stato bravo a rendere un romanzo complesso, semplificandolo (lo scrittore è prolisso, può piacere o meno, ma è il suo stile). Niente male come prima prova di regia, fotografia ottima, scenografia e costumi più che all’altezza. Musiche adeguate. Il film tocca, senza eccedere nell’introspezione come sarebbe stato sin troppo facile.

La storia della figlia dello Svedese e di Dawn mi ha ricordato Lilly di Venditti, una delle canzoni più belle del repertorio italiano. Per strade diverse, i due autori declinano lo stesso concetto: i tormenti di un’anima debole  e inadatta a reggere la pressione sociale, il conformismo. Facile passare dalla parte del torto.

Pastorale americana è un film che rivedremo sicuramente a notte fonda su Retequattro, un piccolo cult destinato a sopravvivere alla stagione cinematografica. Merita.

Standard
cinema, politica, salute

Sicko, o della fortuna di vivere in Europa

L’articolo qui sotto è stato pubblicato in origine su TiSOStengo, ed è disponibile a questo link. Buona lettura. 

Michael Moore è sempre stato un regista controcorrente. Americano fino al midollo, ha fatto della critica al suo paese il fil rouge di tutti i suoi film. Da “Bowling a Columbine” a “Fahrenheit 9/11”, passando per “Capitalism: a love story”, fino a “Where to invade next?” ha affrontato dietro alla macchina da presa tutti i temi più importanti della politica e della società a stelle e strisce. Nel 2007 Moore uscì con un nuovo lavoro, dedicato alla sanità: si chiamava Sicko, ed era destinato, come tutti gli altri, a far riflettere.

Il documentario – le opere del regista di Flint appartengono a questo genere – si apre con la storia di un falegname con due dite amputate da una sega circolare: arrivato al pronto soccorso, e verificato il tipo di copertura assicurativa di cui disponeva, i medici gli chiedono di scegliere quale delle due riattaccare. “Ho scelto l’anulare, per tenerci l’anello del mio matrimonio” confesserà lui; la verità è che costava molto meno del medio.

Benvenuti negli USA, dove le assicurazioni sanitarie dettano legge, e si può essere buttati fuori da un nosocomio (patient dumping) se non si dimostra di essere in grado di pagare, lasciati in mezzo a una strada con il camicione da ricovero ancora addosso.

Quando la salute è un business, le compagnie sanitarie si appellano a ogni cavillo pur di non pagare, fino a rifiutare esami fondamentali. La figura del supervisore medico, retribuito in base a quanto riesce a risparmiare rifiutando visite e prestazioni, ha letteralmente potere di vita e di morte sui pazienti, cercando nell’anamnesi le ragioni per rifiutare la copertura: ogni ricovero deve essere autorizzato, e si dà il caso che, talvolta, qualcuno nell’attesa prenda il volo verso l’ aldilà.

Del resto, negli USA il modello europeo di sanità pubblica viene percepito come “socialista”, in omaggio alla nota allergia americana a ogni sfumatura di rosso che non sia quella della bandiera. Eppure, a pochi passi dalla frontiera, in Canada, curarsi è gratis: ma lo è anche in Francia, in UK, a Cuba, e da noi.

Ben girato, con una colonna sonora all’altezza, Moore con “Sicko” ha il merito di portare fuori dai confini nazionali una situazione che difficilmente può essere immaginata. Come al solito, calca un po’ la mano con la retorica, fino a tratteggiare un quadro di Cuba come paradiso terrestre (e infatti pare che il film sia stato vietato nell’isola: la gente avrebbe potuto agitarsi), ma è un difetto che gli si perdona volentieri.

“Sicko” va visto per ricordarci che, nonostante sia migliorabile nella gestione degli sprechi, nella formazione e selezione del personale e nello spadroneggiare della politica, il nostro modello sociale e sanitario è ancora di gran lunga superiore a quello a stelle e strisce. La salute, in Europa, è garantita a tutti, non solo a chi è ricco. Vale la pena di rifletterci ogni tanto.

(L’articolo originale è stato pubblicato su tiSOStengo del 12 ottobre 2016)

Standard
cinema, cultura

Perché vedere “La grande Bellezza”

Premetto:  non sono un critico cinematografico, né posso definirmi un esperto di cinema, ma questo potrebbe essere un vantaggio.

Dato che non riesco a postare da un po’, lo ammetto: ho bisogno di un argomento semplice per cavarmela in fretta. Provo quindi a condividere alcune impressioni su “La grande bellezza” di Sorrentino, che ho visto due giorni fa dopo essermelo perso a maggio. Un film che a me  è piaciuto parecchio.

Continua a leggere

Standard