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Qualche considerazione finale sulla Cop30 di Belém

Belém (Brasile) – Niente riferimento alla tabella di marcia per la transizione dalle fonti fossili, ma un impegno a triplicare i fondi per l’adattamento. E la dimostrazione che, nonostante tutto, la diplomazia climatica può fare a meno degli Stati Uniti. E’ una conclusione agrodolce quella della Cop30. Belém poteva essere storica, e non lo è stata. Ma almeno non ha rappresentato un tracolllo rispetto alle scorse edizioni di Baku e Dubai. Raccolgo qui qualche considerazione.

  1. Che cosa vogliono i paesi che bloccano il negoziato? Il mondo va verso la transizione energetica, innegabilmente. Nessuno, neanche gli Stati che si basano sul petrolio o sul gas (petromonarchie del Golfo, Russia) può illudersi di fermare o invertire il processo. E allora cosa vogliono? Influenza. Al potere ci si abitua: e il petrolio ha dato ampi margini a territori desertici che altrimenti sarebbero stati ignorati. In Medio Oriente stanno investendo per garantirsi rendite post petrolio, e il tempo in finanza è un fattore chiave: quindi rallentare ha senso per incamerare più risorse. Ma agire da veto-player, piccoli attori che sfruttano le falle dei meccanismi negoziali per bloccare tutto e avere visibilità (pensate ai partitini decisivi per costituire le maggioranze) è anche un modo per affermare la propria diplomazia e il proprio ruolo, anche di ponte culturale, senza tornare piccoli e insignificanti.
  2. Tutto è legato nel mondo di oggi. L’ambiente è il tema principale per noi che frequentiamo le conferenze del clima. Ma la realtà è che è usato come merce di scambio su altri tavoli. Per ottenere concessioni tariffarie, per esempio – non a caso si è parlato tanto di commercio in questa Cop. Non è solo clima, dunque: quando una delegazione riceve ordini per negoziare su una certa posizione, bisogna sempre guardare al contesto geopolitico. Esempio: l’Ucraina non può essere a favore delle fonti fossili (gradite alla Russia, che le esporta). Ma non può dirlo, perché il principale alleato è l’America di Trump. Queste situazioni sono la regola, non l’eccezione. L’India ha un problema demografico e di povertà: negozia sull’ambiente per ottenere altro. Lo stesso Brasile scambia l’Amazzonia con altro. Vicende come quella dei marò insegnano che per avere visibilità ci si attacca a questioni-simbolo. Vale anche per il clima.
  3. Esistono questioni globali, come l’Amazzonia, polmone verde del mondo, che appaiono molto diverse a livello locale. Se per il mondo salvare la foresta tropicale è una priorità, per paesi che hanno bisogno di crescere – e il Brasile sta cercando di diventare una media potenza – , tutto fa brodo: è l’economia dello sviluppo che chiede di chiudere un occhio, forse anche due, per superare la fase di decollo e raggiungere la massa critica. Lo abbiamo fatto anche noi in Italia, lo sta facendo la Polonia, lo ha fatto la Cina – ricordiamoci le Olimpiadi di Pechino con l’aria nera per lo smog, ed era solo il 2008.  Funziona così. Fare finta di scordarselo è ipocrita; non saperlo è ignoranza.
  4. Passare all’elettrico è necessario. Ma ha i suoi costi. Alti. Anche qui, la differenza tra questione globale e impatto locale. L’estrazione del litio e delle terre rare, necessarie per la transizione, sta devastando interi territori. Se ne parla poco, pochissimo. Ma dall’Amazzonia si vede. Qui vicino, in Cile, Argentina, e poi in Africa e nella stessa Cina, questi materiali sono il nuovo petrolio, inteso anche come potere di distruzione. Quanto si può scaricare su paesi e persone il costo di un modello di sviluppo globale basato sullo spreco?  Nei prossimi anni, risolto il tema del clima, il problema sarà questo.
  5. La Cina non vuole essere leader di nulla. Essere avaguardia comporta responsabilità, quantomeno morali.  Che Pechino non vuole. Se fa la transizione, la fa per interesse. Nessuno , in politica, agisce per idealismo: ma la saggezza millenaria insegna ai governanti cinesi che è meglio pensare ai fatti propri. Anche perché, nelle conferenze del clima, la Cina è ancora considerata un paese in via di sviluppo, come era quando le regole furono scritte, nel 1992. Diventare leader significa uscire da quelle tabelle, e quindi pagare di più.
  6. Il processo negoziale ha funzionato per trent’anni, ma va riformato. Il problema è come. Non siamo più nel mondo della globalizzazione, dove si rincorreva l’illusione di un governo mondiale. Molte delle cose positive di questa cop30 sono avvenute nei tavoli laterali. L’aveva previsto l’amico Jacopo Bencini. Il fondo per le foreste tropicali dei primi giorni,  il consenso per una conferenza sulle fonti fossili (aprile 2026, Santa Marta, Colombia, paese che l’ha lanciata con la pasionaria Irene Velez Torres). La roadmap per la transizione, che ha aggregato consenso da parte di 84 paesi, lanciata dal Brasile, che porterà avanti l’idea nei prossimi mesi. Tutto bello. Ma il vantaggio dell’Onu è che offre una cornice strutturata. Le procedure sono noiose, ma salvano. E’ la differenza tra un’azienda e una startup: di queste ultime, dopo un anno sopravvive una su dieci. Dopo cinque? Ancora una su dieci. Di quelle che rimangono. E quelle che resistono, se crescono di scala, si danno delle regole. Una conferenza organizzata così può avere un paio di edizioni: ma come deciderà? Cosa succederà in caso di impasse? Chi darà le carte? L’Onu ha risposte per tutte queste domande, risposte condivise e frutto di un processo di creazione di conoscenza e cultura negoziale quasi secolare, e sicuramente secolare se guardiamo anche all’esperienza della Società delle Nazioni. Il tentativo è apprezzabile, ma non si può abbandonare le Nazioni Unite pensando di farne a meno: ben vengano le iniziative collaterali, anche come stimono a un processo di riforma. Ma non illudiamoci.
  7. Le piccole isole, che l’anno scorso avevano inscenato un drammatico walk out, quest’anno si sono sentite poco. Era la cop della foresta. Ma loro rischiano di finire sott’acqua. Peccato.
  8. La sospensione della plenaria (richiesta da Panama) non deve diventare una norma. Colpi di mano della presidenza devono essere evitati il più possibile, perché ormai ci sono paesi che, anche grazie ai nuovi media, anche se piccoli godono di visibilià e influenza, al punto da prendere la parola e bloccare tutto. Soluzione: niente forzature alla Al Jaber. Si ascoltano tutti. Sarà più lunga, ma per decenni ai piccoli è stata data solo l’illusione di contare. Oggi non è più così: stanno nascendo nuove alleanze, e si sentono spalleggiati. Vanno inclusi.
  9. Si può fare a meno degli Stati Uniti, nella diplomazia climatica. Certamente, se Washington avesse appoggiato la roadmap, la si sarebbe fatta – questo per dire il peso specifico. Non è solo questione di Trump: un passo del genere non lo avrebbe supportato neanche Biden. Però il multilateralismo ha retto. Mi è piaciuto anche il ruolo delle città in questa conferenza, più visibili: è un aspetto su cui lavorare.
  10. Una relazionalità esasperata alle conferenze del clima. Biglietti da visita, strette di mano, salamelecchi. Nessuno si salva, neanche chi scrive. Ma forse è il momento di tornare a pensare un po’ più al nostro lavoro, e un po’ meno a noi stessi. Da Belèm è tutto, appuntamento in Turchia.
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Nelle carte dell’inchiesta sull’urbanistica milanese spunta anche la Cop29

Nelle carte dell’inchiesta sulla suburra dell’urbanistica milanese che ha condotto all’arresto di sei persone spunta anche la Cop, la Conferenza delle parti della Nazioni Unite sul clima.

E’ a pagina 401 dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Mattia Fiorentini su richiesta dei pubblici ministeri milanesi.

A parlare è Giuseppe Marinoni, a capo della Commissione paesaggio del comune di Milano. Nelle conversazioni sequestrate dai magistrati e finite agli atti, Marinoni si rivolge – tra gli altri – a Paolo Colombo, architetto titolare della società A++  di Massagno, vicino Lugano, studio internazionale di architettura con parecchi progetti attivi in Italia e all’estero. Secondo il Corriere del Ticino, Colombo sarebbe stato protagonista di alcune importanti operazioni immobiliari in territorio svizzero negli ultimi anni.

Tra i due ci sarebbe un rapporto di conoscenza, non esclusivamente personale, ma – pare – anche professionale.

“Caro Paolo, ho visto che andiamo assieme in Azerbaijan”, scrive Marinoni nel pomeriggio del 17 gennaio 2024. Nel paese asiatico si sarebbe tenuta otto mesi dopo la Cop29, conferenza internazionale con al centro i temi del riscaldamento globale. Nate come evento tecnico negli anni Novanta, le Conferenze delle parti sul clima (ce ne sono anche altre, come quelle sulla biodiversità, molto meno frequentate) col tempo sono diventate sempre più popolari e mediatiche. E’ in questa sede che, nel 2015, è stato raggiunto il compromesso sull’accordo di Parigi per limitare il riscaldamento globale a due gradi rispetto ai valori preindustriali, momento storico. Altro anno epocale il 2021, subito dopo il Covid, con l’edizione scozzese di Glasgow: il mondo appena uscito dalla pandemia si era raccolto con entusiasmo nella città britannica con uno slancio poi perso sotto i colpi di guerre e crisi energetiche. Grande copertura mediatica, allora, grande affluenza di delegati, grandi aspettative.

Fu l’anno della svolta, quello in cui la conferenza cominciò a crescere oltremisura inglobando sempre più aziende e figure opache. Tanto da rendere necessario un intervento delle Nazioni unite per rendere visibile sui badge l’affiliazione dei partecipanti: nei corridoi, tra diplomatici e negoziatori, si aggiravano anche dirigenti di multinazionali delle fonti fossili, uomini dei giganti della consulenza (interessati a vendere i propri servizi green e in palese conflitto di interessi, dal momento che lavorano anche per i big del petrolio). Come ho raccontato più volte su Wired, allargare le maglie e coinvolgere gli attori economici era un passaggio probabilmente necessario del percorso per raggiungere gli obiettivi climatici: ma per come è avvenuto, si è trattato di un allargamento frettoloso e lasso. Tanti si sono presentati ai cancelli delle Cop per dare una mano di vernice verde alle proprie attività, a favor di telecamere e social network. Tra questi, a quanto emerge dalle chat, ci sarebbe stato anche Marinoni. Torniamo alle carte.

“Ho detto a Raffaella che dobbiamo portare una presentazione con masterplan, considera anche la possibilità di mettere le realizzazioni di Porta nuova e piazza Gae Aulenti. Il masterplan è firmato anche da me e lo posso rendere pubblico. Se non ti offendi possiamo anche dire che lo abbiamo fatto assieme”, scrive sempre il 17 gennaio 2024.

Il 18 giugno, Marinoni torna alla carica. “Paolo, se andiamo in Azerbaijan non ci serve un’interprete italiano russo? Potrei chiedere alla mia fidanzata…”. La signora – di cui non facciamo il nome perché non risulta indagata – ha spirito di iniziativa. Qualche giorno prima, il 12 giugno 2025, aveva preso il telefono di Marinoni per piazzare il compagno.  “Buongiorno dottor[…], sono […], la fidanzata di Giuseppe Marinoni. Giusppe ha appena pubblicato questo libro in italiano sulla sostenibilità ambientale della città”, scrive la donna, “tema che avete affrontato nelle interviste che Giuseppe e Paolo hanno rilasciato nella vostra televisione. Considerato che nel libro si parla anche della White City di Baku, Giuseppe chiede se poteste essere interessati a fare un’edizione in russo, sia come ebook che cartacea. Giuseppe potrebbe fare tutto con la sua casa editrice e farvi avere i libri stampati. Potrebbe essere interessante per voi distribuirlo in previsione della Cop29. E’ solo necessario che riconosciate alla casa editrice un rimborso spese. Se ti interessa possiamo fare una call per chiarirci meglio. Grazie anche a nome di Giuseppe”.

Niente di penalmente rilevante, ovviamente. Così va il mondo, ma leggere questo scambio mi ha fatto un certo effetto.

Ora che la prossima Cop, la più instagrammabile di sempre, sarà in Brasile e rischia di perdere rappresentatività perché sono molte le associazioni (e persino i governi) che faticano ad accollarsi i costi assurdi di una sistemazione a Belèm, sarà interessante vedere chi ci sarà, “a chi appartengono” i partecipanti. Tenete d’occhio i social: in Brasile a novembre volerà solo chi ha un vero interesse da difendere. Che si tratti di clima, di quattrini o di visibilità, beh, quello  è un altro discorso.

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Un crowfunding per Hope, documentario sulla Cop30

Li ho conosciuti in questi anni passati in giro per il mondo a seguire conferenze sul clima, le Cop: da Glasgow a Sharm El Sheikh, da Dubai a Baku loro c’erano, cellulari e pc alla mano, per raccontare quello che accadeva. Sono giovani, svegli, preparati. Soprattutto, lavorano bene sui media digitali per portare a un pubblico ampio i temi del cambiamento climatico – quello che in ambito universitario viene chiamato disseminazione della conoscenza: perché la ricerca non basta, se non impara a uscire dai corridoi degli atenei.

L’associazione è Change For Planet, e per la Cop30 di Belém (Brasile, in scena a novembre) ha pensato di girare un documentario che racconti le contraddizioni dello Stato sudamericano. “Nel cuore pulsante dell’Amazzonia, tra Belém e Manaus, seguiremo il cammino di giovani attivisti e attiviste dall’Europa e dall’America Latina, uniti a ong e comunità indigene che ogni giorno affrontano, vivono e combattono gli effetti della crisi climatica”, dice la presidente Roberta Bonacossa. Un lavoro ambizioso e indipendente, per raccontare gli aspetti meno mediatici dell’appuntamento.

Hope, questo il nome del progetto, sarà finanziato da un crowdfunding. Aiutarlo con un piccolo contributo è un’idea da considerare (qui ci sono tutte le informazioni per farlo): Change for Planet ha svolto un ottimo lavoro in questi anni, e merita la chance di salire sull’aereo per il Sudamerica. L’opera di divulgazione che l’associazione ha portato avanti non ha padrini compromessi con il mondo delle fonti fossili  ed è ritenuta da molti giovani più affidabile (non a torto) di quella di tanti giornali.

Ma la scelta di finanziare questi ragazzi ha anche il senso di farli crescere come professionisti, consentendogli di lavorare a un progetto strutturato e più ambizioso di quelli realizzati finora. La Cop30 brasiliana sarà una conferenza mediatica, preparata per Instagram e per catturare like, e c’è bisogno di voci alternative, fuori dal coro. In bocca al lupo.

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Cop28: un accordo in cui il clima c’entra poco

Quello di Cop28 è un accordo che fotografa la situazione di un mondo che, oggi, ha altre priorità rispetto al clima, dalle guerre all’economia. L’abbraccio tra John Kerry e Xie Zehnua, anziani inviati speciali dei rispettivi governi, è una questione politica più che ambientale. Un esercizio di diplomazia in uno scenario alla ricerca di stabilità, che non favoriva scossono e che alla fine si è risolto nel “business as usual”. Vediamo perché.  

Lo scontro tra Usa e Cina e la diplomazia del clima

Il contesto è la fine del mondo unipolare seguito alla caduta del muro di Berlino. Tramontata l’era della globalizzazione con il sogno di un governo globale, il mondo di oggi ha diversi centri di gravità, sempre più lontani dal Nord America e più vicini all’Asia.

La contesa chiave è tra le due superpotenze: se gli Stati Uniti sono in declino, la Cina, dal canto suo, è in ascesa. Tra i due giganti c’è una partita aperta su tutti i fronti, da quello commerciale a quello geopolitico. Il clima è, forse, l’unica sponda rimasta ad alleggerire la tensione.  

Washington prova a stringere alleanze in Asia. Pechino risponde.

Una buona sintesi la dà Robert Ross, professore di Scienze politiche al Boston College. “La Cina vuole più sicurezza in Asia orientale – dice il politologo -,  ed è determinata a minare le alleanze americane nella zona vicino alle proprie coste” dice. “Gli Stati Uniti, invece, stanno resistendo, cercando di mantenere il proprio ruolo di grande potenza, anzi: di unica superpotenza globale. E per questo motivo hanno innescato una guerra commerciale e tecnologica e incrementato la cooperazione con l’Europa, Corea del Sud, Taiwan, Filippine: tutto per indebolire il sistema economico cinese, rallentarne la crescita di Pechino e restare numero uno”.

Ricordiamo alcuni episodi, per sottolineare come, per comprendere Dubai, occorre allargare lo sguardo oltre all’ambiente: il bando di Huawei da parte del governo statunitense, i palloni spia cinesi intercettati sul suolo americano, i dazi reciproci sulle importazioni, le leggi come l’Inflation Reduction Act che privilegiano le imprese locali, e a cui Pechino ha risposto. Non solo. Nei giorni scorsi il governo cinese ha ordinato ai dipendenti statali di non utilizzare iPhone e Samsung come dispositivi per il lavoro, escludendo i due marchi. Per Apple (la più grande azienda americana) un chiaro segnale e uno spauracchio di quanto potrebbe accadere in caso la tensione si alzasse, dal momento che lì produce anche la maggior parte dei propri cellulari e realizza un quinto del fatturato.  

La politica ondivaga degli Usa sul clima

La politica climatica statunitense non ha molto da insegnare: dal rifiuto di aderire al protocollo di Kyoto al ritiro dall’Accordo di Parigi, sono tante le contraddizioni tra parole e fatti. La dichiarazione di Sunylands, resa pubblica il 14 novembre (due settimane prima di Cop), segna l’accordo tra Usa e Cina per spingere le rinnovabili. Una dichiarazione di buone intenzioni: ma in realtà Washington non ha mai prodotto tanto petrolio quanto oggi (qui una statistica che parte dal 1920) e anzi: negli ultimi quindici anni ha praticamente triplicato il numero di barili pompati.

Contraddizioni che, dalla prospettiva del Sud globale, si vedono chiaramente.

Come scrive il Financial Times, non certo un giornale terzomondista:

[…]something profound is happening in the world — a kind of metaphysical detachment of the west from the rest. Where many people in the rest of the world once saw the west as the answer to their problems, they now realise that they will have to find their own way”.

Le agenzie di pubbliche relazioni aiutano l’Ovest con i media e il pubblico di casa a far passare per “storico” un accordo che è un compromesso al ribasso; ma tre quarti del mondo che prima vedeva nell’Occidente guidato dall’America il parente ricco che ce l’ha fatta, un esempio da imitare, ha acquisito autocoscienza e non gli riconosce più alcuna autorità morale. Dall’Africa al vicino Oriente, dal Medio Oriente al Sudamerica fino all’Asia, è molto più forte il ricordo del passato coloniale e dello sfruttamento.

La Cina e la corsa allo sviluppo

Dal canto proprio, nonostante la Cina sia il Paese con la maggior potenza rinnovabile installata, Pechino non ha alcuna intenzione di lasciare petrolio e carbone a breve. E non è neanche particolarmente interessata a chiarire il proprio status di Paese ormai sviluppato, col dovere – quindi – di essere in prima linea nella transizione e di contribuire in maniera importante dal punto di vista finanziario alle varie iniziative multilaterali. Soprattutto in un momento in cui l’economia nazionale sta rallentando, come quello presente.

L’Opec

Se i giganti non si muovono, non si sogna certo di farlo per prima l’Opec, l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio. Anzi. Capeggiata dall’Arabia Saudita, ha fatto di tutto per bloccare un accordo a Dubai. Il benessere dei Paesi che affacciano sul Golfo Persico riposa sugli idrocarburi, e per quanto la necessità della transizione energetica sia ormai un fatto acclarato, ogni anno guadagnato significa, per chi li vende, migliaia di miliardi di dollari in più per preparare il futuro. Ai prezzi attuali, poi. Comprensibile, quindi, il rifiuto di cedere. Immaginate i grattacieli di Dubai senza i denari necessari alla costosa manutenzione: una città fantasma. La missione è riuscita, e infatti il testo dell’articolo 28 sul Global Stocktake, il più atteso, è così vago da far sorridere gli sceicchi, che possono cantare vittoria. Sui media occidentali sono stati dipinti come cattivi, l’unico capro espiatorio. Ma è troppo facile.

L’Africa e le piccole isole

Alla fine, a perderci èl’Africa e, soprattutto, le piccole isole, che fra qualche anno rischiano di vedersi sommerse. Se la nascita nel 2022 del fondo per il loss and damage era sembrato l’alba di una nuova era in cui sarebbe stato il Sud globale a dettare l’agenda climatica, quest’anno le posizioni tra G77 (il gruppo negoziale che accoglie buona parte del global south) e Cina paiono essersi allontanate. Qualcosa non torna. Le piccole isole hanno protestato per un accordo che a molti è parso un golpe – approvato in fretta e furia con una procedura irrituale a meno di due minuti dall’apertura della plenaria finale – ma con un comunicato diffuso in quelle stesse ore l’hanno parzialmente appoggiato. Resta da chiedersi in cambio di quale contropartita. Al buio delle dark room, al riparo da microfoni e taccuini nelle ultime quarantotto ore di clausura assoluta, tante sono state le trame tessute. Ma meglio fermarsi qui.

Finanza

Infine, nell’accordo di Dubai manca la finanza. Ancora una volta, non ci sono i soldi per consentire agli stati poveri di fare la transizione. E i denari sono la chiave di volte di tutto: senza, parliamo di filosofia buona per fare titoli di giornale, ma priva di impatto sulla realtà. Ci sono voluti quindici anni per raggiungere la soglia di cento miliardi di dollari per l’adattamento climatico: in realtà, ne servirebbero tremila ogni dodici mesi, trenta volte tanto. Il fondo per il loss and damage reso operativo due settimane fa all’inizio della conferenza di Dubai ha raccolto circa ottocento milioni di euro: gli Usa, storicamente contrari,  ne hanno messi solo diciassette. Poniamo che servano a beneficiare 140 paesi:  il conto fa  5,7 milioni a testa, a cui togliere le commissioni per la Banca mondiale (mi dicono attorno al 15%, qualcuno sostiene di più). Secondo un amico, quattro chilometri di ferrovia per arrivare dall’aeroporto di Malpensa a  un paese vicino costano circa duecento milioni di euro. I commenti li lascio a chi legge.

In conclusione

Articolo troppo lungo, mi scuso. Quale sarebbe stato, allora,  un risultato ottimale per questa Cop che si è tenuta  in uno dei più grandi paesi esportatori di petrolio? Dal mio punto di vista: phase down con tabella di marcia meno vaga che consentisse di centrare la finestra del 2030; passi differenziati tra mondo occidentale e paesi in via di sviluppo; vera finanza climatica.

Cito di nuovo il Financial Times.

We have to talk to each other. But we must do so as equals. The condescension must end. The time has come for a dialogue based on mutual respect between the west and the rest”. Dopo la delusione iniziale, che – confesso – a Dubai mi ha preso, è il momento di tirare una linea e ricominciare a rimboccarsi le maniche, lavorare per il futuro. Per far sì che sia migliore del presente. Qualcuno lo chiama il dovere dell’ottimismo. E probabilmente ha ragione.

Foto di Travis Leery su Unsplash

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Troppi partecipanti: chi può permettersi di organizzare le Cop?

Dubai – Pare che nessuno voglia organizzare le prossime Cop. O possa permetterselo. La conferenza viene assegnata a turno, procedendo per macroaree , ma è necessario il consenso di tutti i paesi della zona per ottenere l’incarico. L’anno prossimo toccherebbe all’Europa dell’est, ma il veto della Russia, contraria a paesi Ue per via del sostegno all’Ucraina, rischia di bloccare tutto. Se l’accordo non arrivasse, le regole prevedono che tocchi all’ultimo organizzatore, cioè gli Emirati. Ma il presidente Sultan al Jaber ha già detto, in sostanza, che il Paese non è disponibile.  Si valuta l’idea di andare a Bonn, dove tutto cominciò negli anni Novanta. Ma anche la Germania non ci tiene. E nelle ultime ore ha preso quota l’ipotesei Azerbaijan. Come finirà lo vedremo.

Il fatto è che le conferenze stanno diventando sempre più grandi: quest’anno ci sono circa ottantamila partecipanti. Anche una città come Dubai e una struttura come quella del centro congressi costruito per l’Expo 2020 faticano a ospitarle. Il record precedente appartiene a Sharm el Sheikh l’anno scorso: praticamente un raddoppio in dodici mesi. Bonn, città di trecentomila abitanti, non potrebbe permetterselo. Anche per la difficoltà di alloggiarle: come si vide bene a Glasgow, con stanze affittate anche a cinquemila euro a notte dagli speculatori, e delegati che dormivano a due ore di treno.

A Dubai invece gli spazi ci sono, ma il problema sono le code dovute ai controlli che le procedure antiterrorismo impongono. I primi giorni servivano anche due ore per entrare. Il che pesa, e parecchio, sulla fatica dei delegati, le cui giornate cominciano molto presto e finiscono, al solito, molto tardi. La situazione è migliorata, ora che ci si avvia alla fine.

Insomma, per fare una battuta, a causa delle code pare che non ci sia la fila per organizzare le Cop. Il Brasile ha già prenotato quella del 2025 a Belem, in Amazzonia. Darebbe visibilità a un Paese che si trova ad affrontare una crisi dopo l’altra, l’ultima la siccità proprio nel polmone verde.

Ma se organizzare una conferenza delle parti è il modo per ottenere l’attenzione che molte tematiche richiedono e di cui molti Stati hanno bisogno, il problema è che non tutti sono in grado di gestire un impegno del genere a livello logistico. Da conferenze di nicchia, per esperti, come erano nate negli anni Novanta (la prima a Bonn fece registrare tremila delegati, tutti tecnici), le Cop si sono democratizzate di  pari passo con il ruolo che la crisi del clima ha assunto nel dibattito pubblico.

È il paradosso dell’inclusività – dice Jacopo Bencini, policy advisor della rete di scienziati Italian Climate Network -. Si è risposto sì alle richieste di incremento badge da parte delle delegazioni, che si sono costruite delle professionalità di cui nei primi anni non disponevano e le portano con sé per dare forza all’azione negoziale; ma si è risposto in maniera affermativa anche alle nuove richieste di rappresentanza da parte di media, osservatori e società civile”. Senza parlare dei lobbisti, un esercito che cresce di anno in anno e comprende molti grandi gruppi coinvolti nelle fonti fossili, in grado di mettere pressione ai governi e ai negoziatori. Quest’anno si è toccato il numero record di 2.456 persone con legami con l’industria del petrolio e delle fonti fossili, secondo la stima della rete Kick Big Polluter Out.

Non solo. L’attenzione internazionale può trasformarsi facilmente in un boomerang: tutto deve essere perfetto, nessuno può permettersi di sbagliare con il meglio della stampa internazionale radunato in massa per coprire l’evento. L’anno scorso a Sharm el Sheikh divenne virale il video di una perdita del sistema fognario: un odore nauseabondo per un paio di giorni si sparse sulla vasta area della conferenza, con liquami che scorrevano tra i viali. Non una bella fotografia. Per non parlare del fatto che la costruzione dei siti spesso viene portata a termine con l’impiego di manodopera a basso costo, e l’attenzione mediatica attira le inchieste.

Inoltre, il tema delle proteste: se gli Stati mediorientali negli ultimi due anni non si sono fatti problemi a vietarle nonostante le critiche a livello internazionale, in alcune realtà la faccenda può diventare più problematica, se non altro per una questione di reputazione: non sono molti i governi che ci tengono ad apparire come autoritari.

La somma porta alla difficoltà, per le Nazioni unite, di trovare un sito. L’Australia si è offerta per il 2026; il presidente indiano Modi ha proposto l’India per il 2028. La partita è aperta. Un altro dei nodi da sciogliere per i prossimi anni, e nemmeno il più semplice. In crisi c’è il criterio della turnazione: quello, cioè, che fornisce rappresentatività anche alle aree del mondo meno mediatiche.

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